Nenni, Pietro
N. (Faenza 1891-Roma 1980) proveniva da una famiglia di origini contadine. La precoce scomparsa del padre gli aprì la via dell’orfanotrofio. La sua formazione fu così caratterizzata da un’educazione rigida in un ambiente condizionato dall’atmosfera papalina, dove però filtravano i richiami del turbolento contesto sociale di fine secolo. I suoi primi ricordi si legavano ai tumulti per il pane scoppiati in Romagna nel 1898 e al regicidio di due anni dopo. All’età di sedici anni fu mandato a lavorare come contabile presso una fabbrica di ceramiche, dove si compì anche il suo precoce apprendistato alla politica. Nel 1908 risultava già iscritto alla locale sezione giovanile repubblicana, di cui diveniva di lì a poco il segretario, mentre cominciava le collaborazioni con il settimanale faentino “Il Popolo”. Per questo motivo fu allontanato dal lavoro, avviandosi a una lunga carriera di agitatore prima e subito dopo di dirigente politico.
Nel 1910 N. fu arrestato in Lunigiana, per la partecipazione a moti di protesta antimonarchici. L’anno successivo collaborò con i socialisti alle manifestazioni contro la guerra di Libia, dove organizzò atti di sabotaggio al fianco di Mussolini, con il quale fu condotto in carcere e sottoposto a processo. Nel 1914 era tra i protagonisti in Romagna della “settimana rossa”, accesa dai pronunciamenti rivoluzionari dei congressi socialista e repubblicano, che gli valse una nuova condanna per reati politici. Allo scoppio della Prima guerra mondiale N. aderì come altri esponenti della “settimana rossa” alla posizione interventista, persuaso che la guerra potesse costituire la miccia di innesco della rivoluzione. Fu invitato a collaborare con “Il popolo d’Italia” di Mussolini, prima di partire volontario per il fronte dell’Isonzo. Congedato a seguito di una ferita riportata in zona di guerra, fece ritorno alla politica attiva assumendo la direzione de “Il Giornale del mattino” di Bologna e quindi, alla chiusura di questo, passando a collaborare con “Il Secolo”, prestigioso quotidiano radicale milanese. In questo ambiente maturava tra il 1919 e il 1921 il suo passaggio al socialismo, una svolta decisiva nella vita politica di N., che prima di compiere questo passo aveva partecipato alla formazione del fascio di combattimento di Bologna, suggestionato dalla carica eversiva sprigionata dal movimento dell’amico Mussolini.
Pur tra incertezze ideologiche tipiche di quell’epoca, l’adesione di N. al socialismo si compiva nella raggiunta consapevolezza del carattere reazionario del fascismo, cui si univa un’insoddisfazione per la scarsa risolutezza dimostrata dai repubblicani e il rifiuto della soluzione comunista. Il tema della lotta di classe gli appariva come l’unica prospettiva rivoluzionaria che si apriva nella politica italiana. N. abbracciò così la posizione massimalista di Giacinto Menotti Serrati, che, intravedendone le capacità, lo assunse come corrispondente dell’“Avanti!”, di cui nel giro di pochi mesi diveniva redattore capo. Dalle colonne del giornale intraprese la battaglia contro il fascismo, che nel frattempo aveva raggiunto il potere. L’antifascismo costituiva per lui una condizione indispensabile dell’attività rivoluzionaria, ma anche un’occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze popolari nel tracollo della democrazia. La necessità di superare i limiti della contrapposizione tra riformismo e massimalismo si concretizzava nel progetto di “Quarto Stato”, una rivista fondata nel 1925 con Carlo Rosselli che anticipava il suo esilio a Parigi e tracciava le linee per una riformulazione ideologica del socialismo.
Tra i più attivi nelle file del fronte antifascista costituitosi in Francia, N. concorreva alla riunificazione dei partiti socialisti in esilio divenendone poi segretario. Si adoperava quindi a sostenere la politica dei fronti popolari, a rafforzare i contatti con le altre forze antifasciste, in primis con Giustizia e libertà, e a superare i pregiudizi nella collaborazione con i comunisti. La guerra di Spagna rappresentava da questo punto di vista l’occasione per sperimentare sul campo di battaglia la capacità di azione dell’alleanza antifascista. Qui doveva però verificare l’impreparazione dei governi democratici e delle forze volontarie dinanzi alla risolutezza militare del nazifascismo. Presente sul fronte spagnolo come commissario politico delle brigate internazionali, N. definiva meglio le prospettive di politica europea, che non si limitavano all’obiettivo della Resistenza antifascista, ma puntavano soprattutto all’organizzazione di un movimento rivoluzionario. Ciò lo rafforzava nella convinzione di una più stretta unità d’azione tra socialisti e comunisti, che costituirà l’assillo della sua politica negli anni a venire, rendendolo invece del tutto indifferente alle istanze del Federalismo europeo, che maturavano negli ambienti dell’esilio e cominciavano a prospettarsi verso la fine del conflitto mondiale, quando già si delineava il profilo della nuova Europa.
N. era venuto a diretto contatto con questi fermenti durante il suo confino nell’isola di Ponza, cui era stato destinato nel 1943 dopo la cattura in Francia da parte della Gestapo, e successivamente nel corso dell’attività politica ripresa in Italia all’indomani della caduta del fascismo. La costruzione del socialismo, anziché la prefigurazione di un legame transnazionale tra gli Stati europei, assorbiva l’orizzonte della sua iniziativa politica: la dimensione internazionale della lotta di classe, contrapposta alla visione federalista dell’unità europea. In una lettera inviata a Morandi nel 1944 N. invitava a diffidare di un’azione del movimento federalista europeo fuori dall’orbita dell’Unione sovietica: «L’idea che è alla base di questo movimento solleva per noi due problemi capitali: quello dei rapporti fra Stati socialisti e Stati capitalisti e quello conseguente della posizione dell’Urss in un sistema federativo» (v. Spinelli, 1993, p. 77).
In coerenza con simili presupposti muoveva anche l’iniziativa di N. ministro nell’Italia postfascista, dapprima quale vicepresidente del Consiglio e ministro della Costituente nel governo Parri (v. Parri, Ferruccio) e nel primo governo De Gasperi (v. De Gasperi, Alcide), successivamente come ministro degli Affari esteri nel secondo governo De Gasperi. Il raggio della sua azione era circoscritto dalla funzione assegnata al socialismo italiano nell’ambito più vasto del movimento internazionale, regolato dal ruolo guida dell’Unione sovietica. Nella sua breve esperienza di ministro degli Affari esteri (dall’ottobre del 1946 al gennaio del 1947) N. cercava di collocare l’Italia in una posizione intermedia tra i due opposti blocchi, così da scongiurare una più stretta alleanza con il blocco atlantico secondo le direttive della propaganda neutralista dei partiti occidentali fedeli dal 1947 alla linea del Cominform.
Questa politica veniva delineata nel discorso di Canzo del 13 ottobre 1946, dove N. tracciava gli obiettivi programmatici della sua gestione agli Affari esteri. «Niente isterismi, ma neppure rinunzie. L’Europa si troverà, da ora in poi, davanti ad una Italia che vuole collaborare all’opera comune di progresso, che vuole vivere in pace coi vicini, che fonda la sua azione sul principio della solidarietà internazionale, che non punta sugli anglo-americani, ma sull’unione di tutte le forze democratiche dell’Europa e del mondo» (v. Santarelli, 1988, p. 284).
L’intenzione di sospingere l’Italia verso una posizione di neutrale equidistanza dalle coalizioni, dove anche l’obiettivo dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) (che il movimento federalista aveva già affermato come prioritario) sfumava dinanzi a un più generico proposito internazionalista, era però contraddetta dalla ripartizione in aree di influenza prefigurata dal trattato di pace, poi rafforzata tanto dalla pressione sovietica sui governi dell’Europa orientale quanto dai primi progetti di un piano di aiuti americano. I margini di azione del ministro degli esteri socialista erano perciò esigui, come dimostrava anche l’inefficacia del suo tentativo di rimuovere dalla sede di Washington l’ambasciatore Alberto Tarchiani, punto di riferimento delle correnti atlantiste e organizzatore nel gennaio del 1947 della visita di De Gasperi negli Stati uniti. In quegli stessi giorni, a seguito della scissione avvenuta in seno al partito socialista, N. era costretto ad abbandonare gli incarichi di governo per dedicarsi a tempo pieno alla riorganizzazione del partito. La convergenza della corrente socialdemocratica su posizioni atlantiche lo portava a irrigidire il tema dell’alternativa di sistema, che di lì a breve lo avrebbe condotto a un’opposizione frontale ai partiti centristi. «Tutti i nostri pensieri, tutti i nostri atti, tutti i nostri voti hanno un obiettivo: colpire e distruggere l’iniquità capitalistica che noi consideriamo fonte delle sciagure del nostro paese», così N. presentava la posizione socialista in occasione della presentazione all’Assemblea costituente del terzo governo De Gasperi (v. Nenni, 1983, p. 25).
La politica di neutralità costituiva in quegli anni il cemento dell’alleanza con i comunisti, esponendo i socialisti a una condizione di isolamento nei confronti del socialismo europeo nel momento in cui il movimento di integrazione europea rappresentava invece in altri paesi un punto di riferimento più accreditato. N. contestava proprio questa prospettiva politica e reclamava in parlamento «la garanzia di fare una politica di pace, di neutralità e di indipendenza verso qualsiasi blocco, o qualsiasi determinata potenza» (v. Nenni, 1983, p. 53).
Sul piano elettorale questa scelta non contribuì alle fortune del partito socialista. La netta sconfitta del fronte popolare nella contesa con il blocco centrista fu resa ancor più pesante dal ridimensionamento dei socialisti nei confronti dei comunisti, che determinava un rapporto di subalternità destinato a pesare sulle successive vicende del socialismo italiano. Il tentativo iniziale di N. fu quello di persuadere il governo a considerare la politica estera come una zona franca, da sottrarre allo scontro ideologico con l’opposizione. Questa speranza fu resa vana dal peso specifico delle decisioni da intraprendere e dall’irriducibile opposizione esercitata dai partiti di sinistra alle proposte del governo. Dopo le contestazioni sollevate in occasione del Piano Marshall, la polemica toccava il suo punto più elevato al momento della richiesta di adesione dell’Italia al Patto atlantico. L’11 marzo del 1949, tra le vivaci proteste dell’aula parlamentare, N. arrivava a paragonare la situazione a quella del 1939, quando il governo fascista «firmò il “patto d’acciaio” e lo illustrò al paese come tendente a preservare la pace europea» (v. Nenni, 1983, p. 128).
L’irriducibile opposizione all’Alleanza atlantica (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) costituì per N. il principale motivo di incomprensione riguardo alla politica di integrazione europea, che dall’atlantismo traeva linfa vitale. Il disprezzo riservato a questo tema era condizionato dal fatto che, a giudizio di N., il «federalismo non è purtroppo una soluzione ma una evasione. È una fuga nell’astratto. Oggi non è niente, quando non è la bandiera che copre il contrabbando imperialista» (v. Nenni, 1983, p. 111). Per molti anni il partito socialista di N., che ne assumeva l’incarico di segretario nel 1949 mantenendolo sino al 1963, continuò a sostenere l’irrilevanza di una politica europea dinanzi al confronto tra le due potenze nucleari. Ma anche sui due contendenti il giudizio appariva sbilanciato. I toni da crociata riservati agli Stati uniti e le simpatie incontrate in Unione sovietica, dove nel 1952 veniva insignito del premio Stalin per la pace, facevano di N. un alleato fedele dei paesi d’oltre cortina. Soltanto la morte di Stalin e il processo di revisione critica dei suoi crimini contribuì progressivamente a fargli cambiare schieramento, con una certa lentezza riguardo all’adesione a una linea europeista. La politica europea continuava ad apparirgli strumentale alla contrapposizione dei due blocchi, come dimostrava l’irrealistica proposta nel 1958 di fare del continente un territorio neutrale e disatomizzato e la perdurante attribuzione all’europeismo del «carattere di una evasione» (v. Nenni, 1983, pp. 520-523, 585).
La divergenza nei tempi di elaborazione delle prospettive di politica interna e di politica estera dimostrava la scarsa propensione di N. per l’ideologia rispetto al terreno della prassi – il suo comportamento era racchiuso nella formula della politique d’abord – che si accompagnava a un certo ritardo nel riconoscere la realtà totalitaria del socialismo reale. Se in politica interna già nel 1956 il partito socialista aveva cominciato ad allontanarsi dai comunisti adoperandosi a intese elettorali con il partito socialdemocratico, in politica estera i tempi di revisione furono più lunghi e seguirono il faticoso processo di costruzione della maggioranza di centrosinistra, che nel 1963 segnò il ritorno dei socialisti al governo con N. vicepresidente del Consiglio. Malgrado la distensione internazionale e un certo credito acquisito presso le diplomazie occidentali, la politica estera rimase però un versante di difficile comunicazione con la maggioranza centrista. Lo stesso N. contribuiva ad alimentare diffidenze attingendo di continuo al serbatoio della retorica socialista. Tra i suoi temi più diffusi, quello della contrapposizione di una Europa dei popoli all’Europa degli Stati, cui il partito socialista continuava a opporsi: «Contrapporre l’Europa dei popoli all’Europa delle patrie e dei militarismi è il nuovo grande compito che si apre all’azione di quanti respingono la situazione che si è creata nel cuore del nostro vecchio continente», così in un dibattito parlamentare del gennaio del ’63 (v. Nenni, 1983, p. 699).
Nell’agosto del 1968 l’invasione militare della Cecoslovacchia accelerava definitivamente il processo di avvicinamento dei socialisti alla sponda atlantica. Pochi mesi dopo, il ritorno di N. alla guida del ministero degli Affari esteri rendeva definitivo questo approdo. Dinanzi all’avanzata dei carri armati sovietici N. aveva richiamato l’attenzione del Parlamento «sull’esigenza di una politica di unità europea che supplisca ai vuoti dell’attuale organizzazione dei rapporti internazionali soggetti alla nefasta influenza della Realpolitik» (v. Nenni, 1983, p. 705). Dalla Farnesina egli rese ancora più esplicito questo proposito avvalendosi anche del sostegno di Altiero Spinelli, che nominò suo consulente ministeriale. Gli interventi pubblici che contrassegnarono questa sua ultima breve esperienza governativa, che si concluse appena sette mesi dopo nel luglio del 1969, rappresentano un’apertura ai più avanzati propositi di integrazione europea.
I temi sollevati da N. facevano proprie le istanze del federalismo, ma anticipavano anche questioni che sarebbero giunte a soluzione molti anni più tardi. Il ministro socialista non solo faceva presente la necessità di superare l’Unione doganale attraverso una vera e propria unione economica, ma cominciava già ad accennare all’ipotesi di una integrazione monetaria che aveva sullo sfondo la prospettiva della moneta unica. Questo progetto era subordinato al rafforzamento delle Istituzioni comunitarie, in special modo della Commissione europea, per attenuare le spinte isolazioniste che condizionavano il cammino dell’integrazione continentale. N. riusciva a incardinare queste proposte in una visione più alta delle responsabilità politiche, che lo portava ad auspicare una presenza dell’Europa nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e soprattutto a sollecitare il passaggio alle Elezioni dirette del Parlamento europeo: «L’Europa sarà frutto ed espressione della democrazia europea, oppure non sarà» (v. Nenni, 1983, p. 746).
L’uscita dal governo segnò anche la parabola conclusiva della lunga carriera politica di N., che tuttavia rimase sulla scena sino agli ultimi giorni come figura di riferimento della democrazia italiana. Nel 1970 fu nominato senatore a vita, due anni dopo divenne presidente onorario del partito socialista.
Paolo Varvaro (2010)