Pio XII
Pio XII (Roma, 1876-ivi 1958) è forse il papa più discusso tra quelli del Novecento per vari motivi. Più noto tra tutti è l’atteggiamento del papa nei confronti della Shoah, del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Non è però secondario il fatto che Pio XII sia divenuto una specie di simbolo della Chiesa prima del Vaticano II, oggetto di nostalgie per chi vedeva nel Concilio una svolta pericolosa (come i settori tradizionalisti) o di polemica per chi considerava il suo pontificato l’incarnazione di una Chiesa monocratica. In realtà, gli anni di P. meritano una ricostruzione storica approfondita, avvenuta solo in parte. Le forti polemiche hanno condizionato la ricerca storica che, d’altra parte, si deve svolgere su fonti secondarie, perché gli Archivi vaticani sono ancora chiusi (salvo una piccola parte di documenti sulla Seconda guerra mondiale pubblicata da Paolo VI per documentare l’attività del suo predecessore). La figura di papa P. merita un’attenzione ravvicinata, perché la sua storia segna un delicato passaggio del cattolicesimo nel cuore del Novecento e di un’Europa che va perdendo la sua centralità nella vita internazionale. La sua esistenza stessa è quella di un testimone privilegiato delle due guerre in posizioni di grande importanza (la prima come segretario agli affari ecclesiastici straordinari, cioè ministro degli Esteri vaticano) e poi nunzio in Baviera; la seconda come papa). Il suo vastissimo magistero (diciannove tomi delle Edizioni vaticane) è ampiamente utilizzato, più di ogni papa, dai documenti del Vaticano II.
P., romano, viene da una famiglia identificatasi con il servizio alla Santa Sede dagli inizi dell’Ottocento. Il nonno, Marcantonio, grand commis della Santa Sede, all’origine della nascita de “L’Osservatore Romano”, è su posizioni intransigenti rispetto alla fine del potere temporale dei papi. Il padre, Filippo, e il fratello, Francesco (negoziatore dei Patti del Laterano), seguono la via tracciata dal loro avo. Ernesto, cugino del futuro papa, ebbe un ruolo decisivo nella sistemazione delle finanze pontificie dopo la fine del regime temporale. P. è però un prete formatosi al di fuori del clima dello Stato Pontificio, nato dopo il 20 settembre. Sorprendentemente studia al liceo ginnasio statale Ennio Quirino Visconti, non in una scuola cattolica. Nella sua formazione, nonostante l’ambiente familiare tradizionale, non mancano i contatti con il mondo laico e con personalità ecclesiastiche legate, in un modo o nell’altro, al rinnovamento culturale degli anni di Leone XIII e allo stesso modernismo.
Il futuro papa è seminarista al Collegio Capranica (e all’Università gregoriana), ma poi – per motivi di salute – viene iscritto come esterno al Seminario romano. Si tratta di un’eccezione, a cui contribuì anche il ruolo riconosciuto della famiglia Pacelli. All’ordinazione del giovane chierico nel 1899 per le mani del vicegerente di Roma, il cardinale Francesco di Paola Cassetta, assisteva un amico di famiglia, il cardinale Vincenzo Vannutelli. Fu questo a segnalarlo al cardinale Pietro Gasparri, segretario della congregazione per gli affari straordinari (gli Esteri del Vaticano), dove egli entrò nel 1901 e compì gli inizi della sua carriera. Il giovane don P., laureato in teologia e in diritto, non frequentò l’Accademia dei nobili ecclesiastici, la fucina dei diplomatici della Santa Sede, di cui fu invece allievo negli anni successivi, Giovanni Battista Montini (v. Paolo VI).
Non si deve credere che P. sia un prelato romano di carriera tipico dello Stato pontificio. Per il giovane P. il sacerdozio è una vocazione. La sua spiritualità, fin da prima del seminario, è marcata dalla frequentazione dei padri oratoriani della vicina chiesa di Santa Maria in Vallicella. Una fede vissuta e un profondo senso della vocazione accompagnano papa P. e, in un certo senso traspaiono, dalla stessa figura del pontefice. Ernesto Buonaiuti, prete romano, poi scomunicato come modernista, ricordava di avere incontrato il giovane don P. nella chiesa filippina e di averne ammirato la pietà. Lo stesso Buonaiuti, nel 1946, pubblicò un saggio su questo papa, denunciando l’impotenza sua e della Santa Sede nel dramma della guerra, il logorio dello strumento diplomatico, l’allontanamento della genuinità evangelica. Sono temi destinati a essere ripresi nel dibattito su papa P., a partire da Carlo Falconi negli anni Cinquanta e Sessanta, fino alla polemica sui “silenzi” di Pio XII, denunziata dal dramma di Rolf Hochhuth, Il Vicario, del 1963. Da questo momento tanta parte dell’attenzione su Pio XII si è concentrata sul suo atteggiamento a proposito della Shoah.
Il giovane P. è un prete di grande spiritualità, ascetico, che si distingue nella prelatura romana, dove non mancano figure legate a vecchi moduli di carriera ecclesiastica. Ha forte il senso della romanità, divenendo, come papa, un cantore dell’idea di Roma, madre del diritto, communis patria di popoli diversi unificati da una fede comune: «Roma è la nuova Sion, e romano è ogni popolo che vive la fede romana» – dice in un discorso pronunciato da segretario di Stato nel 1936. Tale romanità si rafforza e si attualizza nelle crisi delle due guerre mondiali, a fronte del razzismo nazista e fascista, accentuando in lui il senso del papato come istanza imparziale, capace di interpretare l’ansia di pace del mondo, i valori della civiltà e del diritto naturale.
La formazione di P. avviene negli anni di Leone XIII, e la sua carriera ecclesiastica compie i primi e significativi passi in quelli di Pio X. Poco dopo l’elezione di quest’ultimo è nominato minutante, diviene sottosegretario della congregazione degli affari ecclesiastici straordinari nel 1911. Nel 1914, quando il cardinale Gasparri diviene segretario di Stato del nuovo papa, Benedetto XV, è nominato segretario, un posto che occupa fino al 1917, quando, consacrato vescovo, è inviato in Germania come nunzio a Monaco. Nel 1911 P. era succeduto nell’incarico di sottosegretario al cardinale Umberto Benigni, capofila di un’organizzazione segreta per la lotta ai modernisti: Pacelli, prete di gran fedeltà al papa, non risulta schierato in modo eccessivo. È un giurista, collaboratore del cardinale Gasparri nella stesura del Codice di diritto canonico. Si va affermando come la personalità più notevole all’interna della sua generazione nella cerchia romana.
L’esperienza più rilevante, tra le molte in questi anni, è la collaborazione con Benedetto XV e il cardinale Gasparri nella Prima guerra mondiale, quando la Santa Sede si colloca come “imparziale” tra i belligeranti (era questa in particolare la linea del segretario di Stato Gasparri). È la stessa filosofia ripresa da Pio XII nel 1939. Ma P. sa bene – e ne avrà senso più acuto da papa – che la Santa Sede non può rinunciare al suo magistero morale anche in tempo di guerra e al suo impegno per la pace. Come conciliare tutto questo? Nel corso del primo conflitto, P. fa esperienza delle contraddizioni di questa posizione. Dal 1917 P. è l’unico rappresentante del papa in territorio tedesco. Nel giugno 1917 è ricevuto dal Kaiser Guglielmo II, che gli dice, tra l’altro, come al mondo ci siano due organizzazioni potenti: l’armata prussiana e la cerchia cattolica, mentre si rischia di aggiungerne una terza, quella socialista e rivoluzionaria. Di passaggio a Vienna il prelato aveva incontrato anche l’imperatore Carlo I. Nell’agosto 1917, la Santa Sede tentò una mediazione di pace con la famosa Nota ai belligeranti, dove fra l’altro si parla della guerra come “inutile strage”. Fu un insuccesso diplomatico che valse al papa severe risposte dei governi e polemiche nell’opinione pubblica, talvolta anche cattolica.
P. fu in Germania dal 1917 al 1929, prima come nunzio a Monaco e poi, dal 1920, a Berlino (dove abitò gli ultimi quattro anni). In questa veste assistette alla crisi della Germania sconfitta in guerra e ai sussulti che seguirono. Nel 1919 la nunziatura apostolica a Monaco fu assalita dalle forze spartachiste e P., come si legge nelle sue relazioni, fronteggiò faccia a faccia i rivoluzionari comunisti. Il suo capolavoro diplomatico fu il concordato con la Baviera firmato nel 1924, considerato molto vantaggioso per la Chiesa. Ma P. fu soprattutto un nunzio molto amato in Germania, con tante relazioni nell’ambiente cattolico e all’esterno. L’immedesimazione del prelato nel cattolicesimo tedesco e nella vita della Germania è stata alla base della rappresentazione di P. come papa filotedesco. In realtà Pio XII conosceva la varietà del mondo tedesco, era convinto che la crisi della Germania postbellica fosse dovuta all’umiliazione di Versailles, aveva un’idea piuttosto precisa della realtà del mondo protestante. In veste di pontefice, egli appoggiò con decisione gli albori del processo di unificazione europeo, che pure coinvolgeva un buon numero di protestanti, senza riproporre l’idea di un’unione latina e cattolica, cara ad alcuni ambienti cattolici tra le due guerre.
Pio XI, nel 1929, crea P. cardinale e lo vuole a Roma al suo fianco nel 1930 come segretario di Stato: allora è forse la personalità più notevole della diplomazia vaticana, destinato a trattare da vicino le grandi questioni degli anni Trenta. Già dalla Germania, però, P. si era interessato di due gravi questioni, il comunismo e il nazismo. Non solo aveva conosciuto la rivoluzione comunista di Monaco (sul cui impatto psicologico molti hanno insistito), ma aveva anche trattato con i responsabili sovietici, incontrando tra gli altri il commissario agli Esteri di Lenin, Gerogij Cicerin, per discutere del futuro del cattolicesimo nell’URSS. Sono trattative (volute da Benedetto XV e da Pio XI) che falliscono e confermano il futuro papa sull’indisponibilità sovietica a rispettare la Chiesa cattolica. A Berlino il nunzio ordina vescovo, su incarico di Pio XI, il cardinale Michel d’Herbigny, che intende creare una Chiesa clandestina nell’URSS. È un’esperienza (fallita) che Pio XII ha presente quando, da papa e dopo il 1945, affronta il problema della sopravvivenza del cattolicesimo nell’Est comunista. Di fronte alle persecuzioni, resta la scelta di una Chiesa clandestina? È quella che viene fatta dopo la forzata abolizione della Chiesa cattolica di rito bizantino in Ucraina dopo il 1946, o in Cecoslovacchia. La Chiesa polacca, guidata nel secondo dopoguerra dal cardinale Stefan Wyszynski, sceglie un’altra strada: quella di un radicamento popolare e un accordo non collaborazionista (fallito) con il governo.
Il comunismo attraversa, come grave problema, gli anni della nunziatura a Berlino, della segreteria di Stato e del pontificato. Pio XII considera il comunismo un nuovo “islam”, che sradica la Chiesa e la civiltà. In questa prospettiva, durante i suoi contatti con gli Alleati, è molto critico sullo spazio concesso all’URSS in Europa. Nel 1949 il papa giunge alla scomunica dei comunisti (un decreto del Sant’Offizio, che riprende per altro le posizioni dell’enciclica di Pio XI del 1937, Divini Redemptoris), convinto che nell’Est europeo il comunismo non solo perseguiti la Chiesa, ma si stia insinuando in essa. D’altra parte nell’Occidente postbellico, specie in Francia e in Italia, i partiti comunisti sono oggetto di forte consenso, anche tra le masse cattoliche. La lotta antireligiosa del comunismo è uno dei drammi del pontificato di papa P. Sul pericolo comunista, dopo i tentativi di accostamento diplomatico negli anni Venti, Pio XI e Pio XII parlano con molta forza. Con papa P., il comunismo è al potere anche in paesi di fede cattolica, come la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Croazia e la Slovenia, la Galizia ucraina. È divenuto una realtà mondiale con la Guerra fredda e l’affermazione in Cina, il più grande paese del mondo. La sua affermazione è uno dei grandi drammi del pontificato, di cui Pio XII ha viva coscienza.
Tuttavia la storiografia, almeno fino agli anni Ottanta (ma anche oltre), ha messo in rilievo il diverso trattamento riservato da Pio XII al comunismo e al nazismo. Con quest’ultimo il papa “filotedesco” sarebbe stato riservato, sia per la sua simpatia per la Germania, sia per l’ipotesi di usare il nazismo nella lotta al comunismo. Si giunge qui all’altra grave questione del pontificato pacelliano, ma anche del periodo in cui P. era segretario di Stato accanto a Pio XI: il rapporto con la Germania di Adolf Hitler. È il tema dei “silenzi” di Pio XII di fronte allo sterminio degli ebrei – “silenzio” è anche una parola che il cardinale Roncalli (v. Giovanni XXIII) sente dal papa stesso a proposito del suo atteggiamento verso i tedeschi durante la guerra. Nel 1923 il nunzio aveva segnalato il carattere anticattolico del movimento di Hitler in una relazione a Roma. Il suo atteggiamento, negli anni Trenta, resta severo, mentre crede che il centro debba avere un ruolo determinante nella politica tedesca. Con Hitler alla cancelleria nel gennaio 1933, si pose a Pio XI e al cardinale P. la prospettiva di attuare un modello italiano (il concordato con il fascismo). Nel luglio 1933 il Concordato era fatto e P., segretario di Stato, vi appose la sua firma. Gli anni successivi avrebbero mostrato come Hitler avesse un progetto totalitario, obiettivamente ostile allo stesso cattolicesimo. Da qui l’enciclica di Pio XI Mit brennender Sorge del 1937, in cui si condanna il nazismo (e a cui collabora in modo decisivo il segretario di Stato).
Il pontificato di P XII, eletto il 2 marzo 1939, è segnato dai problemi del nazismo, del comunismo, della guerra (che scoppia il 1° settembre 1939). Il cardinale P. s’impone all’attenzione dei cardinali elettori per il suo profilo internazionale. Era stato nel 1934 in Argentina, due volte in Francia (ed era considerato filofrancese e democratico dai nazisti), negli Stati Uniti nel 1936 (dove aveva conosciuto il presidente Franklin Delano Roosevelt), in Ungheria nel 1938). Viene eletto papa, alla vigilia del conflitto, anche per questo suo profilo internazionale, mentre la candidatura contrapposta sembra sia stata quella del “pastorale” cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, che raccoglie suffragi tra gli italiani. Pio XII fu eletto in meno di ventiquattro ore, raccogliendo 48 voti su 62. La critica che gli veniva fatta negli ambienti diplomatici era quella di essere un carattere mite, inadatto a tempi duri.
In realtà, come nota il cardinale Domenico Tardini (collaboratore di Pio XII accanto al Sostituto Giovanni Battista Montini), Pio XII era «mite e piuttosto timido. Non aveva la tempra del lottatore […]». Questo atteggiamento di fondo lo portò a proteggersi da collaborazioni troppo strette (è nota la sua frase: «voglio esecutori e non collaboratori»). Nominò segretario di Stato un suo compagno di seminario, il cardinale Luigi Maglione (il quale sulla guerra aveva idee un poco differenti dal papa ed era più sensibile alle ragioni della lotta all’Asse). Alla morte di questi, nel 1944, non gli diede un successore. In un certo senso papa P. fu segretario di Stato di se stesso, dando alla segreteria di Stato un ruolo sempre più centrale nell’apparato istituzionale vaticano. Negli ultimi anni del pontificato, anche per la malattia, il papa apparve isolato. Le udienze ai dirigenti curiali e ai vescovi furono ridotte. Del resto i ranghi cardinalizi erano invecchiati e scarsi, perché in tutto il pontificato il papa tenne solo due concistori per la creazione dei cardinali, nel 1946 (32 nomine molto internazionali e un importante discorso sull’universalità della Chiesa) e nel 1953.
Si è scritto che papa P. rappresenta il culmine di un processo di accentramento romano, come un monarca isolato nella sua Chiesa. Questa immagine va però corretta, perché il papa moltiplicò le sue apparizioni e i suoi incontri, le udienze a ogni genere di categoria, i discorsi. Infatti Pio XII non fu solo il papa dei “silenzi”, delle prudenze diplomatiche o della lotta al comunismo, quasi un conservatore chiuso; fu anche un papa (che si servì di radio e televisione) molto popolare e amato, forse come nessuno dei suoi predecessori. Fu un papa che si interrogò sulla possibilità di cambiamenti nella vita della Chiesa, introdusse un’iniziale riforma liturgica (alla liturgia dedicò un’enciclica nel 1947, Mediator Dei), discusse sull’eventualità di un concilio ecumenico escludendone poi l’opportunità, lanciò l’apostolato dei laici, reimpostò la questione biblica (con l’enciclica Divino afflante Spiritu nel 1943).
Dalla crisi della guerra, il papa si convinse sempre più di dover parlare ai popoli e ai cattolici, piuttosto che ai governanti. Per interpretare l’anima del pontificato di Pio XII potrebbe essere utilizzata la categoria religiosa della “profezia”. Il pontefice, in nome della fede, dopo la guerra, si sente “profeta” di un tempo nuovo, in cui bisogna rifondare il mondo sulla base della testimonianza della Chiesa e del suo messaggio di civiltà e di diritto. È Il senso della grande mobilitazione “per un mondo migliore” che comincia nel 1952, con l’animazione di un semplice gesuita, padre Riccardo Lombardi, e vuole diffondersi nel mondo intero. Papa P., spesso descritto come un diplomatico, è in realtà un grande comunicatore con una forte ansia missionaria: sente l’esigenza di un papato che animi il cattolicesimo come movimento nella società e che parli al mondo contemporaneo. Anche se non compie nessun viaggio, come pontefice, fuori da Roma, né realizza riforme della Chiesa quali alcuni suoi collaboratori (come lo stesso Montini o il cardinale Celso Costantini) auspicavano, rinnova l’immagine del papa di fronte all’opinione pubblica. Nel 1950, anno santo (quello che raccoglie il più gran numero di pellegrini a Roma in tutta la storia dei giubilei fino ad allora), emergono con forza la grandezza della “profezia” papale, ma anche la sua solitudine.
L’esordio del pontificato nel 1939 era stato all’insegna della solitudine. Durante la Seconda guerra mondiale, in un’Europa occupata, a fronte delle brutalità dei nazisti, il papa e i suoi collaboratori avevano conosciuto una solitudine nei rapporti con gli Stati, aggravata nel 1943, dall’occupazione tedesca di Roma. Forse solo il rapporto con gli Stati Uniti di Roosevelt prima e di Harry Spencer Truman poi, aveva rappresentato una relazione internazionale di rilievo per la Santa Sede (anche se era accreditato in Vaticano solo un rappresentante personale del presidente, Myron Taylor, e non un ambasciatore). Gli Stati Uniti valorizzano le opinioni vaticane per l’Italia, anche se, prima della Guerra fredda, non c’è coincidenza di vedute sull’URSS. In questi anni di guerra, Pio XII teme la vittoria dell’Asse e rifiuta di benedire la guerra contro l’Unione Sovietica come una crociata. Anzi, interviene presso i cattolici americani perché non si oppongano all’appoggio degli Stati Uniti allo sforzo bellico sovietico. Nel 1944 un suo radiomessaggio è dedicato alla democrazia e costituisce un testo di riferimento per l’impegno dei cattolici nella ricostruzione. Indubbiamente il pontificato di papa P., rispetto a quello di Pio XI, marca la scelta dei cattolici e della Chiesa per il sistema democratico (anche se dopo la guerra persistono Stati cattolici e autoritari come la Spagna e il Portogallo).
I rapporti tra Santa Sede e Terzo reich, durante il conflitto, sono difficili. Gli interventi sulla Polonia sono respinti, mentre quelli sulla Germania ricevono scarso ascolto dai nazisti. Tuttavia non si giunge a una condanna del nazismo o dello sterminio degli ebrei (se ne allude velatamente nell’allocuzione del 2 giugno 1943). I motivi sono molteplici, primo tra tutti l’imparzialità in guerra. Non da ultimo, l’ipotesi di una vittoria dell’Asse (e Pio XII era convinto che la Chiesa sarebbe stata duramente colpita) e la percezione della fragilità del cattolicesimo tedesco. La condanna non venne neanche dopo la razzia degli ebrei di Roma il 16 ottobre 1943. Ciò non toglie che, sotto l’impulso del papa, le istituzioni cattoliche di Roma si impegnarono nell’ospitalità clandestina agli ebrei e agli altri ricercati. Lo stesso Pio XII svolse un ruolo di contatto tra congiurati antinazisti e la Gran Bretagna (v. Regno Unito). Era consapevole che la Chiesa non avrebbe avuto spazio nell’ordine nuovo europeo.
Così, nel dopoguerra, a confronto con la sfida comunista (e la sua capacità attrattiva in Occidente), Pio XII non intese essere solo “cappellano dell’Occidente”, come lo dipingeva la propaganda comunista. La Chiesa doveva evitare di appiattirsi troppo sull’Occidente, mentre a Oriente era perseguitata: una nuova condizione di solitudine. La Chiesa doveva appoggiarsi sui suoi fedeli e sulla loro mobilitazione: il tema dell’alleanza tra Chiesa e popolo, caro all’ultimo secolo di cattolicesimo, viene sottolineato con forza da Pio XII. Il papa rilancia una proposta di civiltà che aveva il suo fulcro nella Chiesa cattolica. L’affermazione della Democrazia cristiana in Italia (a cui la Chiesa diede tutto il suo appoggio, ma di cui Pio XII non condivideva l’autonomia rappresentata da Alcide De Gasperi), la presenza dei cattolici nelle democrazie occidentali, il processo di unificazione avviato dai Trattati di Roma del 1957, il rafforzamento del movimento cattolico, gli apparivano importanti passi per una rifondazione dell’Occidente in senso cristiano.
Entrambi i sistemi politici (tra cui il papa faceva notevoli differenze) gli apparivano però incapaci di fondare una vera pace, perché non radicati su valori autentici. Non solo lanciava il movimento cattolico per affermare i valori cristiani in Occidente; ma promuoveva, in continuità con Benedetto XV e Pio XI, l’indigenizzazione della Chiesa in Asia e nel mondo coloniale. A questo proposito resta importante l’enciclica missionaria del 1951, Evangelii Praecones, con l’idea di una Chiesa che si regge su forze autoctone e che è distaccata dagli interessi coloniali. In questa linea, negli ultimi anni del pontificato, la Santa Sede coglie l’incipiente movimento di decolonizzazione e favorisce la creazione di episcopati autoctoni. Questo processo era stato bruscamente interrotto in Cina dall’avvento del potere comunista e dalla nascita di una Chiesa “patriottica” (condannata dal papa). Il cardinale Eugène Tisserant, collaboratore di Pio XII, sosteneva che la decolonizzazione avrebbe finito per favorire l’espansione comunista. Era anche la posizione del cardinale Marcel Lefebvre, nominato arcivescovo di Dakar nel 1947 e grande organizzatore del cattolicesimo nell’Africa orientale francese. Ma, per Pio XII, si doveva proseguire sulla via della creazione di Chiese cattoliche autoctone.
Indubbiamente, alla fine degli anni Cinquanta, c’è un senso di crisi nella Chiesa. Il mondo coloniale è alle soglie del cambiamento, mentre è nato il movimento dei non allineati. L’Europa occidentale conosce, con il benessere e la democrazia, un cambiamento di costumi che lascia intravedere un’incipiente secolarizzazione. A Est, sotto i regimi comunisti, non ci sono segni di alleggerimento di una dura persecuzione. Nel 1954, Pio XII, parlando di Gregorio VII, aveva ricordato come il suo pontificato si fosse concluso con il «crollo apparente di tutta l’opera sua», ma poi aveva aggiunto: «Egli apparve il vero vincitore per la lotta per la libertà della Chiesa». Il papa pensava a se stesso? Certo negli ultimi interventi si notano accenti preoccupati, talvolta apocalittici, quasi a esprimere la convinzione di un’opera irrealizzata. Egli parla, per la Pasqua del 1957, di un’umanità smarrita e di tanti che fuggono spaventati. Ma conclude con un’invocazione: «fa’ che la nostra notte si illumini come il giorno».
Andrea Riccardi (2010)