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Parlamenti nazionali

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Introduzione

Il tema dei parlamenti nazionali può essere affrontato sotto un duplice profilo: quello del loro ruolo a livello comunitario – dell’Unione europea, dopo il Trattato sull’Unione europea (TUE) o Trattato di Maastricht – e quello dell’attività interna riguardante gli affari comunitari. Esistono, quindi, un “circuito esterno” e un “circuito interno”. Il primo attiene ai complessi rapporti tra parlamenti nazionali e Istituzioni comunitarie (in particolare con il Parlamento europeo, PE), il secondo al rapporto dialettico di ciascun parlamento nazionale con il proprio governo e che si sostanzia nel controllo del primo sull’attività del secondo in materia comunitaria.

Solo in anni recenti questi circuiti si sono sviluppati in modo crescente. In passato – e questo vale soprattutto per il Parlamento italiano – i parlamenti nazionali erano assenti, o comunque poco presenti, sulla scena comunitaria; analoga considerazione si può fare per la scarsa attenzione nei confronti del processo di integrazione europeo, accentuata dall’emarginazione dei parlamenti da parte dei loro governi (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). A questo si può aggiungere la scarsa conoscenza – da parte delle istituzioni, delle amministrazioni e di gran parte della stessa classe politica – della realtà comunitaria e dei complessi meccanismi che la caratterizzano. Un’ulteriore causa di estraneità dei parlamenti (sempre, soprattutto, nel caso italiano) risiede nell’iniziale, ma perdurante, concezione degli affari comunitari come affari esteri. È questo il “vizio assurdo”, il peccato originale che ha caratterizzato l’atteggiamento prevalente nei confronti della Comunità economica europea. Si può dire che persista ancora oggi una visione “internazionalistica” – soprattutto nella dottrina – che vede nella Comunità una organizzazione internazionale, sia pure con certe peculiarità.

Quanto sinora detto non esclude che vi siano state iniziative per far emergere il ruolo dei parlamenti nazionali nel contesto comunitario (quello che abbiamo definito “circuito esterno”) e per potenziare o affinare il rapporto parlamento-governo (il “circuito interno”).

Il ruolo dei parlamenti nazionali nel contesto comunitario (circuito esterno)

Per quanto riguarda il “circuito esterno”, a partire dalla nascita della prima Comunità, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e fino al giugno 1979 vi è stato un naturale collegamento dei parlamenti nazionali con l’assemblea comune e, con la creazione delle altre due Comunità, la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), con l’Assemblea parlamentare europea (APE), autodefinitasi nel 1962 Parlamento europeo, denominazione riconosciuta ufficialmente solo molto più tardi con l’Atto unico europeo, entrato in vigore il 1° luglio 1987. Questo collegamento, naturale, o per meglio dire strutturale, era costituito dalla composizione del Parlamento europeo con delegazioni elette dai parlamenti nazionali al proprio interno. Certamente il doppio mandato costituiva un importante momento di raccordo tra i due livelli, europeo e nazionale, ma nonostante gli sforzi compiuti negli anni dai rappresentanti eletti al PE per sensibilizzare le assemblee nazionali sull’importanza di una compiuta conoscenza dei temi comunitari e sulla partecipazione attiva delle istituzioni nazionali – e in particolare dei parlamenti – all’attività delle istituzioni comunitarie, l’interesse verso queste ultime risultava assai tiepido. L’iniziativa più significativa, ai fini di un raccordo tra le due realtà – quanto meno in ambito parlamentare – fu assunta dal presidente pro tempore del PE, l’italiano Gaetano Martino, il quale convocò l’11 gennaio 1963 una Conferenza dei presidenti delle assemblee parlamentari europee e del Parlamento europeo (preceduta il 9 e 10 da una riunione preparatoria dei segretari generali delle varie assemblee). A questa fece seguito dieci anni dopo, il 15 gennaio 1973, una seconda Conferenza organizzata dal PE a Strasburgo. Ma queste due conferenze rimasero iniziative isolate. Fu per impulso dell’allora presidente dell’Assemblea nazionale francese Edgar Faure che, con la Conferenza di Parigi del 7 gennaio 1975, ebbe inizio la serie di conferenze dei presidenti dei parlamenti nazionali ed europeo. Va, peraltro, notato che fino al 1980 le conferenze riunivano non solo i presidenti dei parlamenti dei paesi membri della Comunità, ma anche quelli dei paesi componenti il Consiglio d’Europa. Dal 1980, per iniziativa del presidente del Senato italiano, Amintore Fanfani, si separarono i due ambiti e si alternarono una “Grande conferenza” (ambito del Consiglio d’Europa) e una “Piccola conferenza” (ambito della Comunità europea). In questa sede ci occuperemo della seconda. Essa ha costituito in questi anni la sede privilegiata della cooperazione tra parlamenti, sul piano generale, e del raccordo tra i due livelli parlamentari, europeo e nazionale. La Conferenza ha fornito un eccezionale momento di incontro e di confronto di esperienze e ha creato un importante circuito per una costante cooperazione interparlamentare a vari livelli. Si sono intensificati i contatti tra assemblee, in particolare fra le articolazioni di queste e in special modo tra le commissioni parlamentari, tra relatori nonché tra le strutture di supporto delle diverse assemblee. In merito a queste ultime va ricordato che nella II Conferenza, tenuta a Roma nel 1975 e nella successiva Conferenza di Vienna del 1977, fu decisa la creazione di un Centro europeo di ricerche e documentazione parlamentari (CERDP), che ha costituito una rete di collegamento costante fra i segretariati delle assemblee parlamentari, con una direzione centrale presso il Parlamento europeo e l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Questo Centro – che ha iniziato a funzionare nel 1977 – ha fornito un importante contributo a una migliore conoscenza delle realtà nazionali, non solo parlamentari, e ha favorito l’analisi comparata delle legislazioni attraverso una fitta rete di informazioni e documentazioni, tanto più utili in quanto in anni passati non si disponeva degli attuali sofisticati strumenti informatici. In tal modo il Centro ha favorito anche, con gli scambi di documentazioni e informazioni, un migliore controllo dei parlamenti sull’attività dei governi in materia comunitaria (quindi nel “circuito interno”).

Le conferenze dei presidenti hanno conservato un carattere informale seguendo una prassi, via via consolidatasi, di convocazioni concordate di volta in volta con l’organizzazione affidata al presidente del parlamento ospitante, il quale, in accordo con i presidenti dei parlamenti organizzatori della precedente conferenza e di quella successiva (riuniti nella c.d. “troika”), fissa l’ordine del giorno. I temi trattati sono stati i più vari, ma molto spesso l’attenzione si è focalizzata sui problemi dell’integrazione comunitaria, specie in connessione con eventi particolarmente rilevanti (Atto unico, Trattato di Maastricht e Trattato di Amsterdam). Non si sono mai prese decisioni formali e di particolare contenuto politico, data la presenza di figure come lo speaker britannico, legato a rigorosi principi di imparzialità, e in ogni caso è sempre stata applicata la regola del consensus. Solo nella Conferenza di Roma del settembre 2000 si è pervenuti all’approvazione di “principi direttivi” (una sorta di regolamento), i quali non hanno fatto che codificare la prassi seguita sino ad allora. È indubbio che le conferenze dei presidenti abbiano costituito a lungo il principale canale per assicurare la presenza dei parlamenti nazionali a livello europeo, consentendo la sempre maggiore, e migliore, cooperazione tra loro e con il Parlamento europeo. Essa è stata anche la sede dalla quale sono partite importanti iniziative per articolare e accrescere detta cooperazione. Oltre a quanto già prima ricordato, va segnalata una significativa emanazione della Conferenza dei presidenti: la Conferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari (COSAC). L’idea di creare questa Conferenza fu lanciata nella conferenza dei presidenti tenuta a Madrid nel maggio 1989 dal presidente dell’Assemblea nazionale francese, che ne organizzò la prima riunione a Parigi nel novembre 1989.

La COSAC, nata in modo informale, si è venuta progressivamente strutturandosi un regolamento. Essa è composta da sei rappresentanti per ciascun parlamento (ivi compreso quello europeo) e tiene una riunione ogni semestre nel paese che detiene la presidenza della Comunità-Unione europea. Ma la COSAC ha assunto una diversa importanza e una fisionomia più precisa dopo il suo riconoscimento formale in una norma giuridica: il Protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea, allegato al Trattato di Amsterdam. Nella seconda parte di questo Protocollo, dedicata alla COSAC, si dichiara che questa può sottoporre alle istituzioni dell’Unione «tutti i contributi che ritiene utili» sui progetti che i governi ritengano di trasmetterle. Si indica un settore specifico sul quale la COSAC è chiamata a esprimersi: lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, specie laddove le iniziative che lo concernono potrebbero «incidere sui diritti e le libertà dei singoli». Si tratta di una competenza particolarmente significativa affidata alla COSAC, che su queste iniziative, nonché sull’applicazione del Principio di sussidiarietà, può trasmettere alle istituzioni comunitarie (Parlamento, Commissione europea e Consiglio dei ministri) «qualsiasi contributo che ritenga utile».

Già per la sua stessa composizione la COSAC costituisce in certo senso un’evoluzione nella collaborazione tra parlamenti nazionali e Parlamento europeo (v Commissioni parlamentari). Non sono i presidenti delle assemblee, che si incontrano, ma che per la loro stessa funzione non possono prendere posizioni politiche di parte, bensì rappresentanti di differenti tendenze politiche che, sia pure in termini molto ristretti, possono esprimere opinioni delle forze politiche di appartenenza nelle rispettive assemblee. È vero che il punto 7 della parte II del Protocollo in esame dichiara che «i contributi della COSAC non vincolano in alcun modo i parlamenti nazionali e non pregiudicano la loro posizione», ma ciò nulla toglie al sostanziale contenuto politico dell’azione di questa singolare Conferenza.

Il rapporto tra parlamenti nazionali e governi riguardo agli affari comunitari (circuito interno)

La funzione della COSAC si riallaccia all’attività dei parlamenti sugli affari comunitari in ambito nazionale, cioè al “circuito interno”. La situazione è stata diversa – e in parte lo è ancora – nei vari paesi. Vi sono parlamenti che, anche in virtù di precise previsioni normative (talvolta di carattere costituzionale), hanno seguito da vicino l’evolversi del processo di integrazione. È questo il caso del Bundestag tedesco, che in base a una norma della Costituzione deve essere consultato dal governo federale prima che sia presa una decisione dal Consiglio dei ministri comunitario. Analoghe situazioni si verificano, in termini ancora più penetranti, nel Parlamento britannico e in quello danese.

Anche il Parlamento italiano, sia pure con notevole ritardo, si è attrezzato per seguire da vicino gli affari comunitari, sia in quella che è stata definita la “fase ascendente”, cioè della formazione della decisione a livello comunitario, sia nella “fase discendente”, di attuazione di questa nell’ordinamento interno. Dagli anni Ottanta agli inizi degli anni 2000 si è provveduto con la legislazione ordinaria e con importanti modifiche ai regolamenti parlamentari. Sono stati previsti meccanismi di indirizzo e di controllo del Parlamento sull’attività del governo; significativa l’istituzione di una Commissione “politiche dell’Unione europea” sia alla Camera (sin dal luglio 1990) che al Senato (nel febbraio 2003), con funzioni consultive, ma anche legislative e soprattutto di esame della compatibilità delle norme interne con le norme comunitarie. Per adeguare più sollecitamente l’attuazione delle direttive comunitarie (v. Direttiva) nell’ordinamento interno è stato introdotto il meccanismo della “legge comunitaria annuale”, prevista dalla legge n. 86 del 9 marzo 1989 (nota come “legge La Pergola”). I poteri del Parlamento in questa materia sono stati rafforzati dalla riforma del titolo V della parte II della Costituzione, che ha previsto per la prima volta in termini espliciti il rispetto dei vincoli comunitari. Ulteriori specificazioni sono previste nelle norme di attuazione contenute nella legge n. 131 del 5 giugno 2003 (c.d. “legge La Loggia”) e in una normativa ancora in itinere (il c.d. “disegno di legge Buttiglione”), che prevede un significativo rafforzamento del controllo del Parlamento sul governo con la “riserva di esame parlamentare”, cioè con l’obbligo del governo di far sospendere la Decisione comunitaria finché il Parlamento italiano non si sia espresso.

Analoghe situazioni, con modalità differenti, esistono negli altri parlamenti, che in tempi diversi hanno istituito commissioni per gli affari comunitari le quali, come si è detto, inviano propri rappresentanti alla COSAC.

Per quanto riguarda le tappe del difficile cammino che ha portato i parlamenti nazionali ad affermare il proprio ruolo nel contesto comunitario, va ricordata in primo luogo la Dichiarazione n. 14 allegata al TUE, che ha previsto la possibilità di convocare una “Conferenza dei parlamenti (o Assise)”, consultata dalle istituzioni comunitarie “sui grandi orientamenti dell’Unione europea”. I presidenti del Consiglio europeo (v. Consiglio europeo; Presidenza dell’Unione europea) e il Presidente della Commissione europea avrebbero dovuto riferire a essa, a ogni sua sessione, in merito allo “stato dell’Unione”. In realtà questa Conferenza non è mai stata convocata per l’opposizione della maggioranza degli Stati membri dell’Unione, anche se l’idea di una siffatta Conferenza è stata ricorrentemente proposta – da ultimo nel corso dei lavori della Convenzione europea che ha redatto il progetto di Costituzione europea. Le obiezioni nei confronti di queste Assise sono dettate dalla preoccupazione di creare una nuova istanza che non si limiterebbe a riunioni sporadiche solo in presenza di eventi eccezionali, ma che costituirebbe un inutile appesantimento del già complesso Processo decisionale e – nell’intenzione di alcuni – un tentativo di svuotare i poteri faticosamente acquisiti dal Parlamento europeo.

La tappa successiva dell’affermazione del nuovo ruolo dei parlamenti nazionali è stata raggiunta con il citato Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam. Nella I parte si prescrive la tempestiva trasmissione ai parlamenti nazionali da parte della Commissione di tutti i documenti di consultazione da questa redatti (Libri verdi, Libri bianchi, Comunicazioni varie). Si indica anche l’esigenza di mettere a disposizione dei governi “in tempo utile” le proposte legislative della Commissione affinché essi possano sottoporle ai rispettivi parlamenti. La maggiore novità consiste nella disposizione in base alla quale tra la trasmissione delle proposte legislative della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio e l’iscrizione delle stesse all’ordine del giorno del Consiglio stesso debbano trascorrere sei settimane, proprio al fine di consentire un esame eventuale esame da parte dei parlamenti nazionali.

L’ultima tappa è rappresentata dall’analogo Protocollo allegato al Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004; detto Protocollo va letto in combinato disposto con quello sull’osservanza del principio di sussidiarietà. Esso riprende in parte le disposizioni del precedente, allegato al Trattato di Amsterdam, con alcune significative innovazioni. Tra i documenti che la Commissione è tenuta a trasmettere figura anche il Programma legislativo annuale. I progetti di atti legislativi (concetto che comprende una vasta gamma di atti delle varie istituzioni) sono trasmessi direttamente ai parlamenti nazionali e non per il tramite dei governi. I parlamenti nazionali possono inviare ai presidenti del PE e del Consiglio “un parere motivato” sulla conformità di detti progetti al principio di sussidiarietà; qualora i pareri motivati rappresentino almeno un terzo dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali il progetto di atto deve essere modificato. I parlamenti nazionali possono adire la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) per la violazione del principio di sussidiarietà. Tra l’iscrizione all’ordine del giorno e l’adozione dell’atto devono trascorrere dieci giorni.

L’importanza del nuovo ruolo dei parlamenti nazionali non deve far perdere di vista che vi è un limite oltre il quale si altererebbe il naturale sviluppo dell’equilibrio istituzionale dell’Unione, che in una prospettiva veramente federalista richiede soprattutto un ulteriore rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo.

Vincenzo Guizzi (2006)

Bibliografia

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