Movimento federalista europeo
La nascita del MFE e la sua evoluzione organizzativa
Il punto di partenza della vita del MFE è il Manifesto di Ventotene, scritto nell’agosto 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nell’isola al largo di Formia in cui erano confinati un migliaio di antifascisti. Il testo del Manifesto fu anche il risultato di un ampio dibattito, durato alcuni mesi, con Eugenio Colorni e sua moglie Ursula Hirschman, al quale partecipò un gruppo di confinati che dettero la loro adesione al Manifesto, e cioè Dino Roberto, Enrico Giussani, Giorgio Braccialarghe, Arturo Buleghin e lo studente sloveno Lakar. La diffusione negli ambienti della Resistenza delle tesi del Manifesto, che avvenne anche tramite il periodico clandestino “L’Unità europea”, portò alla fondazione formale del MFE nel corso di un convegno clandestino svoltosi nella casa di Mario Alberto Rollier il 27-28 agosto 1943 a Milano. Alla riunione parteciparono 31 persone: Arnaldo Banfi, Giangio Banfi, Ludovico Belgioioso, Giorgio Braccialarghe, Arturo Buleghin, Lisli Carini Basso, Vindice Cavallera, Eugenio Colorni, Ugo Cristofoletti, Alberto Damiani, Vittorio Foa, Giovanni Gallo Granchielli, don Ernesto Gilardi, Leone Ginzburg, Enrico Giussani, Ursula Hirschman, Willy Jervis, Elena Moncalvi Banfi, Guido Morpurgo Tagliabue, Alberto Mortara, Bruno Quarti, Dino Roberto, Mario Alberto Rollier, Ada Rossi, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria, Altiero Spinelli, Fiorella Spinelli, Gigliola Spinelli, Franco Venturi, Luisa Villani Usellini. Mancarono all’appuntamento Guglielmo Usellini e Cerilo Spinelli perché erano stati arrestati tra la fine di luglio e l’inizio di agosto mentre distribuivano un volantino federalista contenente l’appello a prepararsi alla guerra contro i nazisti.
Il MFE partecipò quindi alla Resistenza armata – in cui morirono Ginzburg, Colorni e Jervis – e svolse un’attività di contatti con gli ambienti della Resistenza europea, che portò nel luglio 1944 a Ginevra all’elaborazione di una Dichiarazione federalista dei movimenti di Resistenza. Questo documento e un congresso federalista, che Spinelli, passando dall’Italia ancora occupata alla Francia già liberata, organizzò a Parigi nel marzo 1945, furono tra le premesse da cui nacque nel dicembre 1946 l’Organizzazione sopranazionale dei federalisti europei, cioè l’Unione dei federalisti europei – Union of european federalists (UEF). Da allora fino a oggi – a parte il periodo 1959-1972, in cui vi furono due organizzazioni federaliste a livello europeo, il MFE sopranazionale e l’Azione europea federalista – l’UEF ha costituito il quadro organizzativo sopranazionale dell’azione del MFE.
Oltre che alla formazione e all’attività dell’UEF, il MFE partecipò, nell’ambito dell’UEF, all’organizzazione del Congresso dell’Aia del 7-10 maggio 1948, dal quale nacque il Movimento europeo (ME), cioè l’organo di collegamento europeo fra i movimenti per l’unità europea, i partiti, i sindacati e le associazioni culturali di orientamento europeistico. L’articolazione italiana del ME, cioè il Consiglio italiano del Movimento europeo (CIME) fu costituita nel dicembre 1948 su iniziativa del MFE, il quale promosse nello stesso anno anche la formazione di intergruppi federalisti nella Camera dei deputati (il primo presidente fu Enzo Giacchero, successivamente membro dell’Alta autorità della CECA e presidente dell’UEF) e nel Senato (il primo presidente fu Ferruccio Parri). Con qualche interruzione e con consistenza variabile gli intergruppi federalisti sono stati da allora una presenza sostanzialmente stabile nel Parlamento italiano. Quanto al CIME, esso fu rifondato nel 1956 senza la partecipazione del MFE che in quel periodo era radicalmente critico della politica europeistica dei governi nazionali imperniata sulla elaborazione e l’attuazione dei Trattati di Roma (vedi sotto). Il MFE entrò nel nuovo CIME nel 1966 e da allora ne ha costituito una delle colonne portanti. Nel 1995 il MFE è anche diventato membro ordinario del World federalist movement (WFM), facendo in tal modo da battistrada all’adesione all’organizzazione dei federalisti su scala mondiale da parte dell’UEF, che è avvenuta nel 2004.
Venendo alla leadership del MFE, vanno ricordate le seguenti personalità.
– Gli autori del Manifesto di Ventotene, Spinelli e Rossi, guidarono il MFE durante la guerra.
– Nell’immediato dopoguerra – in questo periodo la sede del centro direttivo del MFE fu a Milano – ebbero un ruolo preminente: Umberto Campagnolo (di Este), che fu segretario generale del MFE dall’ottobre 1946 all’aprile 1947 e diede poi vita alla Società europea di cultura; Giacomo Devoto (di Firenze), che fondò assieme a Piero Calamandrei nel 1945 l’Associazione dei federalisti europei (che si fuse l’anno successivo con il MFE); Guglielmo Usellini (di Arona), responsabile per l’Italia nel Bureau exécutif dell’UEF e, dal 1950 fino alla sua morte nel 1958, segretario generale dell’UEF.
– Dal 1948 al 1962 il leader del MFE fu Spinelli. Egli fu segretario generale dal giugno 1948 (e contemporaneamente la sede della segreteria fu trasferita a Roma) fino al 1958, allorché il centro direttivo del MFE tornò a Milano per rimanervi in sostanza fino a oggi. Spinelli assunse anche la segreteria della Commissione italiana del MFE sopranazionale (che in questa fase era sostanzialmente l’equivalente della segreteria generale del MFE) dal 1960 al 1962.
– Alberto Cabella (di Torre Pellice) fu segretario generale aggiunto del MFE fra il 1951 e il 1953 e poi segretario generale del Congresso del popolo europeo (vedi sotto) dal 1956 al 1958.
– Luciano Bolis (di Genova) fu segretario generale aggiunto dal 1953 al 1958, segretario generale del MFE fra il 1958 e il 1959, segretario del Congresso del popolo europeo e segretario della Commissione italiana del MFE sopranazionale fra il 1959 e il 1960.
– Franco Braga (di Bergamo) fu segretario della Commissione italiana del MFE dal 1962 al 1964, per poi essere sostituito fino al 1965 da Francesco Rossolillo (di Pavia), il quale è stato presidente dell’UEF dal 1990 al 1997.
– Mario Albertini (di Pavia) fu segretario della Commissione italiana dal 1965 al 1970, quindi presidente del MFE dal 1970 al 1995 e presidente dell’UEF dal 1975 al 1984. A parte le cariche formali Albertini è stato dopo Spinelli il leader del MFE fino alla morte nel 1997.
– Caterina Chizzola (di Udine) è stata segretaria generale del MFE sopranazionale fra il 1971 e il 1973 e, dal 1973 al 1989 segretaria generale dell’UEF.
– Alla segreteria generale del MFE si sono avvicendati Alberto Majocchi (di Vigevano, 1970-1980 e 1987-1989), Luigi Vittorio Majocchi (di Vigevano, 1980-1987) che fu anche segretario generale del Movimento europeo (1984-1987), Giovanni Vigo (di Pavia, 1989-1993), Guido Montani (di Pavia, 1993-2005), Giorgio Anselmi (di Verona, 2005-2011), Franco Spoltore (di Pavia, dal 2011).
– Dal 1995 al 2005 è stato presidente del MFE Alfonso Iozzo (di Torino), dal 2005 al 2009 Guido Montani, dal 2009 al 2015 Lucio Levi (di Torino), dal 2015 Giorgio Anselmi.
– Dal 1990 al 1997 fu presidente dell’UEF Francesco Rossolillo (di Pavia), dal 2005 al 2008 Mercedes Bresso (di Torino).
I più importanti periodici pubblicati dal MFE sono: “L’Unità europea” (1943-1954 e poi dal 1974 ad oggi); “Europa federata” (1948-1960); “Europa nuova” (1954-1957); “Popolo europeo” (1958-1964, anche in francese, tedesco e olandese); “Il Federalista” (dal 1959); “Giornale del censimento” (1965-1966, anche in francese e tedesco); “Federalismo europeo” (1967-1969, anche in francese e tedesco); “Europa foederata” (1969-1976); “Federalismo militante” (1972-1984); “Il Dibattito federalista” (1985-2006); “The Federalist debate” (dal 1988).
Per quanto riguarda il numero degli aderenti, il MFE (compresa la sua organizzazione giovanile, la Gioventù federalista europea) ha raggiunto la sua massima espansione, cioè 50.000 iscritti e 1000 sezioni nel 1954, in corrispondenza con la battaglia per la Comunità europea di difesa (CED) e la Comunità politica europea, che fece intravedere la federazione europea come un traguardo ravvicinato. Negli anni ’60 gli iscritti scesero a 2000, per poi risalire a 10.000 negli anni ’80 in corrispondenza con il rilancio dell’integrazione europea legato all’elezione diretta del Parlamento europeo. Oggi gli iscritti sono oltre 3000, ma il numero dei militanti attivi è analogo a quello dei momenti di maggiore espansione degli iscritti.
Occorre infine sottolineare che il MFE, in ragione delle capacità politiche e teoriche dei suoi dirigenti, del numero dei suoi militanti attivi, del primato nella capacità di organizzare campagne di mobilitazione dell’opinione pubblica, ha costantemente svolto un ruolo trainante sul piano europeo rispetto all’insieme delle organizzazioni favorevoli all’unità federale europea. In un certo senso si può dire che la tesi di Giuseppe Mazzini a proposito del primato italiano rispetto all’impegno a favore dell’unità europea ha trovato una conferma nel contesto dell’azione condotta dai movimenti per l’unità europea a partire dalla Resistenza.
I principi guida dell’azione del MFE.
Per comprendere in modo adeguato l’azione svolta dal MFE e il suo ruolo nello sviluppo del processo di integrazione europea, è necessario che siano chiari gli orientamenti fondamentali che, a monte delle azioni concrete legate ai mutevoli contesti politici, hanno costantemente guidato il MFE. Questi orientamenti sono emersi nel loro nocciolo essenziale durante la Seconda guerra mondiale (nel Manifesto di Ventotene, nei documenti approvati in occasione della fondazione del MFE e in altri testi) e si sono negli anni successivi venuti meglio precisando e chiarendo. Spinelli deve essere certamente considerato al riguardo il punto di riferimento dominante, ma di grandissima rilevanza è altresì il contributo di Albertini. Ciò detto, i principi guida dell’azione del MFE possono essere schematicamente riassunti in due tesi: la priorità della lotta per la federazione europea rispetto alle lotte per le riforme interne agli Stati nazionali e la percezione dei governi democratici nazionali come strumenti e, allo stesso tempo, ostacoli rispetto alla realizzazione della federazione europea.
La prima tesi significa il superamento dell’internazionalismo, cioè della tendenza, comune alle fondamentali ideologie universalistiche di matrice illuministica (il liberalismo, la democrazia e il socialismo, che costituiscono il sostrato ideologico degli Stati democratici di tipo occidentale), a concepire l’eliminazione della violenza sul piano internazionale e, quindi, la collaborazione internazionale e in definitiva l’unificazione pacifica fra le nazioni come conseguenze pressoché automatiche della piena trasformazione interna degli Stati nazionali in direzione della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. A questo orientamento il MFE, portando a conclusione una linea di riflessione avviata dai padri della costituzione federale americana (e in particolare da Alexander Hamilton) e da Immanuel Kant e sviluppata nel XX secolo soprattutto dalla scuola federalista inglese (in particolare da Lord Lothian, Lionel Robbins e Barbara Wootton) e da Luigi Einaudi in Italia, contrappone la convinzione che solo con il superamento, tramite il Federalismo, dell’anarchia internazionale fondata sulla sovranità statale assoluta sarà possibile realizzare la duratura cooperazione pacifica fra le nazioni. E si precisa, che se la sovranità statale assoluta costituisce in generale la causa strutturale delle guerre e degli imperialismi, questi fenomeni che hanno sempre accompagnato la storia del sistema europeo degli Stati si sono esasperati nella prima metà del XX secolo a causa della crisi storica degli Stati nazionali. Con ciò si intende il fatto che alla crescente interdipendenza fra gli Stati nazionali, prodotta dalla rivoluzione industriale, si contrappone l’impossibilità strutturale di governare in modo pacifico la loro interdipendenza, a causa della sovranità assoluta.
Questa contraddizione ha dapprima prodotto l’esasperazione della conflittualità internazionale e delle spinte espansionistiche e causato, quindi, le guerre mondiali, che appaiono a una visione approfondita come tentativi di unificazione egemonica dell’Europa. In questo quadro si è prodotto inevitabilmente l’arresto del progresso verso la libertà, la democrazia e la giustizia sociale, sostituito dalla spinta all’accentramento patologico del potere statale, all’autoritarismo e infine al totalitarismo, cioè all’organizzazione dello Stato in funzione esclusiva della sua potenza invece che delle esigenze della persona umana. Dopo che si sono esperimentate in modo catastrofico, con il crollo del sistema europeo degli Stati, le conseguenze della sovranità statale assoluta nell’epoca dell’interdipendenza, si è aperta la strada all’unificazione pacifica dell’Europa. Essa è diventata la condizione imprescindibile per riprendere la strada del progresso in una situazione in cui i problemi di fondo sono diventati affrontabili solo sul piano sopranazionale. Poiché, d’altra parte l’interdipendenza indotta dalla rivoluzione industriale è destinata ad estendersi progressivamente fino a coinvolgere ogni parte del mondo, l’unificazione federale europea è sempre apparsa al MFE come una tappa storica fondamentale verso l’unificazione mondiale, intesa come una federazione di grandi federazioni di dimensioni continentali o subcontinentali.
Su queste considerazioni si fonda la convinzione del MFE che le riforme interne agli Stati nazionali sono destinate a essere impossibili o comunque precarie al di fuori di un processo di unificazione europea in direzione federale e viene di conseguenza individuata – fin dal Manifesto di Ventotene – una nuova linea divisoria fra le forze del progresso e quelle della conservazione. Essa non si identifica più con le linee tradizionali della maggiore o minore libertà, della maggiore o minore democrazia, della maggiore o minore giustizia sociale da realizzare nel quadro degli Stati nazionali, bensì con la linea divisoria fra i difensori della sovranità nazionale assoluta e i sostenitori del suo superamento attraverso la federazione.
Le considerazioni sulla priorità della lotta per la federazione europea sono integrate da un discorso sugli aspetti strategico-organizzativi di questa lotta, fondato, come si è detto, sulla tesi dei governi democratici come strumenti e ostacoli rispetto all’unificazione europea. Essi sono strumenti sia nel senso che la federazione europea può essere realizzata solo sulla base di libere decisioni dei governi democratici (essendo esclusa per principio qualsiasi forma di unificazione egemonico-imperiale), sia nel senso che la situazione storica di crisi strutturale e di impotenza degli Stati nazionali spinge obiettivamente i governi ad attuare politiche di unificazione europea. Essi sono nello stesso tempo ostacoli perché i detentori del potere nazionale, anche nel quadro di sistemi democratici, sono spinti oggettivamente – in conformità alla legge dell’autoconservazione del potere già chiarita da Machiavelli nel capitolo sesto del Principe – a ostacolare il trasferimento irreversibile di una parte sostanziale di tale potere a un sistema sopranazionale sovrano. Questa tendenza – viene precisato – è destinata a manifestarsi in modo più intenso nei corpi permanenti del potere esecutivo, quali le diplomazie e le alte burocrazie civili e militari, che nel personale politico relativamente transitorio (capi di Stato e di governo, ministri, parlamentari). Per i primi, infatti, il trasferimento di sovranità comporta una perdita più netta di potere e di status e sono perciò i naturali depositari delle tradizioni nazionalistiche (ovviamente con le eccezioni proprie di una legge di tipo sociologico). Per i secondi la situazione è più sfumata per il fatto che essi sono espressioni di partiti democratici, aventi nelle loro piattaforme ideologiche una componente internazionalistica e, quindi, più o meno vagamente europeistica, e perché hanno un rapporto organico con l’opinione pubblica, la quale, in conseguenza dell’esperienza delle catastrofi prodotte dai nazionalismi e dall’impotenza degli Stati nazionali di fronte ai problemi fondamentali del mondo contemporaneo, è portata a vedere con favore l’idea dell’unità europea.
Dall’esistenza di questo atteggiamento strutturalmente contraddittorio, e articolato come si è visto, dei governi democratici nazionali di fronte al problema dell’unificazione europea derivano delle implicazioni fondamentali per la lotta federalista.
La condizione imprescindibile dello sviluppo di una lotta efficace per la federazione europea è la formazione di una forza politica federalista autonoma dai governi e dai partiti nazionali in grado di spingerli a compiere le scelte in direzione dell’unificazione federale che essi spontaneamente non sono in grado di compiere. Il principio dell’autonomia federalista, chiaramente indicato nel Manifesto di Ventotene è stato realizzato concretamente attraverso un processo laborioso. Un momento decisivo in questo processo è stata la decisione che la forza federalista deve assumere le forme di un movimento e non di un partito in lotta con gli altri partiti per la conquista del potere nazionale, perché il perseguimento dell’obiettivo della federazione europea richiede uno schieramento trasversale a tutte le forze politiche e agli ambienti economico-sociali che si riconoscono nel regime democratico e non schieramenti fondati sulle tradizionali dicotomie fra progresso e conservazione. L’altro momento decisivo della costruzione dell’autonomia federalista coincide con l’opera pratica e teorica svolta da Albertini allorché divenne il leader del MFE. L’impegno di Albertini a favore dell’autonomia federalista, che si è riallacciato a quello svolto da Spinelli, ma che è diventato molto più sistematico e consequenziario, si è concretizzato nella teorizzazione e nell’attuazione di tre principi fondamentali sul piano politico, organizzativo e finanziario.
Il primo principio, quello dell’autonomia politica, si è manifestato attraverso il rifiuto da parte del nucleo di militanti che hanno assicurato la direzione e la gestione del MFE di identificarsi con un qualsiasi partito nazionale. Questa scelta ha permesso, nei momenti opportuni, di instaurare utilissimi rapporti di collaborazione e di alleanza tattica con i partiti democratici salvaguardando allo stesso tempo pienamente l’indipendenza del MFE. Il secondo principio ha riguardato la formazione e la selezione dei militanti. Esse sono state guidate dall’esigenza di evitare i condizionamenti che sarebbero stati imposti al movimento da un apparato amministrativo pesante e costoso, dipendente perciò inevitabilmente, per la sua sopravvivenza, essenzialmente da finanziamenti esterni. Di conseguenza si è stabilito che tutti i militanti federalisti fossero militanti a mezzo tempo, con un lavoro in grado di garantire la loro indipendenza economica, pur consentendo loro di disporre di un sufficiente tempo libero da dedicare all’attività federalista. In tal modo si è potuta creare un’organizzazione poco costosa e, quindi, totalmente al riparo da qualsiasi tentativo di pressione o di ricatto da parte di qualunque forza politica o economica. Il terzo principio è infine quello dell’autonomia finanziaria e ha avuto come sua istituzione specifica l’autofinanziamento. Esso significa concretamente che i militanti reclutati da allora nel MFE hanno sempre saputo che il lavoro federalista non avrebbe mai procurato loro denaro, ma al contrario gliene sarebbe costato. Questa impostazione, che ha dall’inizio della leadership di Albertini costituito la base finanziaria dell’autonomia del MFE, non ha impedito che esso ricevesse anche finanziamenti esterni, ma essi sono stati usati soprattutto per finanziare azioni specifiche, mentre la struttura permanente dell’organizzazione ha sempre funzionato grazie alle sue “risorse proprie”, il che ha rappresentato una condizione ulteriore dell’impermeabilità a qualsiasi influenza esterna.
Al di là di tutto ciò, il fondamento basilare dell’autonomia politica, organizzativa e finanziaria del MFE, che Albertini è riuscito a realizzare come acquisizione permanente, è rappresentato dall’autonomia culturale. Solo una forte motivazione culturale (oltre ovviamente a quella morale), cioè la convinzione che la dottrina federalista abbia qualcosa di realmente nuovo da dire, in termini di valori e di comprensione della situazione storica, rispetto al pensiero politico dominante, può in effetti alimentare un impegno a lungo termine, spesso faticoso e difficile, e che rinuncia alle motivazioni del potere e del denaro, in un numero di militanti sufficiente per costituire una forza federalista autonoma in grado di incidere sulla realtà. Ebbene, Albertini ha svolto precisamente, assieme ai suoi allievi, un grandioso lavoro di approfondimento teorico del federalismo che ha fatto emergere questa motivazione ed ha altresì arricchito in modo molto rilevante il panorama del pensiero federalista.
I risultati più significativi di questo approfondimento teorico sono stati la critica dell’ideologia nazionale e il chiarimento che il federalismo non è soltanto la dottrina dello Stato federale, ma un’ideologia politica in senso pieno. Essa è cioè paragonabile al liberalismo, alla democrazia e al socialismo ed è in grado di recepire nel proprio corpo dottrinale i contributi fondamentali proposti dalle grandi ideologie emancipatrici dal mondo moderno e, nello stesso tempo, di superarne i limiti – individuando nella pace il valore supremo della lotta politica – e di ottenere una comprensione più adeguata dei fondamentali problemi del mondo contemporaneo.
Se l’esistenza di una forza federalista autonoma costituisce il fondamento basilare di una efficace lotta federalista, occorre d’altro canto che questa forza sappia operare efficacemente per spingere i governi sulla via dell’unificazione federale sopranazionale. In questo contesto hanno importanza decisiva: la struttura sopranazionale della forza federalista, in modo da poter operare unitariamente sul piano europeo; la sua capacità di mobilitare l’opinione pubblica, senza però utilizzare lo strumento elettorale che è funzionale all’azione dei partiti; la denuncia sistematica dei limiti e delle contraddizioni dell’integrazione europea attuata dai governi e derivanti dal loro orientamento strutturalmente confederale: il deficit sul piano dell’efficienza, a causa delle decisioni unanimi sulle questioni fondamentali, e il deficit democratico dovuto al fatto che un’integrazione senza istituzioni federali svuota la democrazia nazionale senza creare una democrazia sopranazionale; la capacità di sfruttare queste contraddizioni per spingere i governi verso scelte di tipo federale.
C’è infine una terza implicazione per la lotta federalista che deriva dal chiarimento dell’atteggiamento contraddittorio dei governi nazionali rispetto all’unificazione europea. Si tratta dell’idea dell’assemblea costituente europea, che ha come modello di riferimento fondamentale la Convenzione costituzionale di Filadelfia, la quale elaborò nel 1787 la Costituzione degli Stati Uniti d’America, cioè del primo Stato federale della storia. In sostanza per giungere davvero alla federazione europea, occorre attivare una procedura costituente democratica, cioè affidare l’incarico di definire le istituzioni sopranazionali a un organo di carattere parlamentare, che deliberi a maggioranza e le cui proposte entrino in vigore fra gli Stati ratificanti senza che sia necessaria l’unanimità delle ratifiche. Solo con questo tipo di procedura si possono ottenere risultati federali perché i rappresentanti del popolo sono strutturalmente più aperti alle richieste unificatrici provenienti dall’opinione pubblica e perché si supera il diritto di veto nazionale, cioè il principio dell’unanimità che impone inevitabilmente risultati al minimo comun denominatore. La costituente rappresenta dunque l’alternativa al metodo delle conferenze intergovernative che decidono all’unanimità e in segreto e richiedono ratifiche unanimi e sono perciò funzionali a scelte di tipo confederale. La necessità di una procedura costituente democratica è in effetti sempre stata al centro dell’azione del MFE, anche se sono cambiate le scelte circa le modalità concrete di attuazione di questa procedura (assemblea costituente eletta direttamente con il mandato di elaborare un progetto di costituzione europea, trasformazione di una assemblea parlamentare consultiva in una assemblea costituente attraverso una propria autonoma iniziativa o tramite un apposito mandato conferito dai governi nazionali, elezione diretta del Parlamento europeo, referendum sul mandato costituente al Parlamento europeo), e questi cambiamenti sono dipesi ovviamente dalla percezione delle opportunità offerte dalle diverse situazioni politiche.
Sulla base di questi principi guida il MFE ha esercitato sul processo di integrazione europea un’influenza che presenta due aspetti.
Da una parte, il pensiero e l’azione del MFE ha, in quanto componente ed elemento di punta della corrente federalista europea nel suo complesso, contribuito in modo determinante a mantenere viva nel corso dell’intero processo di unificazione europea la rivendicazione di una costituzione federale europea, di una procedura costituente democratica per realizzarla, e, quindi, della partecipazione popolare alla costruzione europea. Senza la presenza attiva di un movimento impegnato in modo costante ed esclusivo sulla tematica dell’unità federale europea – tenendo conto che i partiti non possono oggettivamente che dedicarvi un’attenzione superficiale discontinua – è evidente che essa sarebbe scomparsa dal dibattito politico-culturale e, di conseguenza, avrebbe perso qualsiasi rilevanza pratica la prospettiva del completamento in senso democratico e federale del processo di integrazione.
Al di là di questa influenza di carattere generale, c’è però anche stata un’influenza più incisiva, la quale ha potuto manifestarsi solo nei momenti in cui la situazione storica ha costretto i governi ad affrontare con le loro politiche di integrazione europea dei problemi non gestibili senza l’introduzione di embrioni democratico-federali negli organismi integrativi o addirittura senza veri e propri trasferimenti di sovranità. In simili momenti il processo di integrazione europea pone i governi su di un piano inclinato in direzione di tali limitazioni e apre perciò spazi significativi a un’incisiva influenza dei federalisti. E va al riguardo sottolineato che una risorsa importante per l’azione del MFE è stata rappresentata da una particolarmente forte convergenza fra l’interesse nazionale e una integrazione europea avanzata che ha strutturalmente caratterizzato la politica dei governi italiani per ragioni oggettive, fra le quali ha primaria importanza la particolare fragilità dello Stato nazionale italiano.
Vediamo ora, alla luce di questi chiarimenti, l’azione concreta svolta dal MFE.
L’azione del MFE dalla Liberazione alla caduta della CED (1945-1954)
Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale il MFE fu impegnato essenzialmente nella costruzione della propria struttura organizzativa. Sul piano politico venne comunque lanciata la parola d’ordine della costituente europea con un Manifesto degli universitari italiani per la federazione europea (che raccolse nella prima metà del 1946 le firme di 266 docenti universitari, tra i quali Calamandrei, Devoto, Campagnolo, Rollier, Giovanni De Maria, Gino Cassino, Ezio Franceschini, Felice Perussia) e con un appello ai candidati alle elezioni del 18 aprile 1948, firmato da 630 candidati. Inoltre il MFE contribuì in modo decisivo alla decisione da parte dell’Assemblea costituente italiana di inserire nella nuova Costituzione italiana l’art. 11 (voluto in particolare da Calamandrei) che, pur non facendo esplicito riferimento all’unificazione europea, prevede la possibilità di «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli» e ha permesso la ratifica da parte italiana di tutti i trattati di integrazione europea senza dover ricorrere a revisioni costituzionali.
Con il lancio del Piano Marshall e il conseguente avvio della politica di unificazione europea il MFE guidato da Spinelli poté sviluppare una azione politica di grande incisività che ebbe il suo culmine nella battaglia per la Comunità politica europea (CEP) da affiancare alla CED. Spinelli, di fronte all’esperienza della Guerra fredda e della nascita dei blocchi contrapposti chiarì immediatamente che l’unificazione europea poteva prendere l’avvio solo nel quadro della formazione del blocco occidentale, anche perché gli USA favorivano con decisione l’integrazione europea in quanto fattore di rafforzamento del loro blocco. E chiarì altresì che con la propria unificazione, purché effettiva, l’Europa occidentale avrebbe potuto recuperare la perduta autonomia, instaurando un rapporto di partnership equilibrata con gli USA, e avrebbe contribuito in modo determinante al superamento dei blocchi contrapposti, aprendo la strada all’unificazione completa dell’Europa. Sulla base di questo orientamento impostò una strategia facente leva sui deficit dell’integrazione funzionalistico-confederale per ottenere, tramite un’azione di mobilitazione dell’opinione pubblica e nello stesso tempo di consulenza nei confronti degli esponenti partitici e governativi meno condizionati dalle tradizioni nazionalistiche, decisioni in grado di attivare una procedura costituente dell’unità federale europea.
Nella fase qui considerata la prima rilevante applicazione pratica di questa strategia fu l’azione del MFE (e dell’UEF) nei confronti del Consiglio d’Europa diretta a promuovere l’assunzione da parte dell’Assemblea consultiva di Strasburgo di un ruolo costituente. Si riteneva che questa assemblea, pur mancando di potere, avrebbe però spinto i parlamentari e i capi dei partiti a interessarsi dell’unità europea con una certa continuità e avrebbe quindi espresso, come ogni assemblea parlamentare, la tendenza ad acquistare poteri effettivi. In questa situazione il MFE, facendo leva sull’esigenza di sottoporre a un controllo democratico e di accelerare il processo integrativo che stava muovendo i suoi primi passi sul piano economico (attraverso l’OECE e i primi tentativi di Unione doganale) e su quello militare (con il Patto di Bruxelles e il Patto atlantico), avrebbe dovuto tentare di spingere l’assemblea di Strasburgo a farsi promotrice della creazione di istituzioni federali europee. E ciò fu in effetti tentato sia con un lavoro di consulenza dei deputati, sia con la petizione a favore del Patto di Unione federale europea organizzata nel corso del 1950. La petizione, che ebbe soprattutto in Italia (dove fu sottoscritta da oltre 521.000 cittadini, fra i quali 246 parlamentari, adottata da 493 Consigli o giunte comunali e da 39 amministrazioni provinciali, e firmata anche dal capo del governo Alcide De Gasperi, dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi e da numerosi ministri) un notevole successo, chiedeva all’Assemblea consultiva di redigere un progetto di patto federale, sulla base del quale si potessero realizzare una graduale unificazione economica, una politica estera comune e una difesa comune dei paesi aderenti al patto, e di raccomandarne la ratifica agli Stati membri del Consiglio d’Europa, i quali avrebbero dovuto impegnarsi a farlo entrare in vigore fra i paesi ratificanti non appena esso fosse stato ratificato da un numero di Stati la cui popolazione complessiva raggiungesse i cento milioni.
Questo primo tentativo non ebbe successo, ma subito dopo si presentò un’altra opportunità in occasione delle trattative sulla CED. Quando si concretizzò il disegno dei governi dei Sei di creare un esercito europeo sulla base di istituzioni simili a quelle della CECA, Spinelli si rese conto che la contraddizione di fondo del metodo funzionalistico (il voler creare l’unità europea senza uno Stato europeo) (v. Funzionalismo) si manifestava in questo caso in termini così acuti e palesi (un esercito senza un governo democratico come guida politica) da aprire uno spazio importantissimo alla rivendicazione dell’unità federale e del metodo costituente; e sfruttò a fondo l’occasione soprattutto tramite il rapporto che riuscì a instaurare con De Gasperi. Il risultato principale di questa azione fu l’elaborazione da parte dell’assemblea allargata della CECA, definita Assemblea ad hoc, del progetto di statuto della CEP, di un progetto cioè molto avanzato e la cui approvazione avrebbe aperto la strada alla costruzione in tempi relativamente brevi dell’unità federale. Ciò non avvenne perché i governi, oltre a far rimaneggiare il progetto da parte di una conferenza diplomatica, lo subordinarono alla ratifica della CED, sicché la caduta di quest’ultima il 30 agosto 1954 di fronte al Parlamento francese trascinò con sé la CEP, chiudendo per alcuni decenni la prospettiva di un salto qualitativo dall’integrazione funzionalistica a quella federale.
La critica al Mercato comune e le campagne popolari per l’Assemblea costituente europea (1954-1966)
Dopo il fallimento della CED, i governi europei ripiegarono sulla creazione del Mercato comune europeo (un obiettivo che era previsto nel progetto della CEP nato in seguito all’iniziativa del governo italiano stimolata in modo decisivo dal MFE) e dell’Euratom. Gli ideatori dei Trattati di Roma erano guidati dalla convinzione, propria dell’impostazione funzionalistica, che l’integrazione economica avrebbe, prima o poi, condotto pressoché automaticamente all’unificazione politica. Il MFE denunciò questa illusione e ritenne più in generale che nella situazione successiva alla caduta della CED erano venuti meno tre fattori fondamentali – la spinta americana a favore dell’integrazione europea, il timore acuto dell’espansionismo sovietico (la morte di Stalin e i primi accenni di distensione Est-Ovest avevano contribuito in modo decisivo a far cadere la CED), il problema di evitare il riarmo nazionale tedesco – che avevano spinto i governi dei Sei su un piano inclinato in grado di aprire spazi reali di intervento federalista a favore della federazione europea. Non era certo venuta meno la necessità vitale dell’unificazione europea, dovuta alla crisi irreversibile degli Stati nazionali, ma non era realistico aspettarsi a tempi ravvicinati da parte dei governi una politica europeista paragonabile a quella che si era manifestata nel progetto della CED. In questa situazione si ritenne che il compito primario del MFE fosse quello di rivendicare in modo intransigente la federazione europea e la costituente europea e di mantenere viva nell’opinione pubblica tale rivendicazione sulla base di una critica radicale delle iniziative europeistiche dei governi, in attesa che la chiara dimostrazione della loro inadeguatezza creasse le condizioni per ottenere dai governi scelte più avanzate, e quindi con potenzialità federali. Questa linea, che portò a una sostanziale frattura fra il MFE e i partiti democratici e anche alla scissione dell’organizzazione federalista a livello europeo, si tradusse concretamente in una grande campagna a livello europeo per rivendicare il potere costituente del popolo europeo. Le tappe di questa campagna furono il Congresso del popolo europeo (CPE) e il Censimento volontario del popolo federale europeo.
La campagna del CPE, condotta sotto la guida di Spinelli negli anni 1956-1962, consistette nell’organizzazione (che si ispirava all’esempio del Congresso nazionale indiano di Gandhi) di una specie di elezioni primarie in varie città d’Europa per dare vita a un congresso permanente dei rappresentanti del popolo europeo, il quale attraverso il coinvolgimento di un numero sempre più grande di cittadini europei avrebbe dovuto raggiungere la legittimità democratica e il peso politico necessari per forzare i governi alla convocazione della costituente europea. La campagna si esaurì dopo che i partecipanti alle elezioni del CPE raggiunsero la quota di 650.000, dei quali 455.000 in Italia. La mobilitazione dell’opinione pubblica a favore della convocazione della costituente europea fu ripresa fra il 1963-1966 sotto la guida di Albertini (che sostituì Spinelli alla guida del MFE) attraverso la campagna del Censimento volontario del popolo federale europeo, che avrebbe dovuto sboccare nel rilancio su ampia scala del CPE. Anche questa campagna si esaurì dopo aver raggiunto circa 100.000 adesioni, la maggior parte delle quali in Italia. Va precisato che mentre la maggioranza del MFE italiano portò avanti la campagna del Censimento, la maggioranza del MFE sopranazionale si impegnò nella campagna del Fronte democratico europeo, cioè in un’azione (per l’Italia fu in prima linea al riguardo Umberto Serafini, membro del MFE e segretario generale dell’Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa) diretta specificamente a collegare in modo organico alla lotta federalista i settori della società e del sistema politico degli Stati europei non disposti ad accettare passivamente le caratteristiche antidemocratiche dell’integrazione europea.
Le campagne del CPE e del Censimento non portarono alla costituente europea, ma ebbero il merito di mantenere viva, in una fase storica in cui i successi dell’integrazione economica tendevano a nascondere i limiti strutturali delle Comunità europee, l’alternativa democratica e federale a una costruzione europea, la quale era debole e precaria proprio perché escludeva la partecipazione popolare. Anche se solo una piccola parte dell’opinione pubblica fu in grado di conoscere il messaggio dei federalisti, queste campagne popolari costituirono il primo esempio nella storia europea di una azione politica di base capace di svilupparsi in modo unitario al di là delle frontiere nazionali in diversi paesi d’Europa e dimostrarono d’altra parte che, ogni qualvolta si richiedeva ai cittadini di esprimersi a favore dell’unità europea completa e della partecipazione popolare alla sua costruzione, la risposta era largamente positiva. Questo impegno è stato decisivo per la costruzione di una forza federalista autonoma e, quindi, di una riserva di capacità mobilitativa che si è dimostrata di grande utilità in una condizione diversa.
La lotta per l’elezione diretta del Parlamento europeo (1967-1979)
A partire dal 1967 il MFE decise di concentrare il proprio impegno strategico nella lotta per l’elezione diretta del Parlamento europeo (PE) (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) intesa come tappa intermedia per giungere alla costituente europea, indicando altresì nell’elezione unilaterale dei rappresentanti italiani (e possibilmente di altri paesi) nel PE la via concreta per avvicinarsi all’elezione generale, aggirando l’ostacolo rappresentato dall’opposizione di de Gaulle a questo obiettivo. Va precisato che l’appoggio all’elezione diretta del PE era già stato fatto proprio dalla parte delle organizzazioni federaliste che non condividevano la critica radicale di Spinelli e Albertini nei confronti dei Trattati di Roma. La decisione di schierarsi a favore di questa rivendicazione da parte del MFE si fondava su due convinzioni derivanti dall’analisi dello sviluppo effettivo del processo di integrazione europea.
Da una parte, l’elezione diretta, pur non accompagnata dalla contestuale attribuzione di poteri reali al PE, avrebbe avuto un oggettivo significato costituente. Essa infatti, inducendo la formazione di un sistema europeo dei partiti e la legittimazione popolare del PE, avrebbe spinto quest’ultimo all’assunzione di fatto di un ruolo costituente, dal momento che l’avanzamento dell’integrazione economica poneva i governi di fronte a problemi (la politica congiunturale, l’unificazione monetaria, la programmazione a livello europeo, i prezzi agricoli, e così via) che non potevano essere efficacemente risolti senza avviare la costruzione di un governo democratico europeo. Dall’altra parte, la contraddizione fra l’avanzamento dell’integrazione economica e il blocco dell’evoluzione istituzionale comunitaria (il Compromesso di Lussemburgo del gennaio 1966 aveva di fatto bloccato il passaggio al voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri e il rafforzamento della Commissione della CEE) stava non solo rendendo sempre più intollerabili i deficit di efficienza e di democrazia dell’integrazione funzionalistico-confederale, ma soprattutto dimostrando in termini così palesi l’inconsistenza della tesi del passaggio automatico dall’integrazione economica a quella politica, da rendere possibile una convergenza, sul tema dell’elezione europea, fra l’europeismo presente nei partiti democratici e l’azione federalista.
Una volta presa la decisione di impegnarsi a favore dell’elezione diretta del PE (cominciando con le elezioni unilaterali), il MFE portò avanti questo impegno con un’indistruttibile perseveranza e soprattutto si sforzò seriamente di organizzare una consistente mobilitazione popolare intorno all’elezione europea. I momenti più significativi di questa mobilitazione furono:
– la presentazione al Senato italiano nel 1969 di una proposta di legge di iniziativa popolare (fu la prima presentata in Italia) per l’elezione diretta dei rappresentanti italiani nel PE firmata da circa 65.000 cittadini, con firme debitamente autenticate; questa iniziativa fu ripresa nel 1973 dalle Regioni Piemonte, Umbria e Abruzzo con la presentazione alle Camere di proposte di legge di iniziativa regionale identiche a quella presentata dal MFE al Senato;
– la Campagna di informazione e dibattito sull’elezione europea e l’unione europea (svolta nel 1975 in connessione con la Missione Tindemans) che ebbe come suoi aspetti più importanti una petizione popolare al PE a favore di un suo ruolo costituente firmata da 150.000 cittadini e una manifestazione a Roma, in occasione del Consiglio europeo dell’1-2 dicembre 1975 (che decise di indire le elezioni europee ad una data unica nel 1978; ci fu poi lo spostamento di un anno), a cui parteciparono 4000 federalisti, una delegazione dei quali fu ricevuta dal presidente di turno del Consiglio europeo, Aldo Moro; stimolato dai federalisti, il governo italiano ottenne la decisione da parte del Consiglio europeo di realizzare le elezioni europee, anche nel caso di una mancata partecipazione a esse da parte di Gran Bretagna (v. Regno Unito) e Danimarca (le quali successivamente si adeguarono per evitare di rimanere isolate);
– l’organizzazione (fra il 1976 e il 1978) di una sistematica azione sui partiti per spingerli a inserire nei loro programmi per le elezioni europee l’impegno a favore di una riforma in senso federale del sistema comunitario;
– la manifestazione a Strasburgo il 17 luglio 1979 di fronte alla sede del PE in occasione della prima seduta dopo l’elezione di giugno a cui parteciparono 5000 giovani europei in rappresentanza delle organizzazioni federaliste e delle forze democratiche, e in cui si chiese al PE di impegnarsi a favore di un governo europeo, di una moneta europea, di un forte bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).
Questo impegno ha indubbiamente contribuito in modo decisivo al raggiungimento dell’elezione diretta del PE (e poi al successo della prima elezione europea), la quale, non a caso, fu decisa dai governi europei nel contesto della crisi dell’integrazione economica europea degli anni ’70 (instabilità monetaria, crisi energetica, fallimento del Serpente monetario), cioè in una situazione che richiedeva imperiosamente un forte rilancio dell’integrazione – e quindi il coinvolgimento dell’opinione pubblica – per evitare il suo fallimento.
Dal progetto di Trattato Spinelli al Trattato di Maastricht (1980-1993)
Dopo l’avvio della prima legislatura europea (1979-1984) gli sforzi del MFE si concentrarono sullo sfruttamento del potenziale costituente del nuovo PE. A questo riguardo si sviluppò un’azione combinata fra Spinelli all’interno del PE e l’impegno dei federalisti per mobilitare, nell’opinione pubblica, nei partiti, nei parlamenti nazionali, negli enti locali, nelle organizzazioni economico-sociali, un vasto consenso intorno all’iniziativa del PE per una rifondazione istituzionale delle Comunità.
Spinelli aveva deciso negli anni ’60 di lasciare la guida del MFE (pur restandone sempre membro) e di proseguire la sua lotta federalista all’interno delle Istituzioni comunitarie. Attraverso la creazione nel Comitato italiano per la democrazia europea e dell’Istituto affari internazionali instaurò rapporti organici con la classe politica che gli permisero di diventare membro della Commissione europea dal 1970 al 1976 e quindi membro del PE, dal 1976 al 1979 in quanto membro della delegazione del Parlamento italiano al PE e dal 1979 fino alla sua morte nel 1986 in quanto eletto direttamente. Va ricordato che si fece eleggere come indipendente nelle liste del Partito comunista per favorire il processo di piena integrazione di questo partito non solo dal sistema liberaldemocratico ma anche nella politica europeistica italiana. All’interno del PE direttamente eletto Spinelli, assieme a un piccolo gruppo di parlamentari che diede vita al Club del Coccodrillo, riuscì a impegnare progressivamente l’intero Parlamento nella elaborazione di un nuovo Trattato per l’Unione europea che prevedeva la trasformazione delle Comunità in una federazione con poteri effettivi di governo nel campo dell’unione economico-monetaria e un meccanismo che avrebbe reso possibile il trasferimento a livello federale senza bisogno di nuovi trattati delle competenze nel campo della politica estera e della sicurezza. Questo progetto, che, ispirandosi alla Convenzione di Filadelfia, prevedeva l’entrata in vigore fra i paesi ratificanti purché fossero la maggioranza e con una popolazione complessiva di 2/3 di quella comunitaria, fu approvato dal PE il 14 febbraio 1984 a larghissima maggioranza.
La campagna sistematica del MFE di sostegno al progetto Spinelli cominciò fin dalla creazione del Club del Coccodrillo nel 1980 ed ebbe il suo momento più alto nella manifestazione di massa a Milano del 28-29 giugno 1985 – in occasione del Consiglio europeo che convocò la Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) che redasse l’Atto unico europeo, AUE – a cui parteciparono 100.000 persone provenienti da tutta l’Europa. Ciò non bastò a ottenere l’accoglimento da parte dei governi delle richieste più avanzate espresse dal PE, ma il fatto che questo, con l’autoassunzione di un ruolo costituente, abbia proposto un progetto di riforma globale in senso federale del sistema comunitario ha contribuito in modo decisivo alla fase fortemente evolutiva dell’integrazione europea sboccata nel Trattato di Maastricht (TDM).
Intanto la decisione di convocare la Conferenza intergovernativa che elaborò l’AUE fu adottata – su iniziativa della presidenza di turno italiana, con Bettino Craxi presidente del Consiglio e Giulio Andreotti ministro degli esteri – a maggioranza, superando l’opposizione dei governi britannico, danese e greco. Con l’AUE, d’altra parte, oltre all’introduzione di alcune riforme istituzionali consistenti nell’estensione del principio del voto a maggioranza da parte del Consiglio dei ministri e nel rafforzamento dei poteri del PE, fu lanciato il programma del completamento del mercato interno e, quindi, furono poste le basi per rilanciare l’obiettivo dell’unione monetaria. In effetti la realizzazione della libera circolazione dei capitali (prevista per il 1990) era incompatibile (come ben sapeva il presidente della Commissione europea, Jacques Delors) con un sistema di cambi fissi, in quanto avrebbe indotto enormi movimenti speculativi delle monete nazionali, e imponeva il passaggio alla moneta unica per mantenere in vita il mercato unico. L’intreccio di questa spinta intrinseca alla realizzazione del mercato unico con la svolta epocale degli anni 1989-1991 – la Riunificazione tedesca conseguente alla dissoluzione del sistema bipolare rese acuta l’esigenza di inquadrare l’ulteriore rafforzamento della Germania in un ulteriore approfondimento dell’integrazione europea – portò alla approvazione del TDM, che, assieme a un importante rafforzamento del PE e all’avvio della cooperazione nei settori della sicurezza esterna e interna, stabilì l’obiettivo fondamentale della moneta unica europea.
In questo contesto il ruolo del MFE si manifestò soprattutto in due settori.
In primo luogo, ci fu un forte impegno a favore dell’unione monetaria, proseguendo e approfondendo un lavoro politico sistematico su questo tema che aveva già avuto inizio subito dopo la realizzazione dell’unione doganale nel 1968 e che aveva avuto un momento molto importante nella campagna per la partecipazione dell’Italia allo SME. La convinzione che stava alla base di questo impegno era che l’unione monetaria, completando lo svuotamento della capacità da parte dei governi nazionali di attuare politiche macroeconomiche, avrebbe reso sempre più indifferibile la creazione di un governo federale europeo. In secondo luogo, l’impegno a favore della costituente europea ebbe in questa fase la sua manifestazione più spettacolare nella proposta di legge di iniziativa popolare (promossa dal MFE nel 1988 e sottoscritta da circa 120.000 cittadini italiani), la quale portò al referendum consultivo tenutosi il 18 giugno 1989 (simultaneamente alle elezioni europee), in occasione del quale l’88% degli italiani che parteciparono alle elezioni europee si espressero a favore di una costituzione federale europea e di un ruolo costituente del PE. Questo risultato – unitamente all’organizzazione di manifestazioni a Roma con la partecipazione di migliaia di federalisti in occasione dei Consigli europei del 27-28 ottobre e del 14-15 dicembre 1990 presieduti da Andreotti – ha indubbiamente reso più convinto ed efficace l’impegno in senso sopranazionale del governo italiano nel quadro dell’approvazione del TDM.
Dal Trattato di Maastricht al Trattato di Lisbona (1994-2007)
Nel periodo successivo all’entrata in vigore del TDM il MFE ha concentrato la sua azione anzitutto a sostegno della effettiva realizzazione dell’unione monetaria – considerata una tappa strategica in direzione di una costituzione federale europea – e della partecipazione a essa dell’Italia. A questa azione si è venuto affiancando un impegno sempre più intenso e sistematico a favore dell’assunzione da parte dell’Europa di un ruolo attivo e autonomo sul piano mondiale per dare una risposta efficace alle sfide emergenti dalla globalizzazione e dalla fase postbipolare.
Il MFE ha sempre visto fin dal Manifesto di Ventotene la federazione europea come tappa fondamentale in vista della federazione mondiale già preconizzata da Kant. Questa tesi si fondava sulla convinzione che la crescente interdipendenza internazionale – prodotta dallo sviluppo della rivoluzione industriale e vista come fattore fondamentale della crisi storica degli Stati nazionali europei – era alla lunga destinata a rendere inadeguati gli Stati di dimensioni continentali e a far quindi scendere l’ideale dell’unificazione mondiale dal regno dell’utopia a quello della possibilità storica. Questo discorso ebbe uno sviluppo molto significativo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, e trovò una formulazione molto efficace nella parola d’ordine “unire l’Europa per unire il mondo”, lanciata dal congresso di Bari del MFE del 23-24 febbraio 1980. In sostanza si tradusse in termini politici la presa di coscienza che lo sviluppo dell’interdipendenza umana al di là delle barriere nazionali stava raggiungendo – nel contesto della transizione dalla società industriale a quella postindustriale fondata sulla rivoluzione tecnica e scientifica – un livello tale da fare non solo assumere una dimensione mondiale a tutti i problemi di fondo, ma anche emergere delle sfide vitali nei confronti dell’umanità – il pericolo dell’olocausto nucleare ed ecologico, il divario fra il nord e il sud del mondo (avente la sua manifestazione più clamorosa nell’appropriazione da parte del 20% della popolazione mondiale dell’80% delle risorse mondiali), l’interdipendenza economica globale non governata –, le quali potevano trovare una risposta valida solo nell’avvio della costruzione graduale ma effettiva dell’unità mondiale.
Nel contesto di un mondo che diventa una comunità di destino e in cui l’alternativa “unirsi o perire” (fattore decisivo alla base del processo di integrazione europea) tende a mondializzarsi è diventata sempre più attuale l’esigenza di un’Europa capace di agire sul piano internazionale per poter attuare – in corrispondenza con il suo interesse vitale – una politica di unificazione mondiale i cui percorsi concreti in questa fase storica appaiono: l’esportazione, tramite le integrazioni regionali, dell’esperienza europea di integrazione-pacificazione in altre aree del mondo, nonché la rifondazione e il rafforzamento delle organizzazioni internazionali globali a partire dall’ONU. Questa esigenza, già fortemente avvertita anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica nella seconda metà degli anni Ottanta – ai tempi degli accordi sul disarmo e in coincidenza con il tentativo di riforma interna dell’URSS avviato da Gorbačëv (v. Gorbačëv, Michail) con la perestrojka – è diventata particolarmente pressante in seguito all’affermarsi della situazione monopolare che ha posto sulle spalle degli USA pesi sempre più insostenibili e nello stesso tempo alimentato la tentazione di una risposta in termini egemonico-imperiali al problema dell’unificazione mondiale. Per l’Unione europea (UE), che con la moneta unica e il progressivo Allargamento all’intera Europa ha accresciuto in modo decisivo la sua rilevanza economica sul piano mondiale, è venuta all’ordine del giorno, secondo il MFE, l’esigenza impellente di realizzare una politica estera, di sicurezza e di difesa unica – ben al di là dei meccanismi di cooperazione intergovernativa in questi settori introdotti con il TDM e i successivi Trattati di Amsterdam e di Nizza (v. Trattato di Amsterdam; Trattato di Nizza)–, per costruire una partnership fra uguali con gli USA e dar vita in tal modo al nucleo di avanguardia della politica di unificazione mondiale.
La realizzazione della moneta europea, l’allargamento, l’esigenza improcrastinabile di un governo economico solidale dell’Europa, la necessità di un ruolo attivo a favore del progresso e della pace del mondo hanno posto all’ordine del giorno in termini sempre più stringenti il problema di una costituzione federale europea, onde rendere efficiente, democratica e irreversibile l’unificazione europea. Su questo tema il MFE ha continuato i suoi sforzi di mobilitazione dell’opinione pubblica, realizzando, tra l’altro, delle manifestazioni con migliaia di partecipanti in occasione delle riunioni del Consiglio europeo, tenutosi a Torino il 29 marzo 1996 e a Firenze il 22 giugno 1996. A partire dal 1997 si è quindi dato inizio a una Campagna per la costituzione federale europea attuata a livello sopranazionale. Questa campagna ha avuto un momento particolarmente rilevante nella manifestazione europea organizzata a Nizza il 7 dicembre 2000 – in occasione della riunione del Consiglio europeo che ha approvato il Trattato di Nizza integrato da un protocollo, voluto dai governi italiano e tedesco, dal quale è scaturita la decisione assunta a Laeken il 15 dicembre 2001 di convocare la Convenzione europea – a cui hanno partecipato 10.000 persone e la cui rivendicazione fondamentale è stata una costituzione federale da realizzarsi con un metodo costituente democratico.
La decisione di convocare la Convenzione europea ha costituito in sostanza un incontro a metà strada fra la rivendicazione federalista di una costituente secondo il modello della Convenzione di Filadelfia e gli istinti animali dei governi nazionali che cercano di mantenere nelle loro sole mani, tramite il diritto di veto, il controllo del processo di unificazione europea. Da una parte, si è superato – attraverso il coinvolgimento nella Convenzione, oltre ai governi, dei parlamentari europei e nazionali e della Commissione europea e la consultazione sistematica della società civile – il monopolio governativo nella procedura costituente e si è altresì riconosciuto che le sfide gravissime di fronte a cui si trova l’UE richiedono riforme istituzionali in direzione di più democrazia, più trasparenza e più efficienza e, quindi, di una costituzione per i cittadini europei. Dall’altra parte, i governi si sono riservati l’ultima parola, stabilendo che il documento approvato per consenso (che è una via di mezzo fra la regola dell’unanimità e quella della maggioranza) dalla Convenzione dovesse essere sottoposto al vaglio finale di una Conferenza intergovernativa deliberante all’unanimità e non mettendo in discussione il principio della ratifica unanime.
Anche il progetto di costituzione approvato dalla Convenzione presieduta da Valéry Giscard d’Estaing nel luglio 2003 dopo quasi un anno e mezzo di lavoro (che i federalisti hanno fatto ogni sforzo per influenzare tramite un lavoro sistematico dentro e fuori dalla Convenzione) costituisce un compromesso fra il sistema della cooperazione intergovernativa e le istanze federaliste. Il principio confederale del diritto di veto nazionale è stato mantenuto nei settori della politica estera, di sicurezza e di difesa (v. Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa), nella decisione sulle risorse fiscali dell’Unione, nella procedura di ratifica e di revisione costituzionale. Si sono invece fatti dei passi avanti per quanto riguarda l’estensione e il calcolo del voto a maggioranza e il rafforzamento del PE che acquista in particolare il potere di elezione della Commissione, pieni poteri di codecisione sul bilancio e il potere di proporre la revisione costituzionale (su cui il Consiglio dei ministri deve pronunciarsi a maggioranza semplice) con il metodo della Convenzione. Vanno inoltre sottolineate la prima breccia nel principio delle ratifiche unanimi (in caso di mancata ratifica dopo due anni da parte di 1/5 degli Stati il Consiglio europeo dovrà decidere il da farsi) e il fatto stesso di utilizzare il termine “costituzione”, richiamando il principio della democrazia fondata sulla maggioranza – il che può rappresentare una leva molto importante per la lotta a favore di ulteriori sviluppi federali.
Il MFE ha pertanto ritenuto che i passi avanti in direzione del federalismo e della partecipazione democratica contenuti nel progetto di Trattato costituzionale fornivano una base per rivendicare immediatamente ulteriori decisivi passi avanti verso una piena federalizzazione. Di conseguenza si è impegnato a favore della ratifica del Trattato, che però è stato bloccato dall’esito negativo dei referendum tenutisi nel maggio-giugno 2005 in Francia e in Olanda (v. Paesi Bassi), anche se il progetto è stato comunque ratificato dalla maggioranza degli Stati e della popolazione dell’UE.
Dopo l’impasse del 2005 il MFE ha cercato di rilanciare il processo costituente. Ritenendo che è il principio dell’unanimità, cioè il veto nazionale, che impedisce gli avanzamenti che sono drammaticamente urgenti, ha compiuto la scelta di concentrarsi sullo scioglimento di questo nodo cruciale. L’obiettivo strategico dell’azione federalista condotta a livello europeo nel 2006-2007 divenne pertanto ottenere che il progetto di Costituzione (rielaborato e migliorato per tenere conto degli esiti dei referendum in Francia e Olanda) fosse sottoposto a un referendum consultivo europeo nello stesso giorno delle elezioni europee del 2009 e che entrasse in vigore, fra i paesi ratificanti, se fosse stato approvato dalla doppia maggioranza degli Stati e della popolazione dell’UE. Va sottolineato che l’idea del referendum europeo, che fu un punto qualificante della campagna per il Congresso del popolo europeo, si fonda sulla considerazione che i referendum nazionali sono una truffa perché mescolano una scelta relativa all’unità europea con le lotte politiche interne e non permettono ai cittadini europei di esprimersi in quanto tali.
Alle richieste federaliste – appoggiate anche da una raccolta di firme lanciata dall’UEF nel 2006 che però non ebbe il tempo di svilupparsi adeguatamente – i governi hanno risposto con l’approvazione alla fine del 2007 del Trattato di Lisbona (che sarebbe entrato formalmente in vigore alla fine del 2009). Questo testo ha mantenuto con alcune attenuazioni (e ulteriori clausole derogatorie per venire incontro alle richieste ceche, irlandesi e polacche) le principali riforme contenute nel Trattato costituzionale, ma ha eliminato ogni riferimento anche simbolico al concetto di costituzione, proprio con l’intento di limitare il più possibile le aspettative di una rapida ripresa del processo di cambiamenti istituzionali in direzione federale. In definitiva il sistema istituzionale in cui è sboccato il processo che ha avuto inizio subito dopo l’entrata in vigore dell’Unione monetaria contiene accanto ad alcuni aspetti federali (in particolare la relativa autonomia della Commissione, il primato del diritto comunitario garantito dalla Corte di giustizia, il ruolo del PE eletto direttamente, il voto a maggioranza per una parte delle decisioni del Consiglio dei ministri) un nocciolo duro (pesante come un macigno) di natura confederale rappresentato dalle decisioni unanimi nei settori delle finanze, della politica estera, di sicurezza e difesa, della revisione istituzionale, dal diritto di secessione e dal fatto che il vero governo dell’UE è un organo, il Consiglio europeo, simile ai congressi della Santa alleanza.
L’Unione Europea di fronte all’alternativa: federazione europea o disgregazione (2008-2016)
In questi anni l’UE si è venuta a trovare di fronte a una alternativa drammatica che si è progressivamente avvicinata al punto di rottura: o costruire la federazione europea (incominciando dai paesi dell’eurozona più gli altri Stati membri dell’UE seriamente intenzionati ad aderirvi) o avviarsi alla disgregazione. Questa situazione è legata a tre sfide esistenziali.
La prima è la sfida della solidarietà. Gli squilibri sociali (disuguaglianza e disoccupazione) e soprattutto gli squilibri territoriali (divari di sviluppo fra i paesi forti e i paesi deboli dell’UE) sono cresciuti a un tale grado, anche in connessione con la crisi globale di questi anni, da produrre sempre più gravi tensioni sociali e politiche e contrasti nazionalistici. In questo contesto l’unione monetaria è diventata tendenzialmente insostenibile, aprendo quindi la concreta prospettiva del collasso della moneta unica e, quindi, dell’integrazione economica. Per affrontare in modo adeguato questa situazione, il processo di unificazione europea deve realizzare il passaggio da un’integrazione economica essenzialmente negativa (cioè l’eliminazione degli ostacoli al libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi) a un’integrazione economica che sia anche positiva (cioè forti politiche sopranazionali dirette ad affrontare gli squilibri inevitabilmente prodotti dal mercato non adeguatamente governato). In effetti l’aver realizzato un’integrazione economica e monetaria fra paesi con forti differenziali di crescita, di produttività e di efficienza senza introdurre una strutturale solidarietà, che con i cosiddetti fondi strutturali ha un carattere appena embrionale, non poteva non produrre, pur nel quadro di una crescita complessiva dell’economia europea, i gravi squilibri che conosciamo e che sono all’origine della precarietà dell’Euro e dell’integrazione economica. Il passaggio all’integrazione economica positiva significa oggi, concretamente, andare al di là delle misure tampone come il Fondo salva Stati, il Fiscal compact, il ruolo più attivo della Banca centrale europea, l’aiuto ai paesi in difficoltà (come nel caso della Grecia) e così via, che non affrontano la radice della debolezza europea. Significa cioè superare la situazione di un’unione monetaria senza governo economico europeo – vale a dire senza Stato, essendo la redistribuzione strutturale un aspetto fondamentale della statualità democratica – che il MFE ha detto fin dall’inizio essere insostenibile. Un governo economico europeo significa realizzare fra i paesi dell’eurozona un’unione fiscale, con un connesso tesoro europeo che possa agire da prestatore in ultima istanza. Significa un bilancio sopranazionale con risorse proprie che permetta l’adozione a livello europeo di misure per una crescita ecologicamente e socialmente sostenibile e territorialmente equilibrata, e quindi tasse europee ed eurobond che possano come minimo triplicare le risorse comuni (rimaste a livello di meno dell’1% del PIL europeo). Significa un’unione bancaria. Significa in sostanza la capacità di imporre il necessario rigore finanziario accompagnato però da un solido sviluppo e da una efficace solidarietà.
È evidente che un vero governo economico europeo implica un sostanziale trasferimento di sovranità dagli Stati all’Europa sul terreno macroeconomico e fiscale e, di conseguenza, un sistema istituzionale sovranazionale più efficiente e democraticamente legittimo. In altre parole ci vuole un esecutivo fondato sul voto dei cittadini europei, un legislativo in cui ci sia la piena codecisione fra PE e Consiglio dei ministri, l’eliminazione di ogni forma di veto nazionale.
La seconda sfida riguarda la sicurezza. La sicurezza dell’Europa si confronta in effetti con gravissime minacce internazionali derivanti in particolare: dalle contraddizioni (povertà e divari di sviluppo, sempre più gravi crisi economiche e finanziarie, le nuove sfide poste dal terrorismo internazionale e dalle migrazioni bibliche) di una globalizzazione non governata che apre prospettive devastanti; dall’incubo, legato al deterioramento ambientale e in particolare al riscaldamento climatico, che sia compromessa la possibilità della vita umana sul nostro pianeta in mancanza di scelte rapide e radicali in direzione di un modo di produrre e di vivere ecologicamente sostenibile; dal crescente disordine internazionale, che si manifesta nella ripresa della corsa agli armamenti (dopo l’attenuazione in coincidenza con la fine della Guerra fredda), nell’instabilità cronica di intere regioni (in particolare il Medio Oriente e l’Africa), nel dilagare delle guerre, e ciò in un contesto caratterizzato dall’irreversibile declino dell’egemonia americana e della sua funzione relativamente stabilizzatrice anche in termini di sicurezza europea.
La questione cruciale posta da queste minacce è il passaggio dall’attuale pluripolarismo conflittuale, che sta facendo seguito alla fine del bipolarismo e al declino dell’egemonia americana, a un sistema pluripolare strutturalmente cooperativo. Questo è il percorso strategico – che comprende da una parte il consolidamento e la stabilizzazione dei poli regionali e dall’altra parte il decisivo rafforzamento e la democratizzazione dell’ONU e in generale dell’organizzazione globale internazionale – verso un mondo più giusto, più pacifico ed ecologicamente sostenibile.
Per cogliere il ruolo decisivo che l’UE è chiamata a svolgere in questa prospettiva, occorre sottolineare che l’integrazione europea è stato un grande processo di pacificazione interstatale derivato da una esperienza di conflittualità che ha condotto l’Europa sull’orlo dell’autodistruzione. Ciò ha prodotto una radicata tendenza a esportare la sua esperienza integrativa e a operare come “potenza civile”, una potenza cioè che persegue il superamento della politica di potenza, in altre parole politiche strutturali di cooperazione pacifica sul piano internazionale. Questa tendenza si è concretamente manifestata nel primato dell’UE, nonostante l’incompleta unificazione, per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo e quello alimentare, le missioni di pace e il perseguimento dei Diritti umani, il ruolo fondamentale rispetto a iniziative quali il Tribunale penale internazionale e gli accordi diretti a contrastare il riscaldamento globale. È evidente che questa vocazione strutturale dell’Europa potrà manifestarsi in modo incomparabilmente più efficace se alla sua potenza economica si sommerà, con una politica estera, di sicurezza e di difesa unica, il fatto di diventare un attore pienamente globale.
Al di là si queste sfide globali la pressante necessità di federalizzare la politica estera, di sicurezza e di difesa deriva in termini più concreti e immediati dai gravissimi pericoli emergenti dalle regioni confinanti con l’UE. La più pesante minaccia è rappresentata dalla situazione esplosiva del Medio Oriente e dell’Africa (esasperata dalla nascita dello Stato islamico e dall’anarchia della Libia), che produce, oltre al dilagare delle guerre, spaventosi fenomeni terroristici, migrazioni di intensità crescente e che stanno diventando insostenibili e anche la precarietà delle forniture energetiche. L’unico disegno in grado di avviare un processo di stabilizzazione e di progresso economico-sociale e politico di queste regioni sarebbe un’iniziativa sul modello del Piano Marshall applicato dagli americani dopo la seconda guerra verso l’Europa. Oggi l’Europa – in collaborazione con gli USA, la Russia e le forze progressiste locali e nel quadro dell’ONU – dovrebbe offrire a queste regioni un grande piano nei campi dell’economia e della sicurezza (disponibilità a inviare per lungo tempo forze militari e anche consistenti forze dirette a sostenere la costruzione-modernizzazione delle strutture politiche, economiche e amministrative). Questi aiuti dovrebbero essere legati a un graduale ma effettivo progresso in termini di pacificazione, integrazioni regionali e democratizzazione di questa parte del mondo.
Un’altra estremamente seria minaccia deriva dalla situazione russa, come in particolare la crisi ucraina ha messo in luce negli ultimi anni. In sintesi la sfida consiste nel realizzare la stabilizzazione di questa regione. Ciò significa favorire il suo progresso socio-economico (che comprende il superamento della dominante dipendenza dalle esportazioni di petrolio e di gas e un decisivo progresso nell’integrazione con l’economia europea) e di conseguenza il suo progresso politico e democratico. L’obiettivo è porre le basi indispensabili per sradicare le tendenze neoimperiali che sono chiaramente connesse con l’arretratezza socio-economica e il regime autoritario della Federazione russa. Per poter realizzare questa politica, così come in riferimento alla stabilizzazione del Medio Oriente e dell’Africa, l’UE deve seriamente perseguire la federalizzazione della sua politica estera, di sicurezza e di difesa, in modo da emanciparsi dalla protezione americana e nello stesso tempo di essere in grado di contenere le tendenze neoimperiali della Russa.
Alle sfide della solidarietà e della sicurezza dobbiamo aggiungere quella proveniente dalla crescente disaffezione dei cittadini europei nei confronti dell’UE. Ciò è indicato dal declino costante dei livelli di partecipazione alle elezioni europee e soprattutto dalla crescita dei partiti e dei movimenti populistici, euroscettici (v. Euroscetticismo) e nazionalisti – un fenomeno che non è lontano da raggiungere livelli incompatibili non solo con l’avanzamento, ma con lo stesso mantenimento del grado di integrazione europea finora raggiunto. Questa crisi politica e sociale deriva fondamentalmente da due fattori. Il primo fattore è costituito dall’incapacità dell’UE – che ha le sue radici nel sistema intergovernativo paralizzato dai veti nazionali – di affrontare in modo efficace i problemi più acutamente sentiti dai cittadini, che si riferiscono ai differenti aspetti della sicurezza (economica, sociale, ecologica, internazionale, del governo dell’emigrazione, del terrorismo). Il secondo fattore consiste nella mancanza di una reale legittimazione democratica delle istituzioni europee, dato che le fondamentali decisioni degli organi dell’UE non sono né efficienti né soggette ad un controllo democratico corrispondente a quello richiesto dai canoni della civiltà politica occidentale. Questi due fattori rinviano all’esigenza cruciale di un vero governo europeo che sia espressione della partecipazione dei cittadini europei al processo democratico. Deve essere sottolineato che entrambi questi deficit sono particolarmente rilevanti nell’eurozona, data l’eccezionale importanza delle decisioni da prendersi a questo livello.
Sulla base di questa visione della situazione europea nel contesto dell’evoluzione della situazione mondiale il MFE è venuto sviluppando dal 2008 una linea politica della quale devono essere sottolineati quattro punti fondamentali.
- La risposta alle tre sfide esistenziali richiede l’avvio di un processo costituente della federazione europea. Ciò significa fondamentalmente: la realizzazione di un potere fiscale europeo, il rafforzamento delle politiche comuni europee in vari campi (sociale, industriale, dell’energia, della ricerca, della sicurezza interna, della migrazione) e, per quanto riguarda la politica estera, di sicurezza e di difesa, la fissazione di una fase di transizione nel corso della quale queste aree si muoveranno progressivamente verso una piena federalizzazione; la trasformazione della Commissione (eletta dal PE e fornita di pieni poteri esecutivi) in un governo federale; un PE (eletto in modo più proporzionale e sulla base di un sistema elettorale uniforme e di collegi regionali) posto, sul terreno legislativo, sullo stesso piano del Consiglio dei ministri (trasformato in una Camera degli Stati); il superamento senza eccezioni del principio dell’unanimità, cioè dei diritti di veto nazionali.
- La federazione non può essere realizzata con la partecipazione fin dall’inizio dei 28 Stati membri dal momento che alcuni di essi (in particolare il Regno Unito, il quale ha oltretutto optato per la secessione, gli Stati scandinavi e alcuni Stati europei orientali) non mostrano in questa fase la minima disponibilità ai trasferimenti di sovranità che la federazione comporta. Pertanto non c’è alternativa all’iniziativa di una avanguardia, come è sempre avvenuto nel processo di unificazione europea ogni volta che passi avanti veramente importanti sul piano politico e istituzionale sono stati all’ordine del giorno. I componenti dell’avanguardia federale si trovano oggi chiaramente nella cerchia degli Stati dell’eurozona e di quelli seriamente intenzionati a partecipare all’unione monetaria, in altre parole i paesi che necessitano in modo vitale della federazione e che, aderendo all’unione monetaria, hanno già compiuto un passo molto significativo in tale direzione. In questa prospettiva si impone l’adozione del metodo della integrazione differenziata, che oggi significa concretamente realizzare una federazione nel quadro della confederazione (l’UE più ampia comprendente tutti gli Stati membri). Gli Stati non pronti al salto federale manterrebbero ovviamente i diritti acquisiti – anzitutto la partecipazione al Mercato unico (v. Mercato unico europeo) – e sarebbe loro garantita la possibilità di aderire più avanti al nucleo federale. D’altra parte la federazione nella confederazione comporta l’introduzione di nuove classi di Stati membri a pieno titolo e di Stati associati.
- Per realizzare la federazione europea, il processo costituente dovrà avere le seguenti caratteristiche: gli Stati dell’avanguardia federale dovrebbero decidere, sulla base di una specie di nuova Dichiarazione Schuman, di attuare il processo costituente fra di loro, scegliendo pertanto la via di un nuovo trattato e non quella della revisione del Trattato di Lisbona che richiede l’unanimità; la convenzione costituzionale formata da rappresentanti del PE e dei parlamenti nazionali dovrà deliberare a maggioranza; la bozza di costituzione approvata da tale convenzione non dovrà essere sottoposta a una conferenza intergovernativa, bensì trasmessa direttamente alle ratifiche nazionali che dovrebbero avvenire tramite un referendum paneuropeo da tenersi simultaneamente nei paesi che hanno partecipato alla redazione del progetto di costituzione, il quale dovrà entrare in vigore fra i paesi ratificanti, a condizione che sia stato accettato da una doppia maggioranza degli Stati e dei cittadini.
- L’apertura formale della procedura costituente (la convocazione di una convenzione costituzionale con un chiaro mandato) dovrà essere accompagnata in parallelo (per essere percepita positivamente dai cittadini che saranno chiamati a ratificare la proposta costituzionale) da una parziale anticipazione del governo economico europeo, cioè dalla istituzione (possibile nell’attuale quadro istituzionale) di un reale fondo di crescita e di solidarietà finanziato da risorse proprie europee (nel contesto di un bilancio autonomo dell’eurozona). Dall’altra parte il processo costituente dovrà anche essere parallelamente accompagnato da un effettivo miglioramento della politica estera, di sicurezza e di difesa comune attraverso, in particolare la creazione di una vera guardia di frontiera europea, una politica realmente comune dell’emigrazione e la cooperazione strutturata permanente nel campo della difesa per affrontare le minacce provenienti dalle regioni confinanti con l’UE. Queste parziali anticipazioni del governo economico europeo e del governo sopranazionale della sicurezza dell’Europa contribuirebbero decisamente a ristabilire la fiducia fra gli Stati dell’UE e a migliorare il consenso popolare nei confronti della riforma federale.
Per quanto riguarda l’azione politica concreta il MFE ha individuato nel PE l’attore politico fondamentale che può spingere i governi nazionali ad avviare il processo costituente della federazione europea. Perciò ha in particolare condotto in occasione delle elezioni europee del 2009 e 2014 una sistematica azione diretta a ottenere dal maggior numero possibile di eurocandidati l’impegno a operare in generale a favore dell’avanzamento dell’unificazione europea e in particolare a battersi per una decisiva iniziativa costituzionale da parte del PE attraverso il lancio di una proposta contenente una riforma federale comprensiva partendo dall’eurozona. Conseguentemente ha promosso azioni dirette a monitorare il rispetto degli impegni e l’aumento del numero degli eurodeputati favorevoli alle posizioni federaliste. Questa azione strategicamente centrale è stata accompagnata da un’azione diretta a ottenere l’elezione della Commissione da parte del PE in alternativa alla sua designazione da parte del Consiglio europeo e quindi a spingere i partiti europei a indicare i loro candidati alla presidenza della Commissione.
Fra gli strumenti fondamentali per concretizzare questa azione vanno ricordati in particolare: il contatto sistematico con gli eurodeputati; la costituzione di un Intergruppo federalista nel PE, che si è definito “Gruppo Spinelli” con riferimento all’iniziativa costituzionale della prima legislatura del PE direttamente eletto; un impegno sistematico volto a coinvolgere direttamente i cittadini europei, gli enti locali, le organizzazioni della società civile nelle richieste federaliste attraverso varie petizioni e appelli al PE e alla classe politica e l’organizzazione a livello nazionale e locale di convenzioni dei cittadini europei.
La linea politica e le azioni del MFE negli anni qui considerati hanno contribuito a due importanti sviluppi del processo di integrazione europea.
Anzitutto con l’elezione di Jean-Claude Junker alla presidenza della Commissione il ruolo di questa è stato rivitalizzato. E ciò si è manifestato in particolare nel lancio del Piano Junker (che pur con le sue risorse inadeguate rappresenta comunque l’avvio embrionale ma concreto di una politica per promuovere lo sviluppo economico europeo) e nelle iniziative e nei progetti diretti ad affrontare l’emergenza migratoria e la connessa crisi del sistema Schengen tra l’altro attraverso il progetto di costituire una vera polizia europea di frontiera. Il secondo cruciale fattore dinamico ha avuto inizio nel 2015 attraverso la decisione del PE di affidare alla propria commissione per gli Affari costituzionali il compito di elaborare due rapporti: uno diretto a individuare gli avanzamenti dell’integrazione europea possibili nel quadro dei trattati esistenti (relatori Elmar Brok, attuale presidente dell’UEF, e Mercedes Bresso, ex presidente dell’UEF); il secondo centrato sulla indicazione degli elementi fondamentali di una riforma complessiva dell’UE che vada oltre i trattati (relatore Guy Verhoftadt).
In sostanza il PE sta decidendo di assumere un’iniziativa simile a quella di Spinelli che ha portato alla proposta del Trattato costituzionale del 1984. Pertanto l’impegno strategico del MFE (e dell’UEF) è diventato il sostegno a questa iniziativa che può aprire la strada all’avvio concreto del processo costituente della Federazione europea.
Sergio Pistone (2007)