Partiti politici europei
I partiti politici, secondo quanto espresso nell’art. 191 del Trattato istitutivo delle Comunità europee (CE) (v. Trattati di Roma), «sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione [europea] e contribuiscono a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione». Con ciò si esprime l’idea che solo attraverso partiti politici effettivamente ed efficacemente operanti al suo interno l’ancora embrionale sistema politico europeo possa superare il suo riconosciuto Deficit democratico. Questo dovrebbe avvenire sicuramente a seguito di riforme capaci di dare al Parlamento europeo (PE) maggiori poteri, soprattutto nel controllo dell’esecutivo. Ciò avrebbe infatti anche la conseguenza di favorire la strutturazione di quelle dinamiche tra maggioranze di governo e minoranze di opposizione che consentirebbero anche ai partiti politici europei, o europartiti, come è preferibile chiamarli per brevità e chiarezza, di assumere in maniera molto più concreta di quanto già non avvenga quelle funzioni di rappresentanza che sono loro richieste.
Gli europartiti sono presenti al livello dell’Unione europea attraverso tre tipi di strutture: i Gruppi politici al Parlamento europeo, le federazioni transnazionali e i partiti nazionali. Le due componenti più chiaramente europee hanno tratto impulso o origine dalle elezioni a suffragio universale del PE (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), avvenute per la prima volta nel 1979. I gruppi parlamentari, formatisi per la prima volta nel 1952 nell’assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), progenitrice del PE, e composti fino al 1979 da rappresentanti dei Parlamenti nazionali da questi selezionati, comprendono gli eletti di vari paesi che appartengono alle stesse famiglie partitiche oppure a partiti nazionali ideologicamente compatibili gli uni con gli altri. Le federazioni transnazionali sono state invece create in previsione delle prime elezioni del PE oppure in seguito a queste. Esse sono costituite da partiti nazionali che, riconoscendo, anche in questo caso, di possedere orientamenti ideologici e valoriali comuni o almeno affini, hanno deciso di dotarsi di strutture organizzative comuni per coordinare le proprie posizioni e azioni a livello europeo fino a giungere ad elaborarne di comuni. In ambedue i casi il motivo delle creazione di tali strutture è dato dalla volontà dei partiti europei di munirsi, oltre che di strumenti esterni al PE di coordinamento e di elaborazione politica, anche, e forse soprattutto, di mezzi di collegamento con la multiforme società civile europea (v. anche Società civile organizzata).
Tra le federazioni transazionali della prima ora si annoverano le organizzazioni delle famiglie partitiche più importanti e consolidate, come il Partito popolare europeo (PPE), il Partito socialista europeo (PSE), il Partito europeo dei liberali, democratici e riformatori (ELDR) (v. Liberaldemocratici europei), la cui identità ideologica è facilmente identificabile dalle rispettive denominazioni; a queste, in una fase successiva, si è aggiunto il Partito verde europeo (PVE) che riunisce i principali partiti ambientalisti. A partire dal 2004, soprattutto in risposta agli incentivi dati dallo Statuto dei partiti politici europei, si sono formati: il Partito della sinistra europea (SE), comprendente soprattutto partiti ex comunisti o di ispirazione postcomunista; Alleanza per l’Europa delle nazioni (AEN), formato da partiti di ispirazione nazional-popolare, come l’italiano Alleanza nazionale; l’Alleanza libera europea-Partito democratico dei popoli d’Europa (ALE-PDPE) costituito da gruppi regionalisti-ambientalisti-libertari; infine il Partito democratico europeo (PDE); quest’ultimo nato dalla scissione dal PPE, guidata dai francesi dell’Union pour la democratie française (UDF) e dagli italiani della Margherita. L’entrata in vigore dello statuto dei partiti politici europei ha ufficialmente ristretto l’uso di tale denominazione alle federazioni, termine quest’ultimo che dovrebbe quindi decadere. Data la persistente complessità strutturale degli europartiti, preferiamo mantenere in questa sede la sopra ricordata tripartizione. In molti casi non c’è una corrispondenza univoca tra partiti europei (federazioni) e gruppi parlamentari. Essa infatti esiste soltanto per PSE e AEN, i cui partiti membri fanno tutti parte di gruppi parlamentari omologhi, rispettivamente denominati PSE e UEN (Unione per l’Europa delle nazioni). I rappresentanti del PPE siedono a Strasburgo assieme a quelli dei Democratici europei, non un partito quest’ultimo, ma un non meglio definito “raggruppamento”, costituito essenzialmente dai conservatori britannici e dal Partito civico democratico della Repubblica Ceca. Il gruppo così formato si chiama PPE-DE. I parlamentari del PDE e quelli dell’ELDR si sono invece uniti nel gruppo dell’Alleanza dei democratici e liberali per l’Europa (ALDE). I due partiti di ispirazione ecologico-ambientalista, PVE e PDPE-ALE, formano nel PE un gruppo unico con il nome di Verdi-ALE. Un ulteriore raggruppamento formato da partiti ecologisti di ispirazione più radicale, quello della Sinistra verde nordica (SVN) costituisce con la SE il gruppo parlamentare Sinistra unitaria europa/Sinistra verde nordica (SUE/SVN) (v. Gruppo della sinistra europea e della sinistra verde nordica). Infine, il gruppo Indipendenza/Democrazia (IND/DEM) non trova riferimento in alcuna organizzazione partitica europea esterna al PE e comprende deputati di partiti euroscettici o nazionalisti (v. anche Euroscetticismo). Completano il quadro 32 parlamentari non iscritti ad alcun gruppo.
Oltre ai due tipi di strutture prettamente sovranazionali, anche i partiti nazionali sono rilevanti a livello europeo in quanto sono attivi direttamente ed efficacemente nella politica dell’UE, ma soprattutto in quanto forniscono ancora l’unico collegamento effettivo tra il sistema politico europeo e la società civile. Quanto espresso nel ricordato art. 191 del Trattato suggerisce che gli europartiti dovrebbero sviluppare funzioni di educazione politica e di collegamento tra i cittadini e le Istituzioni comunitarie. Si può dire che finora siano stati proprio i partiti nazionali a mantenere il monopolio di queste funzioni di fatto impedendo lo sviluppo, in senso vero e proprio, degli europartiti stessi.
Ciò è probabilmente dovuto al fatto che la rilevanza del PE e delle elezioni europee è ancora molto bassa. Non si è quindi sentita, finora, la necessità di potenziare quelle strutture – le federazioni transnazionali – che dovrebbero costituire un collegamento diretto tra il PE e la società civile europea. Esse sono indubbiamente delle istituzioni molto deboli dal punto di vista della visibilità, del radicamento territoriale, della professionalizzazione e della forza finanziaria. Questo vale anche per le due federazioni maggiori, PPE e PSE, in parte a causa della loro crescente disomogeneità interna. Questa minore compattezza, dovuta sia all’aumento del numero delle delegazioni nazionali che le compongono, provocato dai successivi ampliamenti dell’UE, sia alla disponibilità ad accogliere partiti provenienti da tradizioni diverse, vale soprattutto per il PPE, dove all’originario nucleo democristiano si è prepotentemente affiancata la componente conservatrice. L’ELDR, a sua volta, ha sempre avuto problemi di coesione come conseguenza di orientamenti ideologici assai variegati e di una generalizzata debolezza delle sue componenti nazionali. Per il PVE invece, il diffuso atteggiamento antiburocratico e la chiara preferenza di molte delle delegazioni nazionali verso sistemi decisionali decentrati e vicini alla base si sono finora tradotti in una evidente riluttanza a creare un’organizzazione partitica compiutamente transnazionale.
Più in generale, però, la difficoltosa evoluzione delle federazioni transnazionali si spiega con la mancanza di una “domanda di Europa” da parte della base. Consapevoli di ciò, i partiti nazionali, che sono le componenti di base delle federazioni, ritengono più utile rappresentare i loro elettorati direttamente attraverso i propri esponenti (i ministri) anche a livello europeo e non si impegnano quindi per rafforzarle. Tale atteggiamento, costituisce al momento il maggiore ostacolo allo sviluppo di europartiti capaci di svolgere efficacemente la funzione di rappresentanza a livello europeo.
Più positivo appare lo sviluppo istituzionale dei gruppi parlamentari, come dimostrato soprattutto dalla loro inclusività, attributo osservabile attraverso il trend della consistenza numerica dei gruppi e quello del numero di paesi rappresentati nei gruppi principali del PE. Nel corso degli oltre 20 anni dalle prime elezioni a suffragio universale del PE, il sistema europartitico così inteso ha subito molti cambiamenti importanti. Soltanto tre dei suoi componenti originali, i socialisti (PSE), i popolari (adesso PPE-DE), e i liberali (ALDE) sopravvivono. Tuttavia, anche questi gruppi sono stati soggetti a cambiamenti importanti, prodotti dagli ampliamenti della CE/UE oppure da riallineamenti tra gruppi.
In generale l’evoluzione dei gruppi indica chiaramente la loro capacità di assorbire le delegazioni partitiche nazionali di nuovi e vecchi Stati membri anche se queste sono più che triplicate (da una cinquantina a circa 180) tra il 1979 e il 2004. Tale capacità è particolarmente rilevante per i tre gruppi principali che insieme comprendono il 75% dei parlamentari europei. Inoltre il PPE-DE (forte di circa il 38% dei seggi nel 2004) attrae parlamentari provenienti da tutti e 25 gli Stati membri dell’UE, ma anche il PSE (27%) estende la sua presenza a 23 paesi. Mentre i liberali dello ALDE (9%), pur penalizzati in alcuni paesi da soglie elettorali per loro difficili da superare, sono presenti in ben 20 stati su 25. Anche i Verdi-ALE e la SUE/SVN (ambedue sul 5,5%) rivelano livelli di inclusività già abbastanza confortanti, comprendendo delegazioni partitiche provenienti in ambedue i casi da più della metà degli Stati membri.
Questo potenziale dei gruppi parlamentari, assai notevole, come abbiamo visto, è rimasto in larga misura inespresso a causa della debolezza del loro rapporto con la società civile. Ciò ha avuto effetti negativi sullo sviluppo di veri e propri europartiti sull’efficacia del Parlamento e infine sulla democraticità del sistema dell’UE, e minaccia di rimanere un ostacolo di difficile superamento malgrado l’entrata in vigore dello statuto dei partiti politici europei. Lo statuto è un documento molto sintetico che si limita a definire il ruolo dei partiti europei e i requisiti che questi debbono possedere per poter accedere al finanziamento da parte dell’UE. Il complesso delle disposizioni dello statuto sembra capace di saldare in maniera più efficace di quanto sia avvenuto fino a ora le varie componenti partitiche che operano a livello europeo: gruppi parlamentari, federazioni, partiti nazionali.
Infatti, anche se, come visto, in pratica lo statuto identifica gli europartiti con le federazioni, attraverso le norme per la loro costituzione e per l’accesso al finanziamento, esso determina anche il legame con le altre due componenti. Nel preambolo viene ribadito quanto già espresso nell’art. 191 del Trattato CE e ricordato in precedenza sull’importanza degli europartiti per la formazione di una coscienza europea e per l’espressione della volontà politica dei cittadini dell’Unione. Le condizioni per il riconoscimento degli europartiti, oltre all’intenzione di partecipare alle elezioni del PE, sono: il possesso di personalità giuridica nel paese nel quale ha sede il partito europeo (quasi inevitabilmente il Belgio); avere in almeno un quarto degli Stati membri rappresentanti eletti nel PE, nei parlamenti nazionali o regionali, oppure aver riportato, sempre in almeno un quarto degli Stati membri, almeno il 3% dei voti espressi alle ultime elezioni del PE; rispettare nella propria azione e nel proprio programma i principi di libertà, democrazia, di rispetto dei Diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto sui quali è fondata l’UE. Come si vede, non si tratta di condizioni particolarmente restrittive e si può immaginare che, anche se lo statuto proibisce il finanziamento di partiti nazionali attraverso i fondi europei, pochi di questi rinunceranno alle opportunità finanziarie fornite dal nuovo regime. Questo infatti ha già portato ad un raddoppio del numero degli europartiti. La saldatura con i gruppi parlamentari risiede nell’elevatissima porzione di risorse finanziarie – l’85% del finanziamento totale – che andrà a partiti che abbiano rappresentanti eletti nel PE. Anche se è possibile che partiti poco rappresentati a livello europeo e quindi, in prospettiva, privi di gruppo parlamentare si formino per partecipare alla spartizione del rimanente 15%, i nuovi europartiti si stanno effettivamente strutturando su un rapporto articolato tra i partiti nazionali che concorrono a formarli, le loro organizzazioni federative, e i gruppi nel PE. Analogamente, quelli già esistenti dovrebbero uniformarsi a questo modello e attraverso un rafforzamento del rapporto tra federazioni e gruppi porre fine o almeno ridurre la dipendenza delle prime dai secondi. Una migliore integrazione tra le loro varie componenti dovrebbe portare i partiti a una maggiore istituzionalizzazione.
Questo quadro indubbiamente positivo è controbilanciato da due norme, una direttamente contenuta nello statuto, l’altra nel suo regolamento attuativo, che mantengono le federazioni in una posizione di subordinazione nei confronti delle loro componenti nazionali e dei gruppi parlamentari. Questi ultimi infatti diventano i supervisori diretti della gestione dei fondi per il finanziamento dei partiti in quanto, su insistenza del Parlamento, questi sono stati inseriti nel bilancio del PE e non in quello generale dell’UE (v. anche Bilancio dell’Unione europea), come avrebbero preferito le federazioni. Questa seconda soluzione avrebbe dato a esse una maggiore autonomia finanziaria. I partiti nazionali, soprattutto quelli più forti e dotati di risorse, sono resi determinanti per la costituzione e per il mantenimento dei partiti europei dalla norma dello statuto che condiziona l’erogazione dei fondi pubblici a un cofinanziamento da altre fonti in una misura pari al 25% del totale. Tali risorse possono essere reperite solamente a livello nazionale, sia direttamente attraverso i contributi dei partiti membri – fino a un limite del 40% delle entrate totali, comunque superiore all’ammontare necessario per il cofinanziamento – sia attraverso i contatti dei quali i partiti stessi dispongono nella società e nell’economia. È quindi improbabile che anche in futuro negli europartiti, per quanto più integrati, saranno le federazioni ad avere una posizione di primato.
Luciano Bardi (2008)