Parti sociali
La prima occasione di partecipazione delle parti sociali (PS) alle decisioni di politica europea risale alla conferenza negoziale sul Piano Schuman, nel giugno 1950, quando i governi decidono di inserire nelle rispettive delegazioni rappresentanti degli imprenditori e dei sindacati non comunisti, allo scopo di smorzare le resistenze dei primi sul progetto di comunità carbosiderurgica e di assicurarsi l’appoggio dei secondi in un momento caratterizzato dalla fase più aspra della Guerra fredda. In tale occasione, oltre a contribuire all’elaborazione di alcune norme del trattato (v. anche Trattati), le PS ottengono anche una rappresentanza nelle strutture permanenti della Comunità, sia con l’istituzione di un Comitato consultivo composto di rappresentanti dei produttori, dei lavoratori e dei consumatori di prodotti carbosiderurgici, sia grazie alla possibilità di indicare alcuni dei membri dell’Alta autorità, l’organo di governo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).
Il clima politico più disteso degli anni successivi contribuisce invece a determinare l’esclusione delle forze sociali dal negoziato sui Trattati di Roma e dalla compagine della prima Commissione europea. Lo stesso inserimento nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea (Trattato CEE) di un organo consultivo con loro rappresentanti viene approvato solo dopo molte resistenze; ne nasce una struttura, il Comitato economico e sociale, dotata di poco potere e che almeno nei primi anni ha scarsa influenza nella vita comunitaria. L’unica altra sede nella quale, inizialmente, è prevista la partecipazione delle parti sociali è il comitato incaricato di affiancare la Commissione nell’amministrazione del Fondo sociale europeo, la cui scarsa dotazione finanziaria ne fa comunque un organismo di ben poca rilevanza.
Così le forze europee della Confederazione internazionale dei sindacati liberi (CISL) e di quella dei Sindacati cristiani (CISC), che fin dal 1958 si sono organizzate su scala comunitaria (dando vita rispettivamente al Segretariato sindacale europeo, SSE, e all’Organizzazione europea della CISC), cercano di avvicinarsi al processo decisionale attraverso contatti diretti e informali con la Commissione. Tali sollecitazioni vengono recepite dal commissario Lionello Levi Sandri, che nel 1961 promuove la creazione di gruppi di lavoro, a composizione paritaria – con membri delle due associazioni menzionate e dell’Union des industries de la Communauté européenne (v. Unione delle industrie delle Comunità europee, UNICE) – o tripartita (comprendente anche membri della Commissione), col compito di fornire alla Commissione pareri in materia di salari, orari di lavoro e Pari opportunità. Comitati consultivi analoghi, dedicati a questioni specificamente considerate nel Trattato – come la libertà di circolazione dei lavoratori (v. anche Libera circolazione delle persone) o la formazione professionale – sono istituiti negli anni successivi.
La funzione consultiva delle parti sociali finisce però per rimanere schiacciata nello scontro che negli anni Sessanta coinvolge il Consiglio dei ministri e la Commissione e che ha il suo momento culminante nel 1965-1966 con la c.d. “crisi della sedia vuota”. Fino alla fine del decennio, complice anche una crescita economica vigorosa, le questioni sociali rimangono quasi completamente escluse dall’agenda europea e le parti sociali sono relegate in una posizione marginale nel Processo decisionale.
È nel clima di agitazione sociale che investe l’Europa alla fine degli anni Sessanta che il coinvolgimento di sindacati e imprenditori comincia ad assumere maggiore importanza per gli ambienti politici europei. Così, su proposta delle organizzazioni dei lavoratori, nel 1970 viene convocata la prima Conferenza tripartita (con i ministri del Lavoro e delle Finanze dei paesi CEE, membri della Commissione e delle associazioni sindacali e imprenditoriali organizzate a livello europeo), dalla quale scaturisce la decisione di creare un Comitato per l’occupazione permanente, con la medesima composizione e lo scopo di favorire il coordinamento delle politiche nazionali per l’impiego con l’azione comunitaria.
Un ulteriore passo in avanti si ha col primo programma d’azione sociale della Comunità, alla cui realizzazione, avviata nel 1974, le parti sociali sono strettamente associate. Intanto, proprio in quegli anni, il mondo sindacale europeo cambia completamente la propria struttura organizzativa, con la nascita, nel 1973, della Confederazione europea dei sindacati (CES) dalle forze inizialmente radunate nel SSE e la confluenza in essa, l’anno successivo, della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e delle forze europee dell’Internazionale cristiana. Si cerca così di creare un fronte compatto, anche nella speranza di una istituzionalizzazione delle conferenze tripartite, obiettivo a lungo perseguito dai sindacati europei, che viene abbandonato alla fine degli anni Settanta dopo il fallimento di quattro conferenze consecutive.
Nuove prospettive per le forze sociali si aprono comunque a metà del decennio successivo quando, su iniziativa del governo socialista francese e della Commissione Delors (v. Delors, Jacques), nasce ufficialmente il Dialogo sociale europeo, al quale il protocollo “a undici” annesso al Trattato di Maastricht conferisce in seguito le caratteristiche di un vero e proprio rapporto negoziale fra l’UNICE, la CES e il Centro europeo delle imprese pubbliche (CEEP), prevedendo la possibilità di varare, a partire dai suoi risultati, accordi quadro su scala europea.
È vero che, nonostante l’elaborazione di un numero di pareri (v. Parere) relativamente elevato, tale pratica non si rivela particolarmente feconda, soprattutto a confronto con i grandi passi avanti che a partire da quel momento compie il processo di integrazione economica. In ogni caso, e al di là della necessità di superare alcuni limiti obiettivi (legati, ad esempio, al reale livello di rappresentatività delle organizzazioni europee, in particolare dell’UNICE), il Dialogo sociale è ancora oggi considerato negli ambienti comunitari un elemento strategico, grazie al quale i processi di modernizzazione necessari allo sviluppo della competitività possono essere conciliati con un adeguato livello di sicurezza sociale.
Lorenzo Mechi (2007)