Moro, Aldo
M. (Maglie 1916-Roma 1978) dopo gli studi liceali a Taranto, ottenuta la maturità classica nel 1934, conseguiva la laurea nel 1938 presso la facoltà di Giurisprudenza di Bari con una tesi sulla capacità giuridica penale, pubblicata l’anno successivo. In questi anni aderiva alla Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), divenendo prima presidente del circolo barese e poi, dalla tarda primavera del 1939 al 1942, presidente nazionale. La responsabilità nazionale della FUCI (vissuta a fianco di Giovanni Battista Montini) contribuì all’arricchimento della sua formazione in senso religioso e politico-culturale. Sempre nell’ambito del mondo cattolico M. fu nominato presidente, nel 1945, del Movimento laureati di Azione cattolica e assunse la direzione della rivista “Studium” fino al 1948. Nel frattempo aveva già intrapreso la carriera universitaria: nel 1941 la facoltà di Giurisprudenza di Bari gli conferiva l’incarico di Filosofia del diritto (il suo corso di lezioni intitolato Lo Stato del 1943 è stato considerato da Norberto Bobbio come il primo consistente abbozzo del pensiero maturo di M.) e di Storia e politica coloniale. Dopo aver fondato a Bari nel 1943 la rivista “La Rassegna” insieme ad Antonio Amendola, Pasquale Del Prete e Armando Regina che venne pubblicata fino al 1945, aderì alla DC pugliese nel gennaio 1944. Fu comunque soprattutto l’attività nella FUCI nazionale, nel Movimento laureati e nella rivista “Studium” (dove trattava spesso argomenti politici e istituzionali) a imporlo nel mondo cattolico quale figura autorevole, preparata, capace di muoversi agevolmente sul terreno dei diritti e delle idee politiche, seguendo quei principi che costituivano il nucleo fondamentale della dottrina sociale cristiana e, quindi, a proiettarlo, non ancora trentenne, all’Assemblea costituente nel giugno 1946 dove venne eletto con 27.801 voti di preferenza. Designato nella Commissione dei settantacinque incaricata di elaborare il progetto della Carta costituzionale, poi nella prima sottocommissione che si occupò dei diritti e dei doveri dei cittadini, in queste sedi come pure in Assemblea plenaria fu relatore su molti argomenti importanti: tra l’altro in Assemblea costituente il 13 marzo 1947 fu l’oratore ufficiale per la DC sui principi fondamentali della Costituzione, effettuando un intervento che costituisce un punto di riferimento indispensabile per capire l’impostazione che poi la Carta ha avuto. Respingendo la tesi di chi voleva una Costituzione semplicemente a-fascista, M. sottolineava che in quella fase era «in gioco tutta la civiltà del nostro paese» e che «fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello Stato». Evidenziava anche che la Costituzione doveva raccordarsi con la situazione storica italiana e che, nascendo «in un momento di agitazione e di emozione», non poteva prescindere da una «comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia». Insieme a Giuseppe Dossetti, per conto della DC fu tra coloro che ebbero un ruolo fondamentale nell’elaborazione del testo costituzionale. Il che rifletteva bene quanta attenzione M. prestasse al tipo di Costituzione che si stava elaborando, ai valori che dovevano essere posti a fondamento, al significato politico-civile ed etico che la carta costituzionale avrebbe rappresentato. La sua elezione, nel luglio 1947, a vicepresidente del gruppo democristiano costituiva un attestato della considerazione che l’uomo stava riscuotendo e dell’autorevolezza che i suoi interventi stavano suscitando. Anche solo una parziale elencazione di argomenti alla cui elaborazione e discussione prese parte indica quanto sia stato di grande interesse il contributo di M. ai lavori della Costituente. Intervenne di frequente in tema di rapporti civili sulla disciplina della libertà personale, sulle garanzie processuali, sui diritti della personalità giuridica, sulla tutela della libertà di manifestazione del pensiero e di associazione; sulla famiglia e sull’indissolubilità del matrimonio, sulla scuola, sul diritto all’istruzione, sulla libertà di insegnamento dei docenti; sulla libertà sindacale e sui limiti del diritto di sciopero; sul fatto che l’organizzazione interna dei partiti dovesse ispirarsi ai principi democratici come pure su tematiche di notevole rilevanza riguardanti l’ordinamento dello Stato (referendum abrogativo, scioglimento anticipato delle Camere).
Chiusa la fase dell’Assemblea costituente, alle elezioni del 18 aprile 1948 M. veniva eletto deputato nella circoscrizione Bari-Foggia, poi riconfermato nelle legislature successive con un numero altissimo di preferenze, spesso crescente. L’opinione pubblica italiana ebbe dimestichezza e familiarità con la figura di M. quando, nel marzo 1959, divenne segretario nazionale della DC e soprattutto quando costituì il suo primo governo nel dicembre 1963. Ma M., personaggio schivo e riservato, anche prima di ricoprire tali importanti cariche, ebbe ruoli tutt’altro che di secondo ordine. Nella prima legislatura, appena trentaduenne, entrò nel V governo di Alcide De Gasperi quale sottosegretario agli Esteri (maggio 1948-gennaio 1950); nella seconda legislatura, dopo le elezioni politiche del 1953, prima fu eletto capogruppo del gruppo parlamentare democratico cristiano, poi divenne ministro della Giustizia (luglio 1955-maggio 1957) nel I governo di Antonio Segni, quindi ministro della Pubblica istruzione nel successivo governo Zoli (maggio 1957-luglio 1958). La carica di ministro dell’Istruzione fu mantenuta da M. (luglio 1958-febbraio 1959) nel governo di Amintore Fanfani formatosi dopo le elezioni politiche del 1958.
Va rilevato che le cariche di natura politica non impedirono a M. il proseguimento degli studi giuridici, l’avanzamento nella carriera universitaria (nel 1947 divenne professore straordinario e nel 1951 professore ordinario di diritto penale a Bari) e, particolarmente, il mantenimento dell’insegnamento prima a Bari e poi a Roma (dal 1963 presso la facoltà di Scienze politiche occupando la cattedra di Istituzioni di diritto e procedura penale). «Insegnante scrupoloso», come lo ha definito Jemolo, la mattina del 16 marzo 1978 avrebbe dovuto recarsi in facoltà per la discussione delle tesi. Continuando a fare lezione, ebbe a osservare Giovanni Spadolini, M. difendeva la compatibilità dell’insegnamento universitario con la militanza politica.
Ai primi del 1959 la DC attraversò una fase particolarmente delicata. Al successo delle elezioni politiche del 1958 (la campagna elettorale fu condotta dal segretario politico Amintore Fanfani all’insegna dell’apertura a sinistra) non seguì la formazione di governi corrispondenti agli intenti espressi nella campagna elettorale. Il governo Fanfani, costituitosi nel luglio 1958 anche con l’obiettivo di preparare l’apertura a sinistra, ebbe invece vita breve e difficile per le tensioni e i contrasti che emersero sulla prospettiva del centrosinistra sia all’interno della DC sia tra i socialdemocratici. Le dimissioni di Fanfani da capo del governo e da segretario politico (2 febbraio 1959) si accompagnarono alla crisi della corrente di Iniziativa democratica, che fino ad allora aveva sostenuto la linea Fanfani. In una riunione presso il collegio delle suore dorotee al Gianicolo, convocata da parte di alcuni politici (Antonio Segni, Paolo Emilio Taviani, Luigi Gui ed Emilio Colombo) contrari alla gestione Fanfani, emerse la candidatura di M. – considerato uomo di grande dirittura morale e intellettuale, molto apprezzato per la sua moderazione di temperamento – alla guida del partito non certo con l’intenzione di investirlo come futuro leader quanto per tentare di mandare in porto una operazione di ricucitura di una realtà partitica troppo frammentata. Doveva essere una candidatura provvisoria fino al successivo congresso del partito, previsto per l’autunno. In questo contesto, il 16 marzo 1959, nel Consiglio nazionale della DC tenuto presso la “Domus Mariae”, M. fu eletto segretario con una votazione a maggioranza e con i voti contrari della sinistra di base, della sinistra sindacale e di gran parte dei fanfaniani.
Ben noto agli addetti ai lavori per l’impegno espresso dai tempi della Costituente, per le sue idee politiche e culturali, M. apparve e fu un uomo politico nuovo, che per la sua prudenza politica, per la sua abilità di mediatore, per le sue grandi capacità di argomentare in maniera pressoché perfetta le sue proposte, riuscì ad acquisire ben presto una posizione di grande influenza nel partito e nella scena politica nazionale.
La DC, che dalla Costituente costituiva il perno del sistema politico italiano, al Consiglio nazionale di Vallombrosa dell’estate 1957 aveva indicato nel centrosinistra la linea politica tendenziale del partito, considerando chiusa l’era delle alleanze di centro. Il centrosinistra, però, incontrava molte resistenze nelle correnti moderate del partito oltre che nel mondo cattolico, nelle gerarchie ecclesiastiche, in Vaticano e presso l’alleato americano. La crisi del governo e della segreteria Fanfani veniva letta anche entro questi parametri. Nel nuovo ruolo di segretario politico della DC, M., dopo un primo breve periodo utilizzato per dare il migliore assetto al proprio staff operativo e all’organizzazione del partito, si mosse perseguendo l’obiettivo del centrosinistra, che significava apertura ai socialisti e netta chiusura al PCI, attraverso un percorso che doveva prioritariamente preservare l’unità della DC. In merito al partito, al momento dell’insediamento dichiarò: «Sento la insostituibile funzione del partito come filtro delle esigenze complesse della vita politica, economica e sociale del paese; la sento come strumento di selezione, di scelta in relazione alle varie esigenze della vita nazionale; la vedo come manifestazione efficace di opinioni, come strumento di educazione e di guida del popolo italiano». Più volte tornerà a ripetere e insistere sulla centralità del partito nella società italiana, sulla necessità della sua unità come obiettivo e condizione per un’azione efficace al servizio della società stessa e per la più ampia valorizzazione del ruolo dei cattolici nella realizzazione di una democrazia partecipata in una realtà quale quella italiana tanto difficile e complessa. L’unità del partito era essenziale, dato che diverse correnti (quella dorotea, la corrente “Primavera” che faceva riferimento a Giulio Andreotti, la corrente “centrista” che faceva riferimento a Mario Scelba e Guido Gonella) avevano esplicite riserve sull’apertura a sinistra, che potevano preludere a defezioni o spaccature. Così, mentre intervento dopo intervento, discorso dopo discorso si andava delineando la statura politica di M., egli al VII congresso del partito (Firenze, 23-28 ottobre 1959) con la sua abilità di mediazione riuscì a far stemperare molti contrasti di corrente e a far confermare ufficialmente la linea di centrosinistra, che avrebbe realizzato un allargamento delle basi della democrazia, rispecchiando così proprio la funzione storica che la DC intendeva assolvere nella società italiana. Solo al successivo congresso DC (Napoli, 27-31 gennaio 1962) M. riuscì a fare accettare in maniera definitiva alla maggioranza del partito la formazione di governi di centrosinistra. Il congresso è stato anche ritenuto un «capolavoro della sua arte politica». L’esito rivestì particolare importanza. M. era riuscito nell’intento di portare la DC unita (si opponeva la corrente di centrismo popolare di Scelba e Gonella, cui si era aggiunto il gruppo di Andreotti, con limitato peso complessivo) a un appuntamento decisivo per il partito e per la politica italiana. I contenuti della politica di centrosinistra erano stati approfonditi nei convegni ideologici di San Pellegrino, la cui organizzazione era stata affidata da M. a Gian Battista Scaglia, che era a lui succeduto nella direzione della rivista “Studium” fin dal 1948. In questo percorso dal congresso di Firenze a quello di Napoli M. non era riuscito a evitare – o per lo meno gliene era sfuggito il controllo – l’esperienza del governo Tambroni (tra primavera ed estate 1960), senz’altro una fase critica e negativa della politica italiana, complicatasi anche per le contraddizioni politiche che lo scontro tra le correnti del partito aveva generato. A quello di Fernando Tambroni seguirono i governi presieduti da Fanfani, che in piena collaborazione con il segretario DC caratterizzarono la fase preparatoria e di avvio del centrosinistra.
Dopo le elezioni politiche del 1963, in cui la DC scontò a favore del versante moderato le realizzazioni effettuate durante il governo Fanfani e soprattutto la nazionalizzazione dell’energia elettrica, toccò a M. di presiedere i governi di centrosinistra “organico” con la presenza di ministri socialisti guidati da Pietro Nenni in qualità di vicepresidente del Consiglio. Apparve naturale che a gestire questa nuova esperienza fosse M., cioè l’uomo che come Segretario DC aveva pilotato la convergenza tra i partiti di centro e il PSI. Rispetto a chi auspicava che a presiedere il governo continuasse Fanfani con il suo riformismo e piglio realizzatore, prevalse la posizione della corrente dorotea che designava M., consentendo così alla stessa (in primis a Mariano Rumor) di avere in mano la piena gestione del partito.
M. presiedette tre governi di centrosinistra tra il dicembre 1963 e il giugno 1968. Questo centrosinistra “organico” veniva alla luce dopo un dibattito protrattosi per diversi anni, che aveva suscitato nel paese molte aspettative ma anche contrasti accesi sia nella DC che nel PSI (questo subiva nel gennaio 1964 addirittura la scissione del Partito socialista italiano di unità proletaria, PSIUP); entrava nella fase operativa mentre si esauriva la fase spettacolare del boom economico, seguita da fasi anche recessive e di crescita del costo del lavoro. Talune riforme strutturali (legge urbanistica, programmazione, ordinamento regionale), che avrebbero dovuto essere qualificanti, per ragioni varie – tra cui le pressioni contrapposte dei dorotei nella DC e dei lombardiani nel PSI – o non furono adottate o furono concepite senza avere quella incisività prima ipotizzata. La riforma ospedaliera, la legge sulle pensioni, gli aiuti all’agricoltura e altri provvedimenti non riuscirono a scalfire la delusione che il centrosinistra non avesse corrisposto alle attese. Lo scandalo Servizio informazioni forze armate (SIFAR) e la mancata riforma universitaria, bloccata essenzialmente dalla contestazione giovanile, influirono anche sull’esito elettorale del maggio 1968. Appare equilibrata l’analisi di Pietro Scoppola: vi fu un «processo di svuotamento dei contenuti programmatici e di sopravvivenza di un’alleanza fine a sé stessa». Su M. presidente del Consiglio, è stata riversata la responsabilità delle mancate riforme, della poca incisività, facendo emergere la considerazione generale del centrosinistra come grande opportunità politica mancata. Alle elezioni politiche del 1968, anche se la DC registrava un piccolo incremento percentuale rispetto al 1963 (dal 38,3% al 39,1%), con la perdita grave registrata dai socialisti entrava in crisi la strategia politica di centrosinistra, come era stata ipotizzata da M. La conseguente necessità di ripensare la politica di centrosinistra portava nel periodo estivo alla costituzione del governo “balneare” presieduto da Giovanni Leone e poi, nel dicembre 1968, ritrovata la disponibilità dei socialisti per una coalizione di centrosinistra, alla costituzione del governo Rumor-De Martino. Le “cristallizzazioni” interne della corrente dorotea avevano posto M. fuori dal governo, in una posizione defilata. Egli, dopo il silenzio dei mesi estivi, al Consiglio nazionale del partito del 21 novembre 1968 riprese a tessere le fila della politica italiana con una riflessione come al solito intelligente e profonda. Rispetto ai “tempi nuovi che avanzavano”, M. esplicitava che la DC doveva fare una sintesi tra il nuovo che emergeva e i valori che dovevano essere salvaguardati. Nell’ambito di una “politica intensamente umana”, M. sollecitava il partito a sintonizzarsi con convinzione sul quadro nuovo che la società prospettava, «in una visione dell’uomo e della società, della libertà, della dignità, della giustizia e della pace, che si ricollega ad idealità cristiane, senza la pretesa di interpretarle in modo esauriente ed esclusivo». Nella medesima sede, cogliendo di sorpresa tutti, comunicava di aver deciso di «assumere una posizione autonoma nella organizzazione interna della DC», cioè di passare all’opposizione. Il che avveniva anche con la costituzione di un proprio gruppo, una corrente: la sua separazione dalla vecchia maggioranza dorotea, come precisava due mesi dopo, era un’operazione «dolorosa ma feconda», «scomporre per ricomporre, abbandonare a poco a poco il vecchio, per permettere al nuovo di nascere». Questa considerazione attenta dei fermenti e delle esigenze della società da parte di M. continuava sino all’XI congresso del partito a Roma (fine giugno 1969), dove, alla fine di un intervento in cui sottolineò molto il valore della collaborazione con i partiti laici e socialisti, M. fu portato in trionfo. Benché egli fosse in minoranza (la sua corrente raccolse l’8% dei voti all’interno della DC), l’assemblea congressuale ne apprezzava la compiutezza di analisi, essenziale per la linea politica del partito. Quando ad agosto 1969, in seguito alla crisi del partito socialista, si formò il secondo governo Rumor, un monocolore, M. vi entrò come ministro degli Esteri, carica che mantenne anche nei governi successivi (Rumor, Colombo, Andreotti) fino a giugno 1972, tornando poi a ricoprirla nei governi Rumor dal luglio 1973 al novembre 1974. Le linee di politica estera sviluppate dal M. ricalcavano quelle tracciate da Alcide De Gasperi e Carlo Sforza (con l’ausilio dello stesso M. quando fu giovane sottosegretario). Si può inoltre ricordare che il giovane M., collaboratore e direttore della rivista “Studium”, affrontava molti temi di politica estera, particolarmente il problema della pace collegato al ruolo dell’ONU. Sia come presidente sia come titolare della Farnesina operò affinché l’ONU potesse rafforzare il suo ruolo di mediazione e di pace nelle varie “zone calde” del mondo; affinché avanzasse la prospettiva dell’Europa unita, democratica, aperta, capace di porsi come interlocutrice forte nel processo di distensione Est-Ovest inclusiva e aperta allo sviluppo di una dimensione sociale e dei diritti e all’Associazione con paesi mediterranei – nel marzo 1965 aveva redatto una relazione al Parlamento europeo che sosteneva fortemente l’associazione di Israele alla Comunità europea in base a quanto previsto dall’art. 238 del Trattato istitutivo della CE –; affinché l’Italia nel Mediterraneo sviluppasse una politica di cooperazione e di pace; affinché fossero destinate all’assistenza economica e tecnologica verso i paesi del Terzo mondo le risorse rese disponibili dalla progressiva realizzazione del disarmo. Entro questa cornice operò in varie sedi diplomatiche e con viaggi per contribuire alla promozione della pace (come ad esempio sollevando a Montecitorio nel luglio 1971 il «bisogno della partecipazione della Cina per l’edificazione di una pace durevole» dopo il reciproco riconoscimento diplomatico avvenuto tra Italia e Cina nel novembre 1970), per la ricerca di soluzioni accettabili nella questione israelo-palestinese sottolineando la necessità di far svolgere un ruolo centrale all’ONU, nella guerra in Vietnam, senza trascurare di tutelare gli interessi dell’Italia (ad esempio i rapporti con l’Austria per la questione dell’Alto Adige; i rapporti con la Libia divenuti difficili nel 1970, il riavvicinamento diplomatico alla Iugoslavia, la soluzione delle controversie con l’Etiopia). Con la sua azione cercò di imprimere un maggiore dinamismo all’Italia sul piano internazionale e di contribuire alla distensione e all’eliminazione delle cause delle guerre e dei conflitti, ed in particolare le povertà di ogni natura illustrando in un suo discorso dell’8 ottobre 1969 all’Assemblea delle Nazioni Unite una «concezione di pace integrale», al cui interno doveva manifestarsi una «strategia globale di sviluppo» sulla base degli accordi di associazioni sorti tra la Comunità economica europea (CEE) e altri paesi africani e mediterranei. Cercando di conciliare la fedeltà al blocco occidentale con l’apertura ai paesi in via di sviluppo (PVS), M. schierò l’Italia su posizioni favorevoli al Nuovo ordine economico internazionale (NOEI). L’Italia, in questo periodo, anche grazie alla mediazione e capacità di dialogo di M. nel 1970 e nel 1974 venne eletta membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU per i bienni successivi. Durante la presidenza di turno italiana del Consiglio europeo nel 1975 operò per intensificare i rapporti tra CEE e PVS e la Politica europea di cooperazione allo sviluppo, azione che rispondeva sia agli interessi commerciali nazionali che ai valori umani e alla prospettiva di pace e integrazione tra i popoli. Nel febbraio del 1975 inaugurò a Firenze l’Istituto universitario europeo (IUE). Favorevole alla distensione tra i due blocchi e sostenitore della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) il cui documento conclusivo, l’Atto di Helsinki, firmò in qualità di presidente del Consiglio e presidente di turno della Comunità europea (v. Presidenza dell’Unione europea), M. ipotizzò nel 1972 uno strumento analogo per intensificare la cooperazione euromediterranea che si scontrò però con le oggettive e dure divisioni nell’area (v. anche Partenariato euromediterraneo). Già nel 1964 M. aveva presentato un memorandum per inserire gli accordi di associazione dell’area mediterranea in un quadro globale, idea ripresa con il varo della politica mediterranea globale avvenuta al Consiglio europeo dell’ottobre-novembre 1972. Il quadro delle relazioni internazionali e dei rapporti tra paesi occidentali e paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC si deteriorò dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 marginalizzando l’apertura di M. per un dialogo e un rapporto ispirati ai valori della giustizia tra PVS e paesi industrializzati.
Più precisamente, in riferimento al ruolo svolto a favore dell’integrazione europea vanno ricordati il suo appoggio all’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea sostenendone l’adesione e proseguendo la linea tenuta da Pietro Nenni, sin dalla richiesta italiana avanzata alla Conferenza dell’Aia del dicembre 1969 di iniziare i negoziati con la Gran Bretagna entro il marzo 1970, non accolta, ma sintomatica di questo atteggiamento rimasto sempre costante; l’appoggio all’Allargamento della CEE anche ai paesi mediterranei e forme di integrazione con i paesi mediterranei; la sua convinzione di dover dare un impulso all’integrazione politica del continente a tutti i livelli – politico-istituzionale, economico, monetario – e anche riformando il Fondo sociale europeo, impostando nuove politiche europee nei settori industriale, dell’istruzione, culturale, della ricerca e della gioventù, anche per fare uscire dalla crisi l’Italia; l’azione di M. volta allo scopo, raggiunto, di ottenere per l’Italia, per la prima volta, la nomina di Franco Maria Malfatti alla presidenza della Commissione europea, durata soltanto un anno e mezzo dal 1° luglio 1970 al 21 marzo 1972 a causa delle dimissioni di quest’ultimo; e infine e, soprattutto, la determinazione nella conduzione del Consiglio europeo di Roma dell’1-2 dicembre 1975 durante il quale per superare il dissenso di Danimarca e Gran Bretagna fece stabilire con un voto a Maggioranza qualificata le Elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale per il periodo maggio-giugno 1978 (poi slittate all’anno seguente), oltre che nella stessa sede l’istituzione di un passaporto europeo, premessa per garantire la Libera circolazione delle persone e una rappresentanza unica della Comunità europea nel negoziato tra Nord e Sud. Nell’ambito della sua concezione politica, a differenza di quanto sostenuto di frequente, la politica estera non venne subordinata alle contingenze della politica interna italiana ma rappresentò uno spazio fondamentale per affermare un’azione unitaria, coerente e globale volta a congiungere in un’interdipendenza necessaria fondata su valori comuni il processo di distensione, la riduzione degli armamenti, la pace mondiale, l’integrazione europea e mediterranea e il rafforzamento dell’Italia in un contesto di equità, sviluppo e rispetto dei Diritti dell’uomo.
Quando M. dichiarò di voler assumere una posizione autonoma nel partito, sembrò che ormai fosse fuori dei giochi. Invece, osservatore sempre attento qual era della politica e dei cambiamenti nella società, divenne il riferimento più autorevole della politica italiana di quegli anni. Nel dicembre 1971, una volta caduta la candidatura Fanfani, M. avrebbe potuto essere eletto Presidente della Repubblica con l’appoggio delle sinistre, ma non insistette nella corsa al Quirinale non appena percepì che la propria candidatura poteva creare divisioni nel partito. Quando la DC con la segreteria Arnaldo Forlani, tra il 1971 e il 1972, ripropose un incontro con il PLI che escludeva il PSI, M. manifestò tutta la sua contrarietà, convinto sempre della migliore capacità riformistica del centrosinistra. Fu poi M. il regista della ricostituzione del centrosinistra al congresso DC di Roma del giugno 1973, che riportava Rumor alla presidenza del governo e Fanfani alla segreteria del partito.
Intanto dati i tempi nuovi dopo il Sessantotto e vista la crescita di consenso del PCI anche a seguito delle nuove scelte politiche adottate, M. avvertiva che il confronto con questo partito diventava una sfida sempre più impegnativa. Dopo il congresso comunista del febbraio 1969 concluse che, nel quadro di corretti rapporti istituzionali tra maggioranza e opposizione, poteva aprirsi quella che definì «fase di una strategia dell’attenzione» verso la presenza del PCI nella realtà politica e sociale italiana. Con puntiglio precisò che si trattava non di avviare con i comunisti una comune gestione del potere, ma di dar corpo a un serio e corretto rapporto dialettico, «il vero modo di essere della democrazia»: per quanto riguarda il rapporto con il PCI, M. aveva ben chiaro che quelle di DC e PCI erano esperienze storiche con «molte divergenze e limitate convergenze», ciascuna con «propria intuizione del mondo e propria visione dell’uomo». Entro queste coordinate M. si mantenne anche quando il PCI di Enrico Berlinguer avanzò nell’ottobre 1973, dopo i noti fatti del Cile, la proposta di compromesso storico, sostenendola nel paese e nel Parlamento con un impegno politico che guadagnò consensi ai comunisti alle elezioni regionali del 1975 e a quelle politiche del 1976. Dopo il referendum del 1974 sul divorzio e dopo la crisi del governo di centrosinistra di Rumor, toccò di nuovo a M. trovare la via d’uscita dall’impasse, in cui si trovava la politica, con un governo DC-PRI (23 novembre 1974), sostenuto anche da PSI e PSDI, che rimanevano nella maggioranza ma fuori del governo. Questo governo M. (il quarto), che nasceva nell’ambito delle forze politiche che sempre avevano sostenuto il centrosinistra, risentiva dello scontroso travaglio dopo la crisi petrolifera e dopo l’esito del referendum, ma respingeva il compromesso storico e si dichiarava aperto a un rapporto dialettico col PCI. Alla DC in piena crisi, dopo il risultato delle regionali del 1975, M. riusciva a imporre alla segreteria politica un personaggio quale Zaccagnini, che offriva l’immagine di un serio rinnovamento. Quando il PSI a fine dicembre 1975 optò per la politica degli equilibri più avanzati e per il conseguente ritiro della fiducia al governo, dopo un ampio e tortuoso dibattito toccò ancora a M. presiedere il governo (il quinto governo M., 12 febbraio 1976), che riceveva l’appoggio di DC e PSDI, mentre si astenevano PSI, PRI e PLI e votavano contro i comunisti e i missini. M. era estremamente consapevole della fragilità del quadro politico dopo tale scelta del PSI, che si muoveva in un’ottica di alternativa alla DC. Al congresso di questa nel marzo successivo, M. riconosceva che la politica di centrosinistra era stata considerata esaurita dal congresso del PSI; che non poteva essere riproposta meccanicamente, ma si trattava di salvarne “il nucleo vitale”, cioè «la collaborazione di due forze popolari certamente diverse, caratterizzate da peculiari tradizioni e intuizioni, ma capaci di confluire in un disegno rinnovatore e di giustizia della società italiana». Passando all’esame del PCI, rilevava che la sua evoluzione non poteva indurre a «considerare risolta la questione comunista»: nel respingere ancora il compromesso storico, lanciava l’idea che «un serio, rigoroso e rispettoso confronto con il PCI è lo strumento necessario e anche sufficiente per garantire la dialettica democratica». Le elezioni politiche del giugno 1976 premiavano DC e PCI, togliendo voti e forza a PSI e agli altri partiti intermedi. Non ritenendo che esistessero le condizioni per associare il PCI al governo, M. favoriva la formazione di un governo monocolore democristiano, guidato da Andreotti, che si reggeva sulla “non sfiducia”, cioè sulle astensioni, degli altri partiti dell’arco costituzionale (6 agosto 1976). A metà ottobre M. veniva eletto presidente del Consiglio nazionale della DC. L’uomo politico, ormai leader riconosciuto e incontrastato del partito, doveva difendere con un famoso discorso alla Camera (9 marzo 1977) la storia del partito («sulle piazze noi non ci faremo processare») dagli scandali che colpivano la politica italiana. Intanto in Parlamento si andava concretizzando con il PCI un confronto sempre più aperto su vari punti programmatici, formalizzato in un documento, riassunto poi nella mozione approvata dalla Camera il 15 luglio 1977, in cui i sei partiti si impegnavano su tale accordo di programma a sostenere il governo: la situazione politica stava cambiando con il passaggio dalle astensioni all’appoggio su un accordo di programma. Quando sul finire del 1977 il governo Andreotti entrava in crisi (dimissioni poi formalizzate il 16 gennaio 1978) poiché il PCI reclamava una partecipazione diretta a un governo d’emergenza ritenuto necessario dall’aggravarsi della situazione, toccò ancora a M. tessere le fila di quel progetto che avrebbe condotto alla costituzione del governo di solidarietà nazionale (16 marzo 1978), presieduto ancora da Andreotti, in cui il PCI entrava nella maggioranza ma non aveva rappresentanti nel gabinetto ministeriale. In una situazione che registrava assenza di alternative data l’impraticabilità di qualsiasi ipotesi di centrosinistra, tra gennaio e marzo 1978 la regia prudente e intelligente di M., tenendo anche conto delle pressioni del Dipartimento di Stato americano sulla DC e di quelle di Mosca sul PCI, operò particolarmente per arrivare ad un chiarimento sulla natura del governo in formazione, che non poteva essere un governo di emergenza come proponeva il PCI; per convincere i gruppi parlamentari democristiani a dare il proprio assenso all’entrata del PCI nella maggioranza ma non nel governo; per convincere il PCI che non c’erano le condizioni per un’alleanza politica (il compromesso storico). L’interpretazione più plausibile è che M., in quella situazione di emergenza, aggravata dai condizionamenti del quadro politico internazionale, con tutte le cautele possibili stesse operando per assicurare al paese un processo di “democrazia compiuta”. Egli, data l’evoluzione del PCI sul terreno democratico e potendo contare sul fatto che la DC aveva intrapreso un processo di rinnovamento e che quindi avrebbe potuto confermare la propria capacità aggregativa e rappresentativa, accettava un coinvolgimento graduale e temporaneo del PCI nella maggioranza, fatto che poteva costituire la premessa necessaria della legittimazione di questo partito a governare nell’ambito del gioco dell’alternanza e nel rispetto dei principi costituzionali della democrazia parlamentare.
Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il governo monocolore guidato da Andreotti – e sostenuto anche dai voti di PCI oltre che di PSI, PSDI, PRI – si presentava in Parlamento, il presidente della DC fu rapito da un commando delle Brigate rosse con un agguato in via Fani, mentre i cinque uomini della sua scorta venivano uccisi. La vicenda suscitò il più profondo sconcerto. Nelle settimane successive al rapimento, mentre l’apparato della polizia e i servizi di intelligence erano impegnati con deplorevole inefficienza nella ricerca del covo brigatista dove M. era tenuto in ostaggio, il confronto politico si sviluppò tra chi (essenzialmente DC e PCI) sosteneva la tesi della fermezza per la difesa delle istituzioni e di nessuna trattativa con le BR e chi (soprattutto PSI) assumeva un atteggiamento più possibilista, pur di salvare la vita dello statista pugliese, come egli stesso chiedeva disperatamente nelle tante lettere scritte durante la prigionia unitamente al “Memoriale” contenente giudizi sferzanti e impietosi nei confronti della classe politica, rinvenuto in fotocopia successivamente in altro covo delle BR. Nonostante l’accorato appello del papa agli “uomini delle Brigate rosse” e quello del segretario generale dell’ONU, dopo 55 giorni di sequestro il 9 maggio 1978 il cadavere di M. veniva fatto ritrovare in una Renault rossa nel centro di Roma in via Caetani, poco distante dalle sedi centrali di DC e PCI. Durante il Consiglio europeo di Brema nel luglio 1978 venne fatto approvare su richiesta dell’Italia una dichiarazione contro il terrorismo nella quale la Comunità esprimeva la volontà di «proteggere i diritti degli individui e le fondamenta delle istituzioni democratiche».
Nonostante cinque pubblici processi, due commissioni parlamentari d’inchiesta, un numero discreto di volumi frutto di studi e ricerche appassionate, la verità giudiziaria emersa e l’interpretazione politica o anche cinematografica hanno lasciato spazio a troppe incertezze, scontentezze, delusioni. Il caso o l’affaire M. resta sempre più, per dirla con Scoppola, «come un macigno nella storia della repubblica», costituisce un problema complesso e oscuro che ha condizionato come nessun altro lo svolgimento del sistema politico italiano.
Giancarlo Pellegrini (2012)