Pella, Giuseppe
P. diviene presidente del Consiglio nell’agosto 1953, allorché succede all’ultimo governo di Alcide De Gasperi. Nell’estate del 1953 De Gasperi era stato in grande difficoltà e aveva puntato su una riforma elettorale maggioritaria che, con il rafforzamento dell’esecutivo, gli avrebbe consentito il perseguimento della politica centrista con margini parlamentari sufficientemente ampi. P. era nato a Valdengo (Biella) il 18 aprile 1902, era stato imprenditore, aveva esperienza di problemi economici, aveva retto vari ministeri (Finanze, Tesoro e Bilancio), nei governi presieduti da De Gasperi. Protagonista della politica economica, sviluppa la linea inaugurata da Luigi Einaudi di risanamento del bilancio e di lotta all’inflazione, ma con prevalenti finalità di ordine sociale. In quegli anni egli non mostra una particolare sensibilità europea, come rivelano ad esempio le sue eccessive preoccupazioni per le possibili ricadute negative sul bilancio statale delle prime Comunità europee. Per stile politico e tradizione regionale aveva verso il proprio partito l’atteggiamento di un notabile giolittiano. Allorché diviene presidente del Consiglio, la Democrazia cristiana è ancora disorientata dai cattivi risultati elettorali del giugno che hanno impedito la conquista del premio di maggioranza. P. costituisce un ministero monocolore, ma invita a farne parte alcuni tecnici.
La crisi dell’estate 1953 appare subito molto grave e in essa un posto non secondario è occupato dalla ratifica del Trattato sulla Comunità europea di difesa (CED). Questa coincide, peraltro, con l’acutizzarsi del problema di Trieste, da anni tra le priorità della politica estera italiana, anche nel quadro della revisione del Trattato di pace. È in gioco anche la riforma dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e l’Italia coglie l’occasione per chiedere, di fatto, la revisione di alcune clausole del Trattato. La linea di demarcazione proposta dal governo italiano, orientata su quella di Woodrow Wilson del 1919, viene bene accolta, ma i confini prescelti non tengono conto del solo criterio etnico e si piegano anche a considerazioni di carattere politico.
Lo status del Territorio libero, Trieste e l’area circostante, era stato definito soltanto in via provvisoria alla fine delle ostilità, e alla vigilia delle elezioni del ’48 le tre potenze vincitrici occidentali avevano dichiarato la loro disponibilità perché diventasse territorio italiano a tutti gli effetti. Ma il governo iugoslavo, presieduto da Tito, si oppose risolutamente, sostenendo la tesi di Trieste città libera e internazionalizzata, arrivando a minacciare l’uso della forza.
P. è al governo da quindici giorni quando una agenzia iugoslava annuncia l’annessione della Zona B da parte di Tito. P. si sente incoraggiato a mostrarsi determinato da una sottile propaganda che tende a contrapporre De Gasperi, incline al compromesso, al nuovo presidente, del quale si sottolineano l’età, la fermezza e il senso della dignità nazionale, senza indulgenze verso un internazionalismo che rischia di far dimenticare le ragioni della patria (G. Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Rizzoli, Milano 1986, p. 264-275).
P. non è ben visto dai quadri direttivi democristiani, che lo hanno accettato solo per un ordine impartito da De Gasperi. Al momento di lasciare De Gasperi, che intende dedicarsi alla campagna europeista, aveva raccomandato a P., alla riapertura delle Camere, di porre all’ordine del giorno il Trattato CED. È turbato, alla ripresa dei lavori parlamentari, dal silenzio di P. sull’argomento. Un voto favorevole dell’Italia, secondo De Gasperi, può essere l’ancora di salvataggio di un trattato pericolante e può essere colto come un segnale di continuità della politica estera, quanto mai opportuno sotto tutti i profili. La figlia di De Gasperi, Romana, ricorda nei mesi e nei giorni che precedettero il fallimento della CED le frequenti telefonate del padre ai leader della Democrazia cristiana: «le lacrime scendevano senza vergogna sul volto ormai vecchio, mentre gridava al telefono al presidente del Consiglio: meglio morire che non fare la CED». (M.R. De Gasperi, De Gasperi, Mondadori, Milano 2004, p. 322) Secondo De Gasperi l’Italia ha un interesse persino superiore a quello della Germania per un esercito europeo perché, quale che sia la forma finale di quest’ultimo, quello che rimarrà sarà comunque il riarmo tedesco. Ed è ciò che importa di più a Bonn, sia per i suoi rapporti con l’America che per la riunificazione del paese.
La questione è complicata dalla circostanza che dopo la rottura fra Belgrado e Mosca gli occidentali, e gli americani in particolare, sono fortemente interessati ad accentuare tale spaccatura, simpatizzando con Tito e arrivando a sostenere militarmente la stessa Jugoslavia in funzione antisovietica. Così nel luglio, alla vigilia dell’insediamento del governo P., il Pentagono aveva invitato a Washington una delegazione di ufficiali jugoslavi, dandone pubblica comunicazione. Gli italiani sono sconcertati per un tale atteggiamento che dal punto di vista strategico arriva quasi a considerare la Iugoslavia un membro della NATO. D’altra parte al governo di Roma sembra legittimo disporre di una forza nazionale in grado di reagire in una situazione nella quale non può contare sul sostegno della NATO e di un esercito europeo integrato. Da questo punto di vista è comprensibile che la ratifica della CED possa essere momentaneamente sospesa senza essere messa in discussione in linea di principio. Da parte italiana si parla di oggettiva interdipendenza e non di strumentalizzazione. Nell’ottobre 1953 il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani incontra il segretario di Stato tedesco Walter Hallstein, al quale assicura che l’Italia non intende affatto condizionare l’approvazione del Trattato CED alla soluzione di Trieste. A Bonn sembra infatti che P. non segua linearmente come De Gasperi la politica dell’unità europea. Da destra i partiti spingono inoltre al ricatto e riaffiora il sospetto della scarsa affidabilità italiana, come informa da Roma l’ambasciatore tedesco Heinrich von Brentano.
In Campidoglio, il 13 settembre 1953, P. propone un plebiscito nelle due zone del Territorio libero. È il momento in cui gli americani premono maggiormente per la creazione della CED, vale a dire la congiuntura più adatta, secondo P., per recuperare il peso determinante che il paese aveva visto ridimensionato dal dissidio tra Tito e Stalin; dissidio che forse Tito non avrebbe osato spingere fino in fondo se la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 non lo avesse, in qualche modo, rassicurato alle spalle. L’Italia, dichiara P., avrebbe ratificato il Trattato della CED se gli alleati gli avessero restituito le due zone del Territorio libero; questa posizione viene aspramente criticata da Altiero Spinelli, che nel suo Diario annota che l’Italia è ormai diventata il fanalino di coda nel processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). (A. Spinelli, Diario europeo 1948-1969, il Mulino, Bologna 1989, p. 188). L’8 ottobre gli inglesi e gli americani annunciano che sono pronti a ritirarsi dalla zona A per cederne l’amministrazione al governo italiano. Londra e Washington confermano l’offerta fatta congiuntamente nel 1948, ma il 12 ottobre Tito fa sapere che l’ingresso delle truppe italiane a Trieste sarebbe considerato un atto di aggressione. Vi sono manifestazioni sia a Trieste che a Belgrado nel corso delle quali a Trieste muoiono sei persone. Ma gli alleati vietano a P. di partecipare ai funerali delle vittime. Nel clima di indignazione nazionale, il governo decide di schierare al confine di Gorizia due divisioni e, consigliato dallo Stato maggiore, ordina la mobilitazione parziale. Gli Alleati non possono però concedere a P. più di quanto non avessero concesso a De Gasperi: dinanzi alle proteste di Tito, fanno marcia indietro e tutto resta come prima. Nella Democrazia cristiana Mario Scelba organizza un movimento contrario al presidente del Consiglio, che finisce per portarlo nel gennaio del ’54 a Palazzo Chigi. Ma nemmeno Scelba riesce a far ratificare il Trattato (v. anche Trattati), che comunque cade definitivamente nell’agosto 1954 nel Parlamento francese.
La CED è il primo grande tentativo di superare la gradualità e la settorialità dell’integrazione per pervenire all’unione politica. La difesa comune avrebbe portato alla federazione nelle difficili condizioni imposte dalla Guerra fredda (v. anche Federalismo). Ma la Francia è ancora agli inizi del processo di decolonizzazione, mentre la Germania è nel pieno di una prorompente ripresa; la Francia non vuole privarsi della autonomia militare nel momento in cui le colonie più lontane sono in rivolta e quelle più vicine non sono più sicure; non ha ancora portato a compimento la conversione resa necessaria dagli esiti della Seconda guerra mondiale ed attraversa una crisi identitaria; intende chiudere il dramma indocinese ed è questa la priorità in base alla quale gestisce l’ultima fase della vicenda CED. Parigi non vuole identificarsi con i vinti, Germania e Italia, e rivendica uno statuto paritario con il Regno Unito, che non ha nessuna intenzione di far confluire il proprio esercito in quello europeo.
L’indiretta responsabilità di P. nel fallimento della CED non gli impedisce tuttavia di andare a ricoprire la carica di presidente dell’Assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) tra il novembre 1954 e il dicembre 1955 in sostituzione del dimissionario Jean Monnet, così come di sostenere pubblicamente i Trattati di Roma sin dal momento della loro elaborazione.
P. torna come protagonista della scena politica dapprima in qualità di vicepresidente del Consiglio nella breve esperienza del governo guidato da Adone Zoli (maggio 1957-luglio 1958), quindi come titolare degli Esteri nel governo di Antonio Segni (febbraio 1959-marzo 1960). In quegli anni l’Italia si offre come partner nuovo dei paesi mediterranei, anche perché, privata dai Trattati di pace delle colonie, è in grado di ispirare maggior fiducia nel mondo emergente rispetto alle tradizionali potenze europee. Enrico Mattei si pone in concorrenza con le grandi società petrolifere per creare un rapporto di collaborazione con i paesi produttori. Il contratto che egli firma a Teheran nel settembre 1957, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi e di P., riconosce agli iraniani il settantacinque per cento dei benefici.
Il ritorno di P. agli Esteri coincide con il tentativo, mancato, di un’arma nucleare europea intorno ai tre maggiori paesi della Comunità: Francia, Italia e Germania. Il negoziato va avanti, sfociando in una serie di incontri riservati tra i ministri della Difesa, durante i quali si arriva a stendere un protocollo degli armamenti, compresa l’applicazione militare dell’energia nucleare.
Il processo entra in una fase decisiva con un colloquio segreto tra il cancelliere Konrad Adenauer e il sottosegretario agli Esteri francese Edgar Faure, svoltosi a Rhöndorf il 16 novembre 1957. Dietro l’iniziativa c’è la spinta di uno degli ultimi governi francesi della quarta repubblica, quello presieduto da Félix Barbezieux Gaillard, peraltro sempre più debole per la crisi in Algeria e sempre più ostaggio della destra. L’iniziativa italo-franco-tedesca nasce anche dal risentimento di Parigi nei confronti degli Stati Uniti, che durante la crisi dell’ottobre ’56 hanno fermato la Legione straniera sulla via del Canale di Suez, ma anche verso i britannici, che hanno troppo presto rinunciato all’impresa. L’idea è quella di sviluppare un terzo polo nucleare, continentale ed europeo, accanto a quelli costituiti da Stati Uniti e Gran Bretagna. Anche per Adenauer è quella una fase di dubbi sulla volontà degli americani di sostenere i tedeschi sino in fondo nel confronto con i sovietici, resi più assertivi dalla superiorità nello spazio, conseguente al lancio dello Sputnik e dei primi missili intercontinentali. L’accordo a tre è firmato a Roma nell’aprile del ’58. Si prevede una spesa di 140 milioni di dollari e una ripartizione percentuale che per l’Italia è solo del dieci per cento. Non è chiaro se solo la Francia avrebbe realizzato le armi nucleari, mentre Italia e Germania avrebbero soltanto avuto una posizione subordinata.
Il progetto, arrivato alle soglie della operatività, di colpo entra in crisi. Innanzitutto perché in anticipo rispetto alla gracile coesione dell’Europa di allora. Il ministro della Difesa italiano Taviani, uno dei protagonisti di quel negoziato, osserva che il punto debole dell’iniziativa sta nel fatto che essa approfondisce aspetti sia tecnici che economici senza aver chiarito quale sia la struttura politica portante. Gli stessi paesi partecipi si muovono secondo logiche diverse. L’idea, in bilico tra i vincoli di solidarietà atlantica e i propositi di emancipazione del vecchio continente, non si realizza. E comunque il ritorno di Charles de Gaulle al potere, nel maggio del ’58, segna la sua rinuncia a una soluzione multilaterale in favore di una forza esclusivamente nazionale. (v. Cacace, L’atomica europea, Fazi, Roma 2004) L’intero processo ha coinciso con il ritorno di P. sulla scena politica interna e internazionale: sullo sfondo di questo tentativo, maturano i fattori che modificano gli equilibri strategici e che condurranno all’abbandono della dottrina della risposta massiccia in favore di quella della risposta flessibile.
Il 1° gennaio 1958 entrano in vigore sia la Comunità economica europea (CEE) che la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA). Le prime misure di apertura del mercato sono del gennaio 1959, ma le nuove istituzioni iniziano a lavorare nell’indifferenza quasi generale. Viene costruito l’embrione della prima burocrazia integrata che sarà chiamata a svolgere un’attività sempre più complessa nel corso degli anni. L’avvento di de Gaulle, che è contrario in linea di principio alla forma comunitaria dell’integrazione europea, non comporta un’uscita della Francia dalla CEE. La visione di de Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali prefigura il crollo dell’impero sovietico e il ritorno ad una Russia liberalizzata in seno alla famiglia europea. Il piano ipotizza una forte confederazione costruita intorno al nucleo franco-tedesco, allo scopo di controbilanciare l’area dell’Est. L’idea italiana, della quale si fa interprete P., è quella di un’Europa sufficientemente vitale e compatta, capace di assorbire le energie tedesche e di controbilanciare la Russia con l’aiuto americano. Per realizzare questo piano occorre resuscitare la potenza della Germania e incanalarla in strutture federali continentali. La strategia americana, a sua volta influenzata dalle pressioni europee e sovietiche, assume una fisionomia durevole sotto forma di compromesso tra l’impulso a controllare l’Europa e quello di restituirle l’autosufficienza.
L’ultima esperienza di P. agli Esteri coincide con alcune delle crisi internazionali più gravi della fine del decennio: non solo il ritorno di de Gaulle, ma anche l’intervento americano nel Libano, la fine della monarchia hascemita in Iraq, l’ultimatum con il quale Chruščёv minaccia di firmare un trattato di pace separato con la Repubblica Democratica Tedesca e di mettere fine in tal modo alla responsabilità quadripartita su Berlino. Nel settembre ’59 Chruščёv visita gli Stati Uniti. Ad Harold Macmillan, dopo il fallimento della spedizione di Suez, preme conferire nuovamente un ruolo internazionale alla politica inglese. Nel febbraio ’59 visita l’Unione Sovietica e a marzo incontra de Gaulle, Adenauer e Dwight Eisenhower. Chruščёv è invitato dalle tre maggiori potenze occidentali ad una Conferenza a Parigi all’inizio del ’60.
L’Italia rischia di essere tagliata fuori, soprattutto ora che la Germania sta rioccupando pienamente il posto tra i grandi. Incalzati dal presidente Giovanni Gronchi, il primo ministro Antonio Segni e il suo ministro degli Esteri si mettono in viaggio attraverso le capitali europee per reclamare il diritto dell’Italia alla concertazione. Delicato e complesso è il rapporto con l’Unione Sovietica, la cui economia appare per alcuni aspetti complementare a quella italiana. Le piccole e medie industrie italiane sono particolarmente attrezzate per insinuarsi negli spazi che si aprono di tanto in tanto nella facciata monolitica dell’economia sovietica, mentre le industrie del settore pubblico trovano interlocutori ideali nei grandi gruppi dell’altro paese. Per un capitalismo, come quello italiano, che ha bisogno di essere aiutato dal proprio Stato, il rapporto con l’URSS presenta alcuni vantaggi quali crediti agevolati e garantiti, contratti di lungo respiro, opere di grandi dimensioni. I contratti che Enrico Mattei stipula a Mosca per la fornitura di petrolio sovietico allargano gli spazi dell’economia italiana. Inoltre, sul piano della politica interna, per avere migliori rapporti con il Partito comunista italiano possono essere utili una politica estera e un clima internazionale che permettano di dialogare con l’URSS.
Ma in quegli stessi anni mutano i fattori alla base degli equilibri strategici. Nel 1957 è uscito il libro di Henry Alfred Kissinger Nuclear Weapons and Foreign Policy, che raccomanda il ricorso alle armi nucleari tattiche come un deterrente addizionale a fronte della crescita delle forze strategiche sovietiche. Dal ’57 al ’61 si diffonde invece l’idea di un ritardo occidentale in campo missilistico (missile gap) che, a partire dal lancio dello Sputnik, il 5 ottobre 1957, offrirebbe all’URSS un vantaggio incolmabile. Gli Stati Uniti sono riluttanti a basare il proprio deterrente per l’Europa esclusivamente sulle forze strategiche di stanza in Europa oppure sui mari. La risposta flessibile che comincia a essere elaborata dalla NATO prevede una vasta gamma di armi nucleari da campo o legate a basi regionali studiate per porre fine a un confronto nucleare molto prima di arrivare alla fase dello scambio intercontinentale. In questo contesto l’Italia negozia l’installazione, sul proprio territorio, di missili intermedi Jupiter e Thor. La Repubblica Federale Tedesca rifiuta di ospitarli, poiché essa si definisce la “trincea più avanzata”. I francesi sarebbero disponibili solo se ottenessero il totale controllo sulle nuove armi, che Washington non concede. Sono così soltanto l’Italia e la Turchia a schierare sul continente europeo i sistemi a raggio intermedio. La scelta italiana provoca l’ira di Chruščёv, il quale in un viaggio in Albania minaccia rappresaglie. L’Italia è il paese che, per la struttura politica interna e la presenza del più grande partito comunista occidentale, appare più vulnerabile.
P. accompagna Gronchi a Mosca in un viaggio che, dal 5 all’11 febbraio 1960, ha momenti di grande imbarazzo. Chruščёv li investe con insulti e provocazioni anche in pubblico, contro ogni regola diplomatica. L’episodio contribuisce a smentire l’illusione di una possibile funzione mediatrice dell’Italia nei rapporti Est-Ovest, funzione alla quale il presidente Gronchi crede in modo particolare. (S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Rizzoli, Milano 1993, p. 72-73)
P. ricopre il suo ultimo incarico ministeriale nel 1972, nel primo governo di Giulio Andreotti. In quel periodo egli tra l’altro sostiene il progetto federalista per l’elezione diretta dei delegati italiani al Parlamento europeo. Muore a Roma il 31 maggio 1981.
Silvio Fagiolo (2010)