Olivetti, Adriano
O. acque a Ivrea l’11 aprile 1901, secondogenito di Camillo Olivetti e di Luisa Revel. Le origini religiose e culturali dei genitori – ebreo non praticante il padre, valdese la madre – accentuarono il rigore morale che caratterizzò l’educazione del giovane, avviato agli studi tecnico-scientifici che culminarono in una laurea in ingegneria conseguita presso il Politecnico di Torino nel 1924. Studente poco brillante O., già incline allora agli interessi umanistici, venne profondamente influenzato dal clima politico e sociale che si respirava a Torino nei primi anni Venti.
Nella sua formazione si rispecchiarono certamente sia le propensioni politiche del padre (in gioventù simpatetico verso il riformismo socialista), sia le frequentazioni torinesi nell’ambiente di colei che doveva diventare la sua prima moglie, Paola Levi, orientato nel senso dell’antifascismo (anni dopo sarebbe divenuto la couche della cospirazione torinese di Giustizia e libertà).
Dopo la laurea, O, entrò nella fabbrica che il padre aveva fondato a Ivrea nel 1908, specializzata nella costruzione di macchine per scrivere. Dopo un breve periodo di addestramento come operaio, O. intraprese, ancora per volontà paterna, un lungo viaggio di studio negli Stati Uniti che si protrasse per sei mesi, tra la fine del 1925 e l’inizio del 1926, in cui ebbe modo di osservare da vicino la più avanzata realtà industriale del suo tempo. Egli fu così fra i primi italiani a maturare una conoscenza e un’analisi dirette del taylorismo e del fordismo, da tempo all’opera nelle fabbriche statunitensi.
Come testimoniano le sue lettere alla famiglia, O. guardò a quei modelli di organizzazione industriale con l’occhio non soltanto di un futuro dirigente aziendale, ma anche di un intellettuale europeo già propenso a cogliere i risvolti politici dell’americanismo. Anche negli anni successivi O. svolse un ruolo di pioniere nel campo dell’organizzazione del lavoro e delle politiche di razionalizzazione dell’ambiente produttivo, cui si dedicò attivamente a partire dalla fine degli anni Venti.
Nel medesimo tempo, pur partecipando agli incontri promossi dall’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (ENIOS, creato dal fascismo per la diffusione dei principi del scientific management), non interruppe i contatti con i gruppi antifascisti, come prova la sua collaborazione alla fuga di Filippo Turati dal confino nel 1926.
Gli anni Trenta videro O. assurgere a responsabilità di primo piano nella gestione della Olivetti che, sotto la sua direzione, diventò uno dei pochi esempi in Italia di impresa organizzata secondo le premesse della razionalizzazione. O. amava sempre ricordare che, nel cedergli la responsabilità operativa, il padre Camillo gli aveva posto un unico limite, quello di non risolvere mai le situazioni di crisi attraverso una riduzione dei livelli dell’occupazione. In altri termini, i principî tayloristi-fordisti erano posti al servizio di una visione dell’impresa che postulava l’espansione sia della capacità produttiva che dei volumi occupazionali. Ad allora risalgono le iniziative volte alla realizzazione di un welfare aziendale in grado di sopperire alla fragilità delle strutture pubbliche di assistenza per i lavoratori.
Alla fine degli anni Trenta va ricondotto anche il crescente interesse nutrito da O. per le problematiche della pianificazione urbanistica e territoriale, che doveva in seguito avvicinarlo ai temi del Federalismo europeo. O. presiedette così alla redazione di un piano territoriale per la Valle d’Aosta, che va considerato come il momento del suo ingresso sulla scena pubblica all’insegna dell’attenzione ai problemi dell’ambiente e di una moderna cultura urbanistica, ma anche un tentativo, peraltro fallito, di inserimento negli schemi corporativi del regime fascista.
La Seconda guerra mondiale comportò una cesura nell’impegno industriale e sociale di O. Il forte coinvolgimento dell’azienda di famiglia nel movimento della Resistenza (che ebbe il suo emblema nell’esecuzione del dirigente Guglielmo Jervis da parte dei nazifascisti) comportò per O. il distacco da Ivrea, con una temporanea prigionia a Regina coeli fra il luglio e il settembre 1943, e il successivo riparo in Svizzera nel 1944-1945.
Proprio il periodo svizzero fu essenziale nello sviluppo delle sue idee politiche: in esilio, O. compose il suo scritto teorico maggiore, L’Ordine politico delle comunità (apparso nel 1945), in cui propugnava un radicale riassetto del sistema rappresentativo e istituzionale secondo un modello federalistico incardinato sulla comunità territoriale, vale a dire un’unità economicamente e socialmente omogenea, che doveva costituire la cellula di base di un nuovo ordinamento destinato a estendersi su scala europea.
La ricostruzione postbellica restituì a O. la guida aziendale, dandogli la possibilità di diventare un esponente di punta della nuova Italia industriale. Con Vittorio Valletta, Enrico Mattei, Oscar Sinigaglia, Raffaele Mattioli, O. divenne uno dei maggiori artefici del “miracolo economico”. Con prodotti di larghissimo successo mondiale come la macchina per scrivere portatile “Lettera 22” e la calcolatrice meccanica “Divisumma”, la Olivetti conobbe un eccezionale successo industriale, che la portò in cima alle imprese innovative del suo settore a livello internazionale.
Ma O. non pensava affatto di trascurare, dedicandosi al ruolo imprenditoriale, i suoi interessi politico-culturali, ormai consolidati. Dopo una breve fase di militanza nel partito socialista, deluso dai tempi e dalle forme della politica ufficiale, decise di dare vita a una rivista che sarebbe poi divenuta un movimento: “Comunità” (che uscì a partire dal 1946). La pubblicazione olivettiana denunciava un’ispirazione personalistica (nel senso del filosofo francese Emmanuel Mounier), cristiana e federalistica. Combatteva dunque l’accentramento istituzionale e sosteneva invece un federalismo “integrale”, secondo un’armonica concatenazione delle autonomie locali. La rappresentanza democratica doveva così fondersi con quella del territorio e delle funzioni economiche, in modo che il processo politico venisse supportato da un’effettiva competenza tecnica. La Comunità di base doveva essere guidata dalle rappresentanze del territorio, del lavoro e della cultura, in un progetto di integrazione teso a salvaguardare, allo stesso tempo, le ragioni della democrazia e quelle dell’efficienza funzionale.
Queste idee spinsero O. a stringere legami da un lato con gli esponenti del Movimento federalista europeo e in particolare con Altiero Spinelli, dall’altro con le associazioni degli urbanisti che proponevano all’Italia in fase di ricostruzione le esperienze della pianificazione del territorio. In questa logica va interpretato l’intervento di O. nella gestione dell’Unrra-Casas, uno degli enti del dopoguerra finalizzati alla gestione del territorio, che si misurò con la progettazione e l’edificazione di villaggi modello nel Mezzogiorno (il centro della Martella, nei pressi di Matera).
O. strinse forti legami anche con il Consiglio dei Comuni d’Europa (CCE), organizzazione fondata nel 1951 la cui idea principale era quella di costruire una federazione partendo dall’entità territoriale più piccola, vale a dire il comune. O. sostenne anche materialmente la fondazione della sezione italiana dell’Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni d’Europa (AICCE) a opera di Umberto Serafini.
All’inizio degli anni Cinquanta, “Comunità” si trasformò in un movimento politico vero e proprio, disposto a entrare nell’agone elettorale. Nel 1953 il gruppo olivettiano sostenne alle elezioni politiche le liste di Unità popolare, che contribuirono a far fallire la legge maggioritaria voluta dal governo centrista. Sul piano locale, il movimento Comunità conquistò il municipio di Ivrea e quello di altri centri agricoli limitrofi, elaborando schemi sofisticati di amministrazione della politica territoriale, il cui scopo era di permettere un equilibrio fra industria e campagna, fra città e retroterra rurale, in modo che lo sviluppo produttivo non scardinasse i sistemi di relazione sociale e le tradizioni abitative.
L’area di riferimento del movimento Comunità era la cosiddetta “terza forza”, vale a dire una sinistra non comunista che intendeva preparare una svolta politica, guardando con favore all’ipotesi di unificare l’universo socialista su una piattaforma di socialdemocrazia europea. Inoltre, il movimento Comunità seguiva con simpatia i tentativi dei movimenti autonomistici, tanto da decidere di partecipare alle politiche del 1958 creando un’alleanza con il Partito dei contadini (una formazione con qualche radicamento nelle campagne piemontesi) e il Partito sardo d’azione. Il cardine del programma era costituito da una proposta federalistica molto sensibile al problema dello sviluppo meridionale e a una prospettiva d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) che permettesse di superare gradualmente i blocchi e le rigidità imposti dalla Guerra fredda.
La sortita elettorale del movimento Comunità si concluse con un insuccesso e il solo O. poté entrare alla Camera dei deputati. Tale esito negativo comportò per lui pesanti conseguenze aziendali, che condussero al suo temporaneo esautoramento dalla responsabilità direttiva. L’anno seguente, tuttavia, la crisi era già risolta, con il ripristino delle funzioni imprenditoriali di O. che si ributtò senza risparmiarsi nel vortice di tutti i suoi impegni.
La morte lo colse all’improvviso il 27 febbraio 1960, mentre era in viaggio, da solo, in Svizzera.
Giuseppe Berta (2010)