Il Memorandum sulla riforma dell’agricoltura, meglio noto come “Piano Mansholt” dal nome di colui che ne era stato l’ispiratore e il principale responsabile politico (Sicco Mansholt, vicepresidente e responsabile dell’agricoltura e successivamente presidente della Commissione europea dal 1958 al 1972), rappresenta il primo e forse più importante tentativo di riforma della Politica agricola comune (PAC). Presentato dalla Commissione europea nel dicembre 1968, il Memorandum mirava a promuovere nella Comunità economica europea un’agricoltura che fosse capace di assicurare ai suoi addetti condizioni di vita e di reddito comparabili rispetto ai lavoratori degli altri settori e che, parallelamente nello stesso tempo, non diventasse insostenibile per il bilancio comunitario (v. Biilancio dell’Unione europea). E spiegava con dovizia di dati e ricchezza di argomentazioni come l’edificio appena completato della «politica dei prezzi e di regolamentazione dei mercati» conducesse, invece, in una direzione opposta.
In effetti, secondo il Memorandum, per la maggioranza delle famiglie contadine il ritardo rispetto al resto della società tendeva sempre di più ad aggravarsi ed era illusorio pensare che questa politica, così come si era venuta configurando, potesse servire a contrastare un processo del genere. Al contrario, i prezzi elevati e garantiti che ne erano alla base contribuivano ad approfondire il solco a tutto vantaggio di una piccola minoranza di aziende già moderne e, per di più, provocavano, specie per i cereali, gli allevamenti bovini da latte e lo zucchero, eccedenze produttive il cui smaltimento avrebbe presto costituito un onere insopportabile per la collettività. A questo riguardo il Memorandum presentava alcune cifre assai eloquenti: nel 1960, cioè prima del varo della PAC, i sei Stati membri fondatori della Comunità – Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda (v. Paesi Bassi) e Lussemburgo – avevano speso per il sostegno dei prezzi agricoli 500 milioni di ECU (European currency unit) (v. Unità di conto europea); nel 1969 le spese in questione, a carico del bilancio della Comunità economica europea (CEE), si avviavano a superare i 2,5 miliardi di ECU. E concludeva: «Se non vengono prese le misure necessarie il costo degli interventi sui mercati raggiungerà eccessi tali da rischiare di travolgere l’insieme dei meccanismi in vigore».
Il Piano Mansholt presentava allora un complesso programma, “Agricoltura 1980”, articolato lungo tre linee che esso considerava come strettamente complementari. Innanzitutto, si sosteneva che era necessario e urgente riformare il sistema dei prezzi messo in opera nei sei anni precedenti e che pure aveva consentito di liberalizzare gli scambi agricoli fra i Sei. In particolare, Sicco Mansholt spiegava che occorreva stabilire una nuova gerarchia fra i prezzi dei diversi prodotti agricoli, che sapesse tenere conto, ad un tempo, dei costi di produzione e della prevedibile evoluzione della domanda. Solo in questo modo il funzionamento dei mercati agricoli sarebbe ridiventato normale, si sarebbe impedita la formazione di eccedenze e posto fine allo spreco crescente di risorse finanziarie. La seconda linea di azione concerneva più propriamente la riforma delle aziende agricole. Qui le idee e le misure prospettate avevano una carica particolarmente innovativa. Il Memorandum, infatti, mirava a un’agricoltura non più assistita, ma basata su aziende sufficientemente grandi e dinamiche, capaci adattarsi nel tempo e di assicurare livelli di reddito e condizioni di lavoro adeguati a una società avanzata come quella europea. La risposta a questa sfida sarebbe venuta dalla costituzione di «unità di produzione» e di «imprese agricole moderne», da promuovere preferibilmente su base associativa. Le prime sarebbero state il risultato della messa in comune di parti di aziende da destinare ad una specifica produzione (vigneti, allevamenti da latte o da carne, ecc.), le seconde sarebbero invece derivate dalla fusione totale di più aziende. La terza linea di azione, infine, insisteva sul fatto che era necessario accrescere l’occupazione extra agricola nelle aree rurali. Ciò per evitare che l’esodo agricolo, obbligando i lavoratori ad emigrare, provocasse l’ulteriore impoverimento di queste regioni e rendesse così impossibile lo stesso progresso dell’agricoltura. In via di prima approssimazione il Memorandum stimava che fosse necessario creare nelle aree rurali almeno 80.000 nuovi posti di lavoro all’anno, e prevedeva per un obiettivo del genere una spesa pubblica annuale dell’ordine di 2,5 miliardi di ECU.
Questo programma si sarebbe dovuto realizzare nell’arco di un decennio e alla fine avrebbe consentito alla Comunità di avere una PAC completamente rinnovata e dal costo ragionevole, dell’ordine di 2 miliardi di unità di ECU, di cui meno della metà da destinare al sostegno dei prezzi agricoli. Una vera rivoluzione, quindi, se si considera che, come abbiamo visto sopra, detto sostegno aveva provocato una spesa che già verso la fine degli anni Sessanta aveva raggiunto i due miliardi e mezzo di unità di conto.
Il Memorandum suscitò grande sorpresa e fu oggetto di una consultazione vastissima. Certo, ci furono anche interventi a sostegno delle tesi di Mansholt e di approfondimento critico (v. Zeller, 1981). Ma alla fine prevalsero le posizioni risolutamente contrarie, che mettevano in dubbio non solo gli orientamenti ma gli stessi presupposti su cui poggiava il Memorandum. In particolare, la critica serrata di Mansholt nei confronti della PAC sino ad allora messa in opera e il suo allarme riguardo alla crescita vertiginosa delle eccedenze e delle spese conseguenti vennero tacciati di pessimismo privo di ragionevoli giustificazioni; la proposta di strutture aziendali dinamiche e sufficientemente ampie venne vista come un modo per distruggere l’azienda contadina; la creazione di posti di lavoro extra agricoli nelle aree rurali venne considerata prematura e comunque insopportabile per le casse comunitarie.
Così, dopo un paio di anni di discussioni e di dibattiti, il Piano Mansholt venne di fatto cancellato. La riforma della politica dei prezzi fu rinviata sine die, e degli 80.000 posti di lavoro da creare ogni anno nelle aree rurali scomparve persino la menzione. Solo la seconda delle tre linee di azione da esso preconizzate, quella relativa alle strutture delle aziende agrarie, ebbe un seguito di un qualche rilievo, con l’adozione di tre direttive (v. Direttiva) nel marzo 1972. La prima, la n. 159/72/CEE, stabiliva che avrebbero potuto beneficiare di un aiuto comunitario solo le aziende che, sulla base di un piano di sviluppo, sarebbero state in grado di assicurare un reddito comparabile rispetto agli altri settori ad almeno una unità lavorativa (le altre aziende avrebbero potuto ottenere solo aiuti nazionali e per di più a tassi più gravosi). La seconda direttiva, la n. 160/72/CEE, mirava al prepensionamento degli agricoltori di età superiore ai 55 anni e al conferimento della terra così liberata alle aziende in grado di svilupparsi. Infine, la terza direttiva, la n. 161/72/CEE, mirava a istituire nelle campagne servizi di formazione e di orientamento professionale (“informazione socio-economica”) a beneficio dei conduttori agricoli e dei loro familiari.
Gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato quanto invece fossero fondate le analisi e le previsioni che erano state alla base del programma “Agricoltura 1980”. Gli anni Settanta, infatti, vedranno crescere in maniera vertiginosa le eccedenze e le spese necessarie per liberarsene. Nel 1980 la spesa comunitaria per il sostegno dei prezzi aveva ormai largamente superato i 10 miliardi di ECU, a fronte dei 750 milioni di ECU previsti da Mansholt per quello stesso anno nel caso il suo programma fosse stato attuato. Gli anni Ottanta saranno caratterizzati da continui aggiustamenti di una politica diventata ormai un gravissimo ostacolo sul cammino dell’integrazione. Dal canto loro, le tre direttive appena ricordate diedero risultati assai scarsi dovunque, e in modo particolare in Italia (v. Guida, 1982), a dimostrazione di quanto fosse illusorio pensare di orientare e accelerare l’evoluzione delle aziende agrarie con misure di tipo esclusivamente settoriale. E dovranno passare ben 25 anni da quel dicembre 1968 perché si arrivi, nel 1992, alla prima profonda riforma della politica agricola comune. Allo stesso modo, sarà solo agli inizi degli anni Novanta che, con il passaggio alla Politica di sviluppo rurale l’ammodernamento strutturale dell’agricoltura sarà integrato in una politica più generale di sviluppo del territorio rurale.
Claudio Guida (2007)
Bibliografia
Commissione Cee, Memoradum sulla riforma dell’agricoltura nella Comunità economica europea, Bruxelles 1968.
Zeller A., L’imbroglio agricolo del mercato comune, Mondadori, Milano 1981.
Guida C. (a cura di), Politica delle strutture agricole, problemi di bilancio e revisione della PAC, Istituto nazionale di economia agraria, 1982.