Politica ambientale
L’ambiente e le Comunità europee: dai Trattati al primo Programma d’azione comunitaria
Nel Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) istitutivo della Comunità economica europea (CEE) del 1957 la protezione dell’ambiente non era prevista esplicitamente tra le finalità della nuova organizzazione, sia perché non era ancora considerata una questione prioritaria a livello sovranazionale, sia perché il processo di integrazione comunitario (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) era volto a perseguire principalmente il raggiungimento di obiettivi economici (v. Unione doganale; Mercato unico europeo). Tuttavia, al fine di promuovere «il miglioramento costante delle condizioni di vita» e di realizzare «uno sviluppo armonioso delle attività economiche, una continua e bilanciata espansione, un aumento della stabilità, una crescita accelerata del tenore di vita» (art. 2 Trattato CEE – ora art. 3 del Trattato dell’Unione europea, TUE, prima parte delle due delle quali è composto il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che comprende anche il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE), alla Comunità europea (CE) era già consentito, in via incidentale, un intervento indiretto a difesa dell’ambiente, secondo quanto stabilito all’art. 30 del Trattato CEE (ora art. 36 TFUE) che ammetteva la possibilità di introdurre limiti o restrizioni in diversi settori, tra i quali «la protezione della salute e della vita degli uomini, degli animali e delle piante», al fine di attuare le disposizioni per l’attuazione del mercato comune (v. Comunità economica europea). In particolare, risultarono applicabili per tali azioni l’ex art. 100 (ora art. 115 TFUE), che consentiva al Consiglio dei ministri, su proposta della Commissione europea e dopo aver consultato il Parlamento europeo (PE) e il Comitato economico e sociale, di stabilire direttive idonee a Ravvicinamento delle legislazioni nazionali in funzione della realizzazione del mercato comune e l’ex art. 235 (ora art. 352 TFUE), che rendeva possibili interventi legislativi comunitari riguardanti azioni non previste dagli scopi comunitari originari, ma necessarie per poterli raggiungere (“poteri impliciti”) (v. anche Diritto comunitario).
Alcuni riferimenti all’ambiente erano peraltro stati inseriti negli artt. 54 e 55 del Trattato istitutivo della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. Trattato di Parigi) del 1951 e in quello istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom). La prima direttiva comunitaria di rilevanza ambientale fu infatti adottata nel 1959 (dir. Euratom 221/59) in merito alle radiazioni ionizzanti, al fine di individuare standard comuni per la protezione della salute dei lavoratori e della popolazione, per monitorare l’aria, l’acqua e il suolo e tenere informata la Commissione sui piani di smaltimento dei rifiuti radioattivi (art. 2, comma b e art. 30 Trattato Euratom). La prima direttiva ambientale avente come base giuridica il Trattato CEE riguardò, invece, nel 1967 la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura delle sostanze chimiche pericolose (dir. CEE 548/67).
Già tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta l’aumento dei disastri ecologici a livello internazionale aveva determinato, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, la formazione di una sensibilità ambientalista a livello locale, nazionale e sovranazionale tra larghi strati dell’opinione pubblica, dovuta in particolare all’opera di denuncia e di tutela svolta da scienziati, movimenti, associazioni, gruppi ecologisti, comitati civici. Alcuni trattati e convenzioni diedero impulso allo sviluppo del diritto ambientale internazionale (numerosi, ad esempio, quelli riguardanti la prevenzione dell’inquinamento marino). Un rilievo particolare assunse la Convenzione di Ramsar (Iran) del 2 febbraio 1971 sulle zone umide di importanza internazionale, in particolare con riferimento agli habitat degli uccelli acquatici, più volte emendata, che istituì un elenco di zone protette al quale ogni Stato poteva iscrivere quelle del suo territorio.
In ambito comunitario dopo il Vertice dell’Aia dei capi di Stato e di governo tenutosi il 1° e 2 dicembre 1969 che favorì la ripresa di un clima favorevole allo sviluppo dell’integrazione europea dopo la caduta di Charles de Gaulle in Francia e l’inizio di un’azione mirata direttamente a ridurre l’inquinamento atmosferico prodotto dalle emissioni di gas provenienti da veicoli a motore avvenuto con una direttiva del 1970 volta al Ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia (dir. CEE 220/70), la Commissione europea decise di attuare un’Armonizzazione legislativa delle norme ambientali vigenti e, nel febbraio 1971, istituì al suo interno un Gruppo di lavoro per l’ambiente (v. Comitati e gruppi di lavoro) composto da alcuni commissari e presieduto da Altiero Spinelli. Con la comunicazione 2616 del 22 luglio 1971 la Commissione europea presentò al Consiglio dei ministri un memorandum che individuava per la prima volta la protezione dell’ambiente come obiettivo della CE. La Conferenza mondiale sull’ambiente umano convocata dalle Nazione Unite dal 5 al 16 giugno 1972 a Stoccolma segnò l’inizio di una politica internazionale ambientale. In questa circostanza vennero adottati il Piano mondiale di azione ambientale e la Dichiarazione di principi, che prevedeva con il principio 21 una limitazione all’autodeterminazione degli Stati. Pur mantenendo «il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse secondo le loro politiche ambientali», essi avevano «il dovere di assicurare che le attività esercitate nei limiti della loro giurisdizione o sotto il loro controllo» non provocassero «danni all’ambiente di altri Stati o in aree al di fuori dei limiti delle giurisdizioni nazionali». Seguì la nascita di un Programma delle nazioni per l’ambiente (UNEP), istituito dall’Assemblea generale nel dicembre 1972 come organo autonomo e con una struttura specifica con sede a Nairobi (Kenia), avente funzioni di studio, assistenza tecnica e legislativa rivolta all’elaborazione di progetti di convenzione da sottoporre agli Stati. Tale compito fu svolto con altre organizzazioni internazionali attraverso la promozione di numerosi Trattati internazionali che instauravano regimi giuridici con differenti gradi di effettività e cogenza per gli Stati contraenti.
Al Vertice europeo di Parigi tra i capi di Stato e di governo tenutosi tra il 19 e il 21 ottobre 1972, i paesi della CE, dietro pressione della delegazione tedesca e con l’accordo dei tre paesi in procinto di entrarvi (Danimarca, Regno Unito e Irlanda), decisero di avviare un’azione ambientale comune, dichiarando che l’espansione economica prevista dall’art. 2 del Trattato CEE avrebbe dovuto realizzarsi con un miglioramento della qualità della vita, con una particolare attenzione «ai valori intangibili e alla protezione dell’ambiente». Alla Conferenza interministeriale di Bonn del 31 ottobre 1972 vennero così poste le basi per la preparazione di un programma d’azione sulla base della cooperazione tra i ministri responsabili della politica ambientale. Nacque così, il 22 novembre 1973, su decisione del Consiglio dei ministri delle Comunità europee, il primo Programma d’azione per l’ambiente (1973-1976). Nello stesso anno al vicepresidente della Commissione europea Carlo Scarascia Mugnozza venne affidato l’incarico di commissario all’ambiente (ricoperto fino al 1977 e poi passato a Lorenzo Natali da quell’anno al 1981) e furono costituiti un Servizio per l’ambiente e la protezione del consumatore all’interno della Direzione generale per la politica industriale (DGIII) della Commissione europea e la Commissione per l’ambiente (v. Commissioni parlamentari) del PE.
Il Programma d’azione ambientale, adottato con Risoluzione del Consiglio dei ministri su proposta della Commissione, rappresenta un quadro di riferimento generale (non direttamente vincolante gli Stati membri sotto il profilo giuridico) che individua principi e obiettivi sulla base dei quali implementare le politiche ambientali attraverso atti dotati di potere normativo differenziato – regolamenti, direttive (v. Direttiva), decisioni (v. Decisione), raccomandazioni (v. Raccomandazione). Nell’ambito della nutrita e complessa normativa comunitaria ambientale si possono individuare quattro distinte tipologie di direttive: le direttive concernenti la disciplina generale del diritto ambientale europeo, finalizzate alla creazione di un complesso omogeneo di principi e misure europee di protezione ambientale; le direttive settoriali, miranti a individuare norme comuni per contrastare singole forme di inquinamento; le direttive volte a integrare strumenti giuridici con misure economiche e iniziative volontarie di enti pubblici e privati; le direttive su situazioni materiali meritevoli di tutela – come l’individuazione di siti di interesse comunitario (SIC) e la protezione delle specie vegetali e animali a rischio o della fauna selvatica migratoria. Ad esempio, la dir. CEE 409/79 sulla protezione degli uccelli selvatici, la prima ad occuparsi specificamente di habitat naturali e fauna, stabiliva all’art. 14 che «gli Stati membri possono prendere misure di protezione più rigorose di quelle previste dalla presente direttiva», precorrendo il principio di maggior protezione ambientale, più tardi riconosciuto a livello comunitario.
Il primo Programma d’azione comunitaria per l’ambiente, incentrato sulla lotta all’inquinamento delle acque e dell’aria era volto, essenzialmente, a eliminare o limitare i danni ambientali prodotti in particolare dagli scarichi agricoli e industriali, dalle emissioni di gas nocivi e dall’inquinamento acustico. Tale programma portò all’adozione di diverse direttive riguardanti principalmente la determinazione di soglie massime di emissione per alcuni agenti inquinanti. L’obiettivo principale era la prevenzione del danno soprattutto in funzione dell’eliminazione di eventuali barriere non tariffarie alla costruzione del mercato comune e distorsive della libera concorrenza prodotte da differenti legislazioni ambientali nazionali.
Il secondo e il terzo Programma d’azione per l’ambiente
Il secondo Programma d’azione (1977-1981) accentuò l’attenzione per la prevenzione e ampliò il proprio orizzonte alla ricerca scientifica in campo ambientale, alla cooperazione internazionale e tra gli Stati europei e allo studio di un sistema di valutazione di impatto ambientale. Nel 1980 la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) sancì definitivamente la compatibilità del ricorso all’ex art. 100 e all’ex art. 235 del Trattato CEE e la necessità di uniformare le legislazioni nazionali in materia di tutela ambientale per difendere la concorrenza, con la previsione di oneri per le imprese inquinanti (causa 91/79 – Commissione europea c. Italia – relativa al rifiuto di rispettare il termine di adeguamento alla direttiva sulla biodegradabilità dei detergenti da parte dell’Italia, sulla base dell’argomento che la CE non aveva competenze in campo ambientale). Nel 1981 la Commissione, presso la quale da quell’anno al 1985 venne designato commissario per l’ambiente il tedesco Karl-Heinz Narjes, costituì la Direzione generale XI (DGXI) con il compito di occuparsi di ambiente, sicurezza nucleare e protezione civile e iniziò ad affermarsi come il principale “attore” del policy-making ambientale comunitario. Dal canto suo la Corte di giustizia tornò a definire la tutela dell’ambiente come «uno degli scopi essenziali della Comunità» in una sentenza del 1985 (causa 240/83 – Procureur de la République c. Association de défense des bruleurs d’huiles usagées – ADBHU).
Chiamata a giudicare sull’ammissibilità di misure di tutela ambientale riguardo alla Libera circolazione delle merci, la Corte contribuiva notevolmente a chiarire e legittimare le politiche ambientali nazionali e comunitarie quali “esigenze imperative” capaci di imporre restrizioni alla libertà degli scambi, ritenendo legittime imposizioni fiscali applicabili a prodotti non biodegradabili o riconoscendo i rifiuti come beni. Nella causa 302/86, in cui la Commissione europea citava in giudizio la Danimarca per la rigida normativa da essa stabilita sui tipi di contenitori per birre e bibite ammessi sul mercato nazionale, che dovevano essere riciclabili e dotati di particolari requisiti, la Corte di giustizia, con la sentenza del 20 settembre 1988, riconosceva la legittimità di restrizioni al libero mercato per il perseguimento di obiettivi ambientali, purché proporzionate ai vantaggi ottenibili.
Con il passare degli anni si manifestò sempre più evidente nella legislazione europea l’interdipendenza dei fenomeni aventi incidenza ambientale e non circoscrivibili alla competenza dei singoli Stati membri. Negli anni Ottanta si avviò anche un serrato confronto tra paesi dell’Europa settentrionale – Repubblica Federale Tedesca (v. Germania), Danimarca e Paesi Bassi –, dotati di normative ambientali più severe e maggiormente influenzati dall’affermarsi dell’ambientalismo e dei movimenti verdi, e quelli dell’Europa del Sud (Francia, Italia e i paesi entrati nella CE tra il 1981 e il 1986, cioè Grecia, Spagna e Portogallo) che, insieme alla Gran Bretagna, erano contrari a maggiori vincoli e impegni. Un ostacolo notevole alla concreta attuazione di norme comunitarie era dovuta al principio dell’unanimità richiesto per le votazioni del Consiglio in tale materia (v. Voto all’unanimità), utilizzato dai paesi contrari a una tutela ambientale comunitaria più rigida. La CE favorì la cooperazione ambientale internazionale aderendo per conto degli Stati membri a diverse Convenzioni e trattati, primi tra i quali la Convenzione di Parigi sulla prevenzione dell’inquinamento marino (1974), la Convenzione di Barcellona sulla protezione del Mediterraneo dall’inquinamento (1975), la Convenzione di Ginevra sulla prevenzione dell’inquinamento atmosferico a lunga distanza in Europa (1979) e la Convenzione di Berna sulla conservazione delle specie di flora e di fauna selvatica e dei loro habitat in Europa (1979).
Con il terzo programma d’azione (1982-1986) venne avviata l’integrazione della tutela ambientale all’interno delle politiche comunitarie esistenti (in particolare la Politica agricola comune, la Politica industriale, la Politica dell’energia e la Politica comune dei trasporti) e furono introdotti strumenti importanti di controllo – come la prima delle direttive sui rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali (dir. CEE 501/82, conosciuta come “direttiva Seveso” dal nome della località italiana colpita dell’incidente a un’industria chimica nel 1976) e la direttiva sulla Valutazione di impatto ambientale (VIA) del 1985 (dir. CEE 337/85), la quale istituiva controlli e procedure rigorose per valutare la compatibilità ambientale di iniziative atte a trasformare il territorio (opere edilizie, infrastrutture, ecc.). L’art. 3 della direttiva sulla VIA forniva per la prima volta in ambito comunitario una definizione di ambiente comprensiva di determinati fattori (uomo, flora, fauna, suolo, acqua, aria, clima, paesaggio) e delle loro relazioni reciproche, dei beni materiali e del patrimonio culturale. Nel 1985, all’interno della Commissione europea presieduta da Jacques Delors venne designato un commissario per i trasporti e l’ambiente (l’inglese Stanley Clinton Davis, che mantenne questo incarico fino al 1989) e venne istituito il programma CORINE (Coordination information environment) per raccogliere e coordinare le informazioni sullo stato dell’ambiente in Europa.
Tra emergenze e sviluppo sostenibile: la nascita della politica ambientale europea e il quarto Programma d’azione per l’ambiente
Dopo il disastro nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986 e il grave inquinamento provocato nel novembre dello stesso anno alle acque del Reno con il rilascio da parte dell’industria Sandoz di Basilea di decine di tonnellate di sostanze chimiche che danneggiarono la fauna e la flora fluviale in Germania, Francia e Paesi Bassi creando forti problemi anche per l’approvvigionamento idrico umano, divenne ancor più chiara la comune percezione della dimensione internazionale dei problemi ambientali e la necessità di affrontarli mediante una stabile e costante cooperazione transnazionale, sovranazionale e internazionale.
Con l’Atto unico europeo, sottoscritto nel 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987, la politica ambientale veniva inserita tra gli obiettivi riconosciuti della CE, chiamata a intervenire per garantire la protezione e il miglioramento della qualità dell’ambiente e della salute umana e l’utilizzo razionale delle risorse. Nel titolo VII (artt. 130R, 130 S e 130T) la politica ambientale era infatti riconosciuta come scopo “legittimo”. L’assunzione delle decisioni doveva altresì avvenire da parte del Consiglio dei ministri secondo la Procedura di cooperazione, alla quale si affiancava il PE con un voto a Maggioranza qualificata quando queste fossero collegate al funzionamento del mercato unico (art. 100 A, ora artt. 114 e 115 TFUE), mentre permaneva la procedura di voto all’unanimità del Consiglio negli altri casi, salvo la possibilità di stabilire con decisione unanime il voto a maggioranza qualificata (art. 130 S). Era anche prevista la possibilità per gli Stati membri di introdurre nei propri ordinamenti standard più ecologici di quelli minimi e obbligatori adottati in sede comunitaria, nonché la valutazione della protezione ambientale come elemento fondamentale nelle altre politiche di settore (art. 130 T). I principi a cui doveva ispirarsi la politica ambientale europea nella sua azione erano i seguenti: la prevenzione, la correzione del danno alla fonte (cioè l’eliminazione del danno ambientale nello Stato dove esso era prodotto), il principio “chi inquina paga”, il principio di integrazione con altre politiche, il principio di elevato livello di tutela ambientale e il Principio di sussidiarietà (introdotto per la prima volta nell’ordinamento comunitario soltanto in riferimento alla politica ambientale nell’art. 130 R, par. 4 e poi divenuto principio generale con il Trattato di Maastricht e ivi spostato all’art. 3 B, poi all’art. 5 n. 2, nel Trattato di Nizza e infine ora all’art. 5 nel TUE). In base a quest’ultimo principio è importante rilevare che la CE concorre, insieme con gli Stati membri, alla tutela dell’ambiente, nei limiti atti a garantire un suo più agevole perseguimento e al fine di evitare il mantenimento o l’introduzione di norme e azioni nazionali incapaci di garantire standard minimi comuni.
Il quarto Programma d’azione (1987-1992) tentò di delineare un approccio globale per le politiche ambientali, allargando gli ambiti di intervento alla gestione delle aree naturali e inserendo tra i possibili nuovi strumenti utilizzabili quelli economici e fiscali disincentivanti l’inquinamento. Il periodo tra il marzo del 1987 e quello del 1988 venne proclamato “Anno europeo per l’ambiente” e negli anni successivi aumentò sensibilmente l’attività comunitaria in materia, parallelamente però a una crescente inadempienza (v. Infrazione al Diritto dell’Unione europea) nell’applicazione delle normative europee negli Stati membri e alla difficoltà di monitorare i risultati conseguiti. Il Consiglio europeo sull’ambiente di Dublino, tenutosi nel giugno 1990, sottolineò, in particolare, il ruolo che la CE doveva svolgere nei negoziati per la risoluzione dei problemi ambientali internazionali (effetto serra e assottigliamento dello strato di ozono, cambiamento climatico, salvaguardia della biodiversità), in considerazione della sua posizione di autorità morale, economica e politica. Nel giugno 1991, nel castello di Dobris, nei pressi di Praga, si svolse il primo incontro di tutti i ministri dell’Ambiente d’Europa, che decise la stesura di un inventario completo e paneuropeo dei problemi ambientali e l’avvio del processo di cooperazione “Ambiente per l’Europa” comprendente i paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) e gli Stati che avevano conseguito l’indipendenza con la disgregazione dell’Unione Sovietica. Tra le iniziative della Commissione europea va segnalata la pubblicazione del Libro verde (v. Libri verdi) sull’ambiente urbano (1990), che presentò le azioni necessarie al fine di migliorare la qualità della vita delle città ove risiedeva oltre il 75% della popolazione europea e di promuovere lo sviluppo della cooperazione tra le città per l’attuazione di politiche urbane ecologiche, cooperazione consolidatasi nel 1994 con l’adozione della Carta di Aalborg (Danimarca) per uno sviluppo durevole delle città, sottoscritta inizialmente da un’ottantina di enti locali europei.
Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, all’articolo 2 incluse tra i fini dell’Unione europea (UE) «una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente». Veniva così recepito nell’ordinamento comunitario il principio dello Sviluppo sostenibile, definito ufficialmente per la prima volta a livello internazionale nel 1987 dal Rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo intitolato Our common future (Rapporto Brundtland) come lo sviluppo economico e sociale capace di soddisfare i bisogni presenti senza privare le generazioni future della possibilità di soddisfare i propri. L’intero titolo XVI era riservato all’ambiente e stabiliva pienamente la politica ambientale come politica comunitaria, applicandovi quale regola decisionale generale la maggioranza qualificata, salvo limitate ma rilevanti eccezioni – misure fiscali, assetto territoriale ed energia – che prevedevano il ricorso al voto all’unanimità (v. anche Processo decisionale).
Nuovi sviluppi internazionali ed europei: dalla Conferenza mondiale di Rio de Janeiro al quinto Programma d’azione per l’ambiente
Una nuova strategia di intervento a livello internazionale venne impostata dalla Conferenza mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo di Rio de Janeiro, convocata dalle Nazioni Unite e svoltasi dal 3 al 14 giugno 1992 (Earth summit). La Conferenza approvò il documento noto come Agenda 21, contenente le linee guida per l’adozione di decisioni specifiche a livello locale, la Dichiarazione su ambiente e sviluppo, la Dichiarazione sui principi per la tutela delle foreste, la Convenzione sulla biodiversità (in vigore dal 1993 e poi affiancata dal Protocollo sulla biosicurezza di Cartagena, in vigore dal 2003), la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (in vigore nel 1994 e in applicazione della quale veniva firmato nel 1997 il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore nel 2005), e decise la costituzione di una Commissione mondiale per lo sviluppo sostenibile. Sull’onda di questa tendenza verso un maggior impegno ecologico internazionale l’UE, dopo il fallimento di un ambizioso tentativo di introdurre a livello comunitario una tassa europea sul biossido di carbonio e sull’energia (carbon tax), proposta dal commissario all’ambiente Carlo Ripa di Meana (in carica dal 1989 al 1992 quando si dimise in polemica con le posizioni troppo vicine agli interessi economici assunte dalla Commissione europea al Vertice di Rio e venne sostituito dal greco Ioannis Paleokrassas, commissario fino al 1994), inaugurò il quinto Programma d’azione europeo per uno sviluppo durevole e sostenibile (1993-2000). Volto ad approfondire ed estendere un approccio globale alla prevenzione per garantire un elevato grado di tutela ambientale, il Programma era focalizzato su sei obiettivi fondamentali: l’integrazione della tutela ambientale nelle altre politiche; la condivisione e l’assunzione di responsabilità a diversi livelli (UE, Stati membri, imprese e popolazione); l’ampliamento del potenziale repertorio di strumenti d’azione da promuovere all’interno dei paesi membri (incentivando misure di tipo economico come tasse, imposte, sussidi, accordi volontari, a fianco delle già previste misure legislative e alle sanzioni amministrative); il cambiamento dei modelli di consumo e di produzione; l’applicazione e l’attuazione della già cospicua normativa ambientale dell’UE; infine, la cooperazione internazionale nel quadro delle indicazioni provenienti dall’Agenda 21. L’industria, il settore energetico, l’agricoltura, i trasporti e il turismo risultavano le cinque aree prioritarie nelle quali applicare una nuova strategia integrata d’intervento basata sull’adozione di misure trasversali.
Se quindi da un lato veniva abbandonato il precedente approccio di intervento per categorie di inquinamento, dall’altro erano per la prima volta prese in considerazione questioni ambientali complesse e in parte nuove, come il cambiamento climatico e la tutela della biodiversità, a fianco di azioni incisive per garantire la qualità dell’aria, una corretta gestione delle acque, la vivibilità degli ambienti urbani, la salvaguardia delle zone costiere e il recupero e lo smaltimento dei rifiuti. Era prevista anche la “gestione del rischio” ambientale relativamente ai rischi industriali, alla sicurezza nucleare e alla protezione dall’esposizione radioattiva, alla protezione civile e alla mobilitazione nei confronti delle calamità naturali e dei disastri ambientali. Il principio di precauzione (già enunciato dall’art. 15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro), secondo il quale «dove ci sono minacce di serio ed irreversibile danno, la mancanza di una piena certezza scientifica non deve essere usata come ragione per rinviare l’adozione di misure, i cui risultati sono proporzionati ai costi, atte a prevenire il degrado ambientale», venne esplicitamente inserito all’art. 174, par. 2 del Trattato dell’UE (ora art. 191, par. 2, del TFUE). Tale principio implica che nei casi in cui non sia possibile prendere decisioni sicure sulla base di dati scientifici certi, occorre astenersi da esse. La Commissione individuava altresì cinque criteri generali per l’applicazione del principio di precauzione: la proporzionalità delle misure al livello di protezione richiesto; la non discriminazione per situazioni uguali o simili; la coerenza con altre misure prese in situazioni equivalenti; l’esame dei benefici e dei costi derivanti dall’azione o dall’inazione; l’esame dell’evoluzione scientifica (comunicazione 1/2000). Il principio di precauzione nel diritto comunitario si configura, secondo la pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee del 10 dicembre 2002 (causa C-153 del 2001, The Queen c. Secretary of State for health, ex parte British American Tabacco – Investments) come un «principio generale del diritto comunitario che obbliga le autorità competenti ad adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici».
Diretto ispiratore del quinto Programma era stato il Libro bianco (v. Libri bianchi) della Commissione europea Crescita, competitività e occupazione (1993), nel quale era esposto un nuovo orientamento politico a sostegno dell’occupazione che introduceva le politiche ambientali come una delle nuove frontiere del lavoro e dell’innovazione, incentivando la diminuzione dei consumi energetici e la contemporanea allocazione delle risorse in base ai bisogni nonché, dove era previsto, a tassazione invariata, lo spostamento del prelievo fiscale dal lavoro al consumo delle risorse energetiche e ambientali, nell’intento di conseguire contemporaneamente il duplice obiettivo (“doppio dividendo”) di diminuire il costo del lavoro rilanciando l’occupazione e di limitare gli sprechi e l’uso di risorse naturali non rinnovabili nelle attività produttive. Al fine di coordinare l’attività della Commissione europea con quella degli Stati membri dell’UE in materia di politiche ambientali era stata istituita, nel 1992, una rete informale dei ministri dell’Ambiente dei paesi membri denominata Implementation and enforcement of EU environmental law (IMPEL).
Un’UE più “verde”: nuovi attori e strumenti per la politica ambientale e l’integrazione con le altre politiche comunitarie
L’ingresso nell’UE di Austria, Finlandia e Svezia nel 1995 (anno in cui divenne commissario dell’ambiente la danese Ritt Bjerregaard, esponente di un paese particolarmente sensibile alle tematiche ecologiche) contribuiva al rafforzamento della politica ambientale comunitaria, favorendo l’adozione di misure più severe in linea con quelle già presenti in questi paesi. Diverse iniziative comunitarie erano peraltro già state avviate nella prima metà degli anni Novanta. Così nel marzo 1992 veniva inaugurato il marchio ecologico Ecolabel per alcune categorie di prodotti e servizi, da allora accessibile a industrie, imprese e società che si sottopongano volontariamente a una certificazione ambientale tesa a verificare il rispetto di parametri ecologici in tutto il ciclo di vita del prodotto o del servizio (bassi livelli di inquinamento idrico e di emissione di gas a effetto serra in atmosfera, consumo limitato di energia elettrica ecc.). Inoltre, nel maggio 1992, veniva creato il Programma comunitario L’Instrument Financier pour l’Environnement (LIFE), l’unico esclusivamente preposto al cofinanziamento di progetti ambientali presentati da enti pubblici e privati. Obiettivi del Programma erano la conservazione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatiche di particolare interesse per l’UE (LIFE Natura), la promozione di azioni innovative e dimostrative fondate sulla collaborazione fra industria e comunità locali, finalizzate alla riduzione dell’impatto ambientale dei processi produttivi e a stimolare un intervento ecologico e di pianificazione degli enti pubblici, anche mediante l’introduzione di una contabilità ambientale (LIFE Ambiente), il sostegno della cooperazione ambientale con i paesi confinanti e lo sviluppo di capacità amministrative, di strutture di gestione e di azioni dimostrative soprattutto nell’area mediterranea e baltica (LIFE Paesi terzi). Dopo tre fasi di implementazione – LIFE I (1992-1995), LIFE II (1996-1999), LIFE III (2000-2004 ed esteso fino al 2006) – il Programma veniva sostituito, per il periodo 2007-2013, da LIFE Plus, strumento finanziario per l’ambiente (introdotto dal regolamento 614/2007 che accorpa i precedenti programma LIFE, Forest Focus, sviluppo urbano sostenibile e sostegno alle ONG ambientali), diviso in tre settori (Natura e biodiversità, destinatario di almeno la metà delle risorse per progetti europei, Politica ambientale e governance, Informazione e comunicazione), dotato di un fondo di circa un miliardo e novecento milioni di euro e ripartito annualmente tra gli Stati membri (in misura del 78% agli Stati membri) e la Commissione europea (il restante 22%) per finanziare organizzazioni non governative dedite ad attività nel settore ambientale (almeno il 15% rivolto a progetti transnazionali).
Nel 1994 diventava operativa l’Agenzia europea dell’ambiente (European environment agency, EEA), con sede a Copenaghen dal 1993 e già prevista da un regolamento del 1990. Si tratta di un’agenzia di informazione priva di poteri decisionali e di controllo sulla politica ambientale comunitaria, alla quale aderiscono oltre ai paesi dell’UE anche Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera e Turchia, incaricata di raccogliere, analizzare ed elaborare dati ambientali, fornire informazioni, studi, misurazioni e controlli agli Stati e a paesi terzi e responsabile della Rete europea d’informazione e di osservazione in materia ambientale European environment information and observation network (EIONET). Nell’aprile 1995 è entrato in vigore il regolamento istitutivo del sistema comunitario di ecogestione e audit Environmental management and audit system regulation (EMAS) che prevede, su base volontaria e previa sottoposizione a controllo da parte di un soggetto indipendente, la certificazione ambientale delle procedure di gestione per le imprese, estesa nel 2001 dal nuovo regolamento EMAS 2 anche a piccole e medie aziende, aziende di distribuzione di energia elettrica, gas, acqua, trasporti, consorzi per la raccolta e smaltimento dei rifiuti, supermercati, banche, assicurazioni.
Con lo sviluppo delle relazioni esterne dell’UE sono stati varati programmi e interventi in campo ambientale. Tra questi, in particolare, il Programma di azioni prioritarie a breve e a medio termine per l’ambiente del Mediterraneo (Short and medium-term priority environmental action programme, SMAP), approvato nel 1997 nell’ambito del Partenariato euromediterraneo inaugurato dal Processo di Barcellona che prevede dal 2005 il Programma orizzonte 2020 contro l’inquinamento marino e costiero e per la cooperazione e la ricerca interistituzionale, nonché il coinvolgimento di soggetti privati e della società civile; il Centro regionale per l’ambiente dell’Europa centrale ed orientale, costituito nel 1990 come organizzazione non governativa su iniziativa di Stati Uniti, UE e Ungheria per affrontare i problemi ecologici degli ex Stati comunisti; lo strumento di preadesione Instrument for structural policies for pre-accesion (ISPA), volto a finanziare progetti riguardanti la protezione dell’ambiente e i trasporti, aggiuntosi alle misure già previste nel programma Poland and Hungary aid for the reconstruction of the economy (PHARE) (v. Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale) per assistere i dieci paesi candidati nel processo di Allargamento dell’UE a venticinque membri attuatosi nel 2004.
Nel Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, in vigore dal 1° maggio 1999, il principio dell’integrazione della politica ambientale in tutti i settori, prima previsto all’art. 130 R nella parte dedicata all’ambiente, veniva inserito tra le disposizioni generali (art. 6), mentre l’art. 95 (ora art. 114, par. 4 TFUE) era garante della salvaguardia di leggi e disposizioni nazionali più rispettose dell’ambiente, precedenti o successive a misure di armonizzazione comunitaria, purché non lesive nei confronti degli altri Stati e sottoposte al vaglio della Commissione. Gli artt. 174-176 del Titolo XIX dedicato all’ambiente definivano i principi comunitari già enunciati, gli elementi di valutazione (dati scientifici e tecnici disponibili, condizioni ambientali regionali, vantaggi e oneri derivanti da azione o inazione, sviluppo socioeconomico complessivo comunitario, sviluppo equilibrato delle regioni europee), le modalità di attuazione e le procedure (semplificate a due, con l’estensione della Codecisione a tutte le materie, salvo il mantenimento dell’unanimità per l’approvazione di disposizioni in tema di tributi, di assetto territoriale e di approvvigionamento energetico e con l’inclusione nel processo decisionale, nella fase consultiva, del Comitato delle regioni, insieme al già previsto Comitato economico e sociale). Il Trattato individuava i seguenti obiettivi della politica dell’UE in campo ambientale per ottenere «un elevato livello di tutela»: salvaguardia, difesa e miglioramento dell’ambiente; protezione della salute umana; utilizzo moderato e razionale delle risorse naturali (analisi del rapporto costi-benefici e valutazioni di ecoefficienza nelle attività produttive); promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi ambientali regionali e mondiali.
Il Consiglio dei ministri sull’ambiente di Cardiff, riunitosi nel giugno 1998 su invito del Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997, valutò le proposte della Commissione per procedere all’attuazione di una strategia d’integrazione delle politiche ambientali nelle politiche comunitarie in applicazione dell’art. 6 del Trattato dell’UE, individuando un programma di scadenze e azioni che portò all’adozione di strategie in diversi settori (trasporti, agricoltura, energia, mercato interno, sviluppo, pesca, affari generali e questioni economiche e finanziarie).
L’ultimo decennio: il sesto Programma d’azione per l’ambiente e le sfide globali
La prospettiva della tutela ambientale assumeva carattere costituzionale nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ufficialmente recepita al Consiglio europeo di Nizza (dicembre 2000) dai paesi membri. Nel Preambolo della Carta, infatti, tra gli obiettivi comunitari veniva ribadito quello di «promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile» e, all’art. 37, si affermava che «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».
Il Trattato di Nizza del dicembre 2000, entrato in vigore dal 1° febbraio 2003, apportava soltanto piccole modifiche nella parte dedicata alla politica dell’ambiente (Titolo XIX), tra le quali va segnalata la previsione del voto all’unanimità per quelle misure in grado di incidere in modo rilevante sulla gestione delle risorse idriche e di interferire sulla loro disponibilità (art. 175), voluta dal Portogallo, paese dipendente per l’approvvigionamento idrico da corsi d’acqua provenienti dal territorio spagnolo.
Il sesto Programma d’azione comunitario per l’ambiente “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” (2001-2010), approvato nel 2002, individuava quali questioni prioritarie il cambiamento climatico, la protezione della natura e della biodiversità, la salute e la qualità della vita, la gestione delle risorse naturali e dei rifiuti, introducendo nuove modalità di intervento (partnership con enti locali, realtà economiche e sociali, incentivazione economica dei comportamenti ecologicamente sostenibili, diffusione di informazioni sui buoni risultati raggiunti e delle migliori pratiche ambientali).
Nel giugno 2001 il Consiglio europeo di Göteborg approvava una Strategia europea per lo sviluppo sostenibile (aggiornata annualmente ad opera del Consiglio primaverile dei ministri sull’ambiente), la quale inseriva la dimensione ambientale, accanto a quelle economica e sociale nella Strategia di Lisbona, allo scopo di perseguire «una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» e di affrontare in maniera coordinata le politiche economiche mediante la coerenza tra le politiche comunitarie, l’individuazione di prezzi congrui per segnalare l’impatto ambientale ai cittadini e alle imprese, l’investimento nella ricerca scientifica e tecnologica, il miglioramento della comunicazione ambientale e la mobilitazione di cittadini e imprenditori, il partenariato globale tra istituzioni e diversi attori sociali.
L’UE ha anche sottoscritto la Convenzione di Aarhus (Danimarca) sull’accesso all’informazione, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, adottata nel 1998 e in vigore dal 2001. Un controllo sistematico sulla pianificazione e programmazione ambientale comunitaria è l’obiettivo della Valutazione ambientale strategica (VAS), introdotta con la dir. CE 42/2001, inserita soprattutto nella gestione dei fondi strutturali dell’UE e nella verifica dell’ecocompatibilità delle grandi opere.
In occasione del Vertice mondiale sull’ambiente delle Nazioni Unite di Johannesburg (26 agosto-4 settembre 2002) che ha prodotto scarsi risultati a livello internazionale, l’UE ha dimostrato la statura di leader tra le organizzazioni internazionali regionali più attive in campo ambientale. Molto tuttavia deve ancora essere fatto per riuscire a prevenire disastri e situazioni di degrado e per applicare complessivamente alle politiche comunitarie il principio di precauzione, poiché persistono ancora ampi settori privi di adeguati controlli e valutazioni ambientali. Il bilancio complessivo di un trentennio di politiche ambientali comunitarie porta a riscontrare alcuni miglioramenti e numerosi punti critici. Tra i successi conseguiti, in base ai dati ufficiali forniti dall’Agenzia europea dell’ambiente, è possibile costatare miglioramenti per quanto concerne la diminuzione delle piogge acide, grazie alla riduzione delle emissioni di anidride solforosa, dell’inquinamento atmosferico dovuto al mercurio e al piombo e del trattamento delle acque reflue. Anche l’uso di vari pesticidi e prodotti chimici pericolosi è diminuito notevolmente, ma è aumentata la produzione complessiva dei rifiuti industriali e domestici e degli imballaggi e si sono aggravate le minacce e le perdite di patrimonio naturale e della biodiversità, nonostante la Direttiva habitat e l’avvio della costituzione di una rete europea di siti ecologici soggetti a una protezione speciale e rigorosa denominata Natura 2000 (riguardante circa il 18% del territorio dell’UE) e il piano d’azione stabilito nel 2006 dalla Commissione europea con la comunicazione “Arrestare la perdita di biodiversità entro il 2010. Sostenere i servizi ecosistemici per il benessere umano”. Con la revisione della Politica agricola comune (PAC) sono stati parzialmente modificati i meccanismi di finanziamento: il sostegno al reddito non è più legato al volume della produzione, ma è soggetto alla “condizionalità”, cioè al rispetto di requisiti minimi di protezione ambientale e di buone pratiche, premiando chi migliora ulteriormente prodotti e attività rispetto agli standard ecologici richiesti, e di direttive comunitarie quale quella sul benessere animale negli allevamenti (dir. CE 58/1998). Inoltre, l’UE ha predisposto un piano d’azione europeo per lo sviluppo dell’agricoltura e per gli alimenti biologici. Per evidenziare l’accentuato impegno ambientale in questo ambito va rilevato che il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) del 2009 prevede che il 43% del finanziamento complessivo del Fondo per lo sviluppo rurale (v. Politica di sviluppo rurale) sia destinato alla gestione sostenibile del territorio e delle foreste (per le quali è la Commissione ha definito un piano d’azione di tutela per il periodo 2007-2011 riguardante il 38% della loro estensione).
Un altro problema aggravatosi fortemente, segnalato dallo studio annuale “Segnali ambientali in Europa” dell’Agenzia europea per l’ambiente è quello della crescita dei trasporti, con gravi ripercussioni ambientali ed energetiche. Nuovi rischi ambientali possono essere costituiti dall’introduzione di potenziali elementi di perturbazione nell’ambiente quali gli organismi geneticamente modificati (OGM), oggetto di una direttiva comunitaria (dir. CE 18/2001 che stabilisce i requisiti per l’autorizzazione all’emissione deliberata di OGM nell’ambiente), sottoposti a moratoria nell’UE. Nel marzo 2006, peraltro, la Commissione europea ha autorizzato per la prima volta la commercializzazione di un OGM (il granturco geneticamente modificato tipo 1507), basandosi sul parere favorevole espresso dall’Autorità europea di sicurezza degli alimenti (EFSA) e ai sensi del regolamento riguardante i generi alimentari e gli alimenti geneticamente modificati per animali (reg. CE 1829/2003) che impone per tutti questi prodotti l’etichettatura e la rintracciabilità delle fasi di formazione. Infine, il numero di sostanze chimiche immesse negli ecosistemi continua ad aumentare, senza che si conoscano con precisione i loro effetti sulla flora, sulla fauna e sull’uomo. Nel dicembre 2006, dopo nove anni di dibattito, il PE e il Consiglio dei ministri hanno varato una nuova direttiva sulle sostanze chimiche che prevede la nascita di un sistema di registrazione, valutazione e autorizzazione di queste sostanze, denominato Registration, evaluation and authorisation of chemicals (REACH), entrato in vigore dal giugno 2007 e a pieno regime dal 2018. Basato su una banca dati gestita da un’Agenzia europea delle sostanze chimiche, con sede a Helsinki e costituita nel 2008, il REACH è frutto di un compromesso (contestato dalle dieci principali organizzazioni e reti ecologiste e ambientaliste, riunite nel coordinamento Green 10, dopo una dura battaglia ingaggiata contro le lobby dell’industria chimica) il quale, se da un lato rende obbligatoria la sostituzione delle sostanze chimiche persistenti nell’ambiente e garantisce una maggiore trasparenza nelle informazioni su quelle contenute nei prodotti destinati ai consumatori, dall’altro non stabilisce controlli adeguati sulla sicurezza di sostanze importate in quantitativi ridotti o cancerogene o potenzialmente responsabili di malformazioni nell’uomo.
Tra le più recenti iniziative si segnala la direttiva 35/2004 del PE e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, la cui adozione è avvenuta nell’aprile 2007 (con modifiche sopraggiunte con l’approvazione della direttiva 21/2006 riguardante la gestione dei rifiuti delle industrie estrattive) che qualifica il danno ambientale sia il «danno alle specie e agli habitat naturali protetti», che quello provocato alle acque e al terreno e stabilisce che l’operatore deve sostenere i costi di prevenzione e riparazione del danno ambientale, indipendentemente da quali persone fisiche o giuridiche siano legittimate ad agire in presenza del danno o di una minaccia imminente di danno. Tale direttiva applica anche il principio generale secondo il quale la mancata attuazione di una direttiva fa sorgere per lo Stato membro reo di omissione l’obbligo del risarcimento dei danni che ne siano derivati ai singoli individui (sentenza Francovich C6/90 del 1991). Con il Piano d’azione “Ambiente e salute 2004-2010” l’UE ha intenzione di favorire un maggior collegamento tra le politiche in materia di salute e quelle ambientali e della ricerca. Inoltre, la Commissione europea ha deciso di sviluppare, con un approccio globale, sette strategie tematiche riguardanti l’inquinamento atmosferico, l’ambiente marino (con l’obiettivo di garantire una buona condizione biologica delle acque europee entro il 2021), l’uso sostenibile delle risorse, la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, l’ambiente urbano, il suolo e i pesticidi.
Nel Trattato che adotta una Costituzione europea, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, lo sviluppo sostenibile dell’Europa «basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. I-3, par. 3), formulazione ripresa integralmente anche nel Trattato di Lisbona elaborato dopo la mancata ratifica di quest’ultimo (art. art 2, par. 3) ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009. L’ambiente viene confermato come uno dei settori di competenza concorrente, risultando invece di competenza esclusiva la «conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca» sia nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (art. I-13, par. 1, lett. d), che nel Trattato di Lisbona (Titolo I, art. 2 B, lett. d). Diversi altre indicazioni sulla tutela ambientale sono comuni ai due Trattati, sia riguardo alla sua integrazione nelle altre politiche (art. 11 del TFUE), sia per quanto concerne la scelta di tenere conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e i patrimoni regionali, in diverse politiche comunitaria. Nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa alla politica dell’ambiente erano riservati esplicitamente gli artt. III-233 (obiettivi coincidenti con quelli già indicati nel Trattato di Amsterdam, Clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri «a prevedere, per motivi ambientali di natura non economica, disposizioni provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell’Unione», cooperazione internazionale ambientale dell’UE e degli Stati membri con paesi terzi e organizzazioni internazionali competenti senza pregiudicare «la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali») e III-234 (nuovi strumenti giuridici per definire le azioni volte a realizzare gli obiettivi della politica ambientale – la legge europea, corrispondente al regolamento comunitario, e la legge quadro europea, equivalente alla precedente direttiva comunitaria, adottati previa consultazione del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale, finanziamento ed esecuzione della politica ambientale da parte degli Stati membri salvo misure prese dall’UE, possibilità di deroghe temporanee o sostegno del Fondo di coesione per misure implicanti costi sproporzionati per uno Stato membro, possibilità per i singoli Stati membri di «prendere misure per una protezione ambientale ancora maggiore»). Alcune di queste previsioni legate alla previsione alla semplificazione delle norme giuridiche (legge europea, ecc.) non sono stati recepiti nel Trattato di Lisbona, dopo la mancata ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Tuttavia la sostanza delle indicazioni ivi contenute si ritrovano nel Trattato di Lisbona, il quale, complessivamente, tiene conto degli sviluppi della politica ambientale già avvenuti nella prassi e al Titolo XX “Ambiente” del TFUE (artt. 191, 192, 193) e ribadisce l’obiettivo di contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici a livello internazionale. Inoltre, il Titolo XXI è dedicato alla nuova politica energetica dell’UE, prevista sia al fine di fronteggiare la necessità di garantire gli approvvigionamenti, il funzionamento del mercato interno e l’interconnessione delle reti, che allo scopo di preservare e migliorare l’ambiente e di perseguire il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili (art. 194 TFUE).
L’UE, ratificando il Protocollo di Kyoto nel 2002, entrato in vigore il 16 febbraio 2005, ha assunto un impegno rilevante e ambizioso in merito alla riduzione delle emissioni di gas serra: diminuzione dell’8% delle emissioni entro il 2008-2012 nell’UE rispetto alle emissioni del 1990, a fronte di un impegno medio complessivo del 5,2%, con l’esenzione di alcuni paesi dalla riduzione e con l’introduzione di meccanismi flessibili per favorire l’abbattimento delle emissioni, come ad esempio la joint implementation (finanziamenti rivolti da Stati verso altri paesi per consentire il raggiungimento degli obiettivi), il clean development mechanism (finanziamento di progetti di riduzione in paesi in via di sviluppo), l’emission trading (trasferimento di unità di emissione da un paese all’altro). Tuttavia, mentre alcuni Stati avanzano verso quest’obiettivo, altri hanno visto aggravarsi l’inquinamento prodotto da questi fattori. Al fine di affrontare questa problematica, ma anche per ridurre la dipendenza energetica dai combustibili fossili importati, l’UE ha varato un Programma europeo sul cambiamento climatico, e a partire dal 1° gennaio 2005 tutti i governi dell’UE hanno stabilito un limite massimo per le emissioni di biossido di carbonio delle loro industrie. Le imprese che producono emissioni superiori alla soglia autorizzata dovranno, per compensare la situazione, acquistarne quote da imprese che sono riuscite a ridurne i propri livelli, nell’ambito del nuovo sistema europeo di scambio delle quote di emissione di biossido di carbonio (dir. CE 87/2003 del PE e del Consiglio dei ministri, mentre la dir. CE 101/2004 ha consentito il riconoscimento di crediti a vantaggio di imprese impegnate in progetti di riduzioni di emissioni in altri paesi convertendoli in quote da utilizzare nel sistema di scambio comunitario). In attesa di un nuovo accordo globale sul clima per il periodo posteriore al 2012, che preveda la partecipazione al Protocollo di Kyoto di ulteriori paesi industrializzati e in via di sviluppo l’UE, dichiaratasi favorevole ad una diminuzione planetaria delle emissioni del 30% entro il 2020, è attiva nello sviluppo e nella diffusione di tecnologie a basse emissioni inquinanti (con il ricorso a fonti energetiche rinnovabili e all’efficienza energetica, temi già considerati in alcuni precedenti programmi comunitari come ALTENER e SAVE), di tecnologie ambientali (per le quali è stato varato dalla Commissione europea nel 2004 uno specifico piano d’azione, ETAP, volto all’incremento della ricerca, all’introduzione delle ecotecnologie nel mercato e alla loro diffusione nei paesi in via di sviluppo) e di strumenti di mercato flessibili. Al vertice di primavera dell’8-9 marzo 2007 il Consiglio europeo ha altresì deciso di perseguire una politica integrata riguardante l’energia e il cambiamento climatico assumendo l’impegno unilaterale di ridurre entro il 2020 le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 20% rispetto ai livelli del 1990, con la volontà di estendere il sistema comunitario di riduzione dei gas serra ai settori del trasporto aereo, del trasporto marittimo e della silvicoltura e ad altre tipologie di gas (in particolare gli ossidi d’azoto). Per raggiungere questo traguardo l’UE ha stabilito un insieme di obiettivi da raggiungere entro il 2020 (denominato “pacchetto energia”): migliorare l’efficienza energetica con una riduzione del 20% rispetto alle previsioni stabilite; aumentare la quota di energie rinnovabili rispetto al consumo energetico complessivo del 20%, quasi triplicando in questo modo il ricorso a queste fonti; raggiungere la quota di almeno il 10% di carburanti rinnovabili (inclusi i biocarburanti purché prodotti in maniera ecosostenibile e con incentivi per quelli ricavati da rifiuti, residui e fonti non alimentari) sul consumo totale di benzina e gasolio (circa dieci volte la situazione attuale); sviluppare e diffondere tecnologie a bassa emissione o a emissione zero tra le quali la cattura e lo stoccaggio del carbonio nel sottosuolo; integrare i mercati energetici dell’UE (in particolare nei settori del gas e dell’elettricità) garantendo la concorrenza; integrare la nascente politica energetica con altre azioni presenti nella politica ambientale e in le altre politiche (Politica della ricerca scientifica e tecnologica, agricoltura, Politica commerciale comune, trasporti ecc.); rafforzare la cooperazione internazionale.
Nonostante il suo ruolo di attore globale nella politica ambientale, l’UE fatica a impostare quel “cambiamento di rotta” urgente per alleviare i problemi ambientali che dovrebbe prevedere una ridefinizione dei processi economici e finanziari internazionali e istituzioni e politiche globali per affrontare le principali emergenze ecologiche. Dopo la prima metà degli anni Novanta, la Commissione europea ha fatto ricorso alla concertazione e alla mediazione con altri soggetti istituzionali e con le lobby economiche per sviluppare la propria politica ambientale, dovendo rinunciare a innovazioni radicali. La Direzione generale (DG) dell’Ambiente, con sede a Bruxelles (a esclusione dell’unità competente della radioprotezione che è ubicata a Lussemburgo) svolge un ruolo centrale nell’articolazione e nella gestione della politica ambientale comunitaria, occupandosi di numerose aree tematiche (aria, biotecnologie, sostanze chimiche, protezione civile e incidenti ambientali, cambiamento climatico, economia ambientale, allargamento europeo e ambiente, salute, industria, questioni internazionali, uso del territorio, natura e biodiversità, rumore, suolo, sviluppo sostenibile, rifiuti, acqua) mentre altre DG (DG Energia e trasporti, DG Agricoltura, DG Ricerca, ecc.) svolgono un ruolo significativo in specifici ambiti, entrando talvolta in competizione o in contrasto con essa. A fronte quindi degli sforzi e dei risultati ottenuti nell’integrazione ecologica orizzontale delle diverse politiche comunitarie, nello sviluppo di programmi e azioni e nell’impulso dato all’informazione ai cittadini proseguiti e intensificatisi con la commissaria all’ambiente svedese Margot Wallström (1999-2004) e i commissari che le sono succeduti – il greco Stavros Dimas (2004-2010) e lo sloveno Janez Potočnik (2010) –, permangono alcune evidenti debolezze strutturali. L’esclusione dal metodo comunitario e dal voto a maggioranza di alcuni settori di importanza fondamentale per incidere sulle scelte economiche e politiche degli Stati impedisce la realizzazione di una vera politica ambientale comune coordinata e flessibile, necessaria affinché l’UE adotti un approccio olistico e coerente per favorire un nuovo sistema di relazioni economiche e sociali compatibili con la protezione dell’ambiente e la redistribuzione delle risorse. Anche in considerazione di questi limiti della politica ambientale comunitaria, si ripropone come ineludibile e di fondamentale importanza l’attuazione di riforme istituzionali capaci di conferire all’UE una più definita, netta e univoca identità a livello internazionale per contribuire a un governo globale ambientale. La profonda diversità di vedute tra l’UE, promotrice del multilateralismo per lo sviluppo di una politica ambientale globale nelle sedi internazionali, e gli Stati Uniti, che si sono rifiutati di aderire agli impegni internazionali per la riduzione dell’inquinamento responsabile dell’effetto serra non ratificando il Protocollo di Kyoto e impedendone l’attuazione, ha reso difficile il progresso verso un’azione internazionale condivisa e costruttiva, soprattutto durante la presidenza di George Bush jr. Con l’arrivo alla Casa Bianca del democratico Barack Obama la situazione è soltanto parzialmente mutata mentre l’UE, in assenza ancora di un accordo globale per ridurre le emissioni di gas serra, ha confermato l’intenzione di ottenere traguardi ambiziosi e la volontà di agire concretamente in questa direzione. A tale scopo la nuova Commissione europea (Barroso II), in carica dal 2010, ha incluso per la prima volta anche una commissaria con delega all’azione per il clima, la danese Connie Hedegaard.
Giorgio Grimaldi (2010)