Politica dell’Unione europea nei Balcani
Gli effetti sull’Unione europea delle guerre di secessione/successione della ex Iugoslavia
I recenti conflitti di successione/secessione della ex Iugoslavia hanno influito sul processo di integrazione politica dell’Unione europea (UE) in due modi. Il primo negativo, poiché i limiti della sua autonomia strategica sono apparsi evidenti e hanno aumentato la sua dipendenza dagli USA. Il secondo positivo, poiché, per reazione, ne hanno stimolato l’integrazione nei settori della Politica estera e di sicurezza comune e in quella della Politica europea di sicurezza e difesa.
Dopo avere tentato invano di mantenere l’unità della Federazione o, quanto meno, di assicurare una pacifica indipendenza delle sue repubbliche, l’UE non è riuscita né a prevenire né a risolvere i conflitti balcanici. Anzi, li ha spesso inaspriti, per le divergenze fra i vari Stati e per le indecisioni e contraddizioni a livello comunitario. Dopo la fine dei conflitti in Bosnia e in Kosovo, la comunità internazionale, e l’Europa in particolare, hanno dovuto effettuare difficili scelte sulle politiche da seguire per trasformare la pacificazione in stabilizzazione e questa in integrazione nell’UE. Esse sono consistite nello stimolo – e spesso nell’imposizione – di riforme istituzionali, economiche, sociali ed etico-politiche, che allineassero i Balcani agli standard europei. Ciò anche per evitare il rischio che se non fossero europeizzati, i Balcani “balcanizzerebbero” l’Europa.
Le riforme si sono rivelate di molta più difficile attuazione di quanto si pensasse. Da un lato, perché gli odi etnici e la volontà di vendetta permangono. Poi, perché i loro costi vanno sopportati nel breve periodo, mentre i benefici sono solo a lungo termine. Infine, perché esse comportano la riduzione del potere dei gruppi etno-nazionalisti – spesso legati alla criminalità e all’economia informale – che avevano provocato i conflitti e che sono tuttora al potere quasi ovunque. Per realizzare le riforme non sono stati sufficienti i generosi aiuti per la ricostruzione. Sono state necessarie forti pressioni, l’introduzione di condizionalità e anche l’istituzione di semiprotettorati in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo.
Oltre che le “pressioni dall’alto” esercitate dalla comunità internazionale, per tutte le iniziative riformatrici è stata però determinante – come già nell’Europa centro orientale – anche la “spinta dal basso” dell’attrazione dell’UE e della speranza di tutte le popolazioni balcaniche di entrarvi. All’inizio, esse erano convinte di avervi un diritto quasi naturale. Molto presto, però, si sono rese conto che l’entrata nell’UE era subordinata a profonde riforme. Ciò ha attenuato il loro entusiasmo. Le condizionalità imposte per l’attuazione dei “criteri di Copenaghen” (v. Criteri di adesione) sono state integrate da pesanti obbligazioni: per la Bosnia, negli Accordi di Dayton; per il Kosovo, nella Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza; per la Macedonia, negli Accordi di Ohrid. Tutti i paesi dovevano poi collaborare con il Tribunale internazionale dell’Aia, consegnando componenti delle classi dirigenti ancora al potere nei vari paesi, spesso considerati eroi dai loro concittadini. Ciò ha reso ancora più difficili stabilizzazione e riforme.
Progressivamente, le funzioni e le responsabilità dell’UE si sono estese alla sicurezza militare e interna, nonché alla ricostruzione istituzionale, economica e sociale. Tuttavia, nello stesso periodo, la sua attenzione, sforzi e risorse sono state assorbiti da altre regioni ed emergenze. Gli aiuti europei si sono ridotti e hanno assunto la forma di prestiti, anziché di donazioni. La crisi dell’UE – causata dagli esiti negativi dei referendum francese e olandese sul Trattato costituzionale europeo (v. Costituzione europea) – si è aggiunta alla “fatica da Allargamento” a ben dodici nuovi membri. I Balcani occidentali sono così un’enclave nell’UE, ma le loro prospettive di accedervi sono diminuite. Anche l’opposizione all’accesso della Turchia si è ripercossa negativamente.
Tale situazione è stata illustrata con preoccupazione nel Rapporto del 2005 della Commissione internazionale “I Balcani nel futuro dell’Europa”. Esso sottolinea che la geopolitica della regione non si è ancora assestata. In Bosnia, Kosovo e Macedonia si potrebbero verificare nuovi conflitti. Il rinvio dell’accesso all’UE sta rallentando la stabilizzazione, screditando le élites democratiche e aumentando la resistenza opposta a qualsiasi riforma. Esiste quindi il rischio che i Balcani si trasformino in “buchi neri”, divenendo basi della criminalità e del terrorismo internazionali. Per evitarne il contagio, l’Europa potrebbe essere costretta a mantenere gli attuali onerosi semiprotettorati, i cui costi sarebbero proibitivi. Non è poi detto che i contribuenti europei siano disposti a sopportarli.
Secondo la Commissione internazionale, molte difficoltà potrebbero essere superate fissando una data precisa per l’ammissione dei paesi che abbiano raggiunto gli standard fissati dall’UE. Essa potrebbe essere il 2014, un secolo dopo l’attentato di Sarajevo. Beninteso, tale data avrebbe un forte significato simbolico, e i simboli sono molto importanti nei Balcani. Si rafforzerebbero così le forze democratiche, diminuirebbe il crescente scetticismo sugli obiettivi reali dell’UE e si faciliterebbe il processo riformatore.
I dilemmi della politica europea per la pacificazione e l’integrazione dei Balcani occidentali
Nei Balcani occidentali sono esistiti dal XIX secolo due poli di conflittualità. A nord, quello fra la Croazia e la Serbia per la leadership regionale, per la divisione della Bosnia fra Zagabria e Belgrado e per l’autonomia delle minoranze serbe in Croazia. A sud, quello derivante dalla presenza di consistenti popolazioni albanesi in Kosovo e in Macedonia. La presenza delle minoranze ha dato sempre luogo – in assenza di un forte potere centrale in grado di imporne la tutela – a tentativi secessionisti delle minoranze per andare a far parte degli Stati in cui la loro etnia è maggioritaria. Si formerebbero così una Grande Serbia, una Grande Croazia e una Grande Albania. Ma la penisola balcanica è troppo piccola per contenerle tutte. Le strutture comunitarie dell’Impero ottomano – cioè il sistema del millet, che prevedeva la coesistenza di più ordinamenti giuridici sullo stesso territorio, e le prassi consuetudinarie di “buon vicinato” o komšiluk – sono scomparse a seguito delle guerre che per un secolo hanno insanguinato la regione. La tragedia dei Balcani è che le nazioni hanno preceduto gli Stati e prevale una loro concezione di tipo tedesco – basata cioè sul “diritto di sangue” – mentre quella statuale – di uno Stato, cioè, centralizzato e tendente a far prevalere i diritti della maggioranza su quelli delle minoranze – è di tipo francese. I Balcani si trovano nella situazione dell’Europa prima delle guerre di religione. Il mosaico etnico in essi esistente è sopravvissuto per la moderazione e la tolleranza dell’Impero ottomano, proprio quando nel resto dell’Europa si verificava un’omogeneizzazione forzata dei vari Stati, con pulizie etniche e religiose analoghe a quelle che si sono verificate nella penisola negli anni Novanta.
La prima scelta che ha dovuto fare l’Europa per la pacificazione, la stabilizzazione e la successiva integrazione dei Balcani è stata fra il mantenimento di Stati plurietnici, oppure monoetnici, facendo corrispondere i confini a quelli fra le etnie e procedendo anche, se necessario, a incentivare l’esodo delle minoranze restanti, completando così la pulizia etnica attuata durante i conflitti. Gli USA e l’UE hanno optato per la prima soluzione, quella cioè di mantenere anche con la forza il carattere plurietnico degli Stati; anzi, di ricostruirlo con il ritorno dei rifugiati, cacciati o fuggiti dalle loro case. Tale decisione, in sé nobile e condivisibile, ha accresciuto le difficoltà della stabilizzazione. Infatti, gli sforzi europei vengono contrastati dai partiti etnici, che continuano a vincere le elezioni un po’ ovunque. Essi boicottano l’adozione delle riforme che riducono il loro controllo sul territorio e la popolazione.
Il secondo dilemma riguarda i criteri da adottare per l’integrazione dei Balcani. Taluni hanno sostenuto che quella “orizzontale”, cioè regionale, dovesse precedere l’integrazione “verticale” in Europa. Tale tesi è stata contrastata, soprattutto in Croazia, da chi temeva la ricostituzione surrettizia di una nuova federazione, l’“Euroslavia”, dominata dai serbi o, quanto meno, di vedere ritardata la sua ammissione all’UE. Altri hanno affermato che l’integrazione “verticale” in Europa, “Stato per Stato” dovesse precedere quella regionale. Secondo tale prospettiva, l’integrazione “orizzontale” sarebbe impossibile a causa dei ricordi dei recenti conflitti. Inoltre, essa avrebbe accelerato le riforme e anche determinato una specie di “gara” fra i vari Stati per entrare per primi in Europa. Tra le due soluzioni l’UE non ha mai effettuato una scelta precisa. Consiglio europeo, Consiglio dei ministri, Commissione europea e Parlamento europeo, nonché i singoli Stati dell’Unione, non hanno seguito al riguardo politiche né comuni né costanti nel tempo, e si sono spesso neutralizzati l’un l’altro. Le contraddizioni hanno determinato scetticismo e perdita di credibilità dell’Europa. Esse sono derivate per la gran parte dal “peso della storia”. Si erano verificate già nel 1991, con il riconoscimento unilaterale da parte della Germania dell’indipendenza croata e slovena, e hanno anche caratterizzato i vari piani di pace in Bosnia. Da un lato, questi ne intendevano mantenere l’unità; dall’altro, attraverso la “cantonizzazione”, ne prevedevano una divisione su base etnica che ne rende ancor oggi impraticabile l’unità. L’UE ha dimostrato tutta la sua inconsistenza nell’incapacità di difendere la Bosnia-Erzegovina, nascondendosi prima dietro la “foglia di fico” dell’ONU e permettendo il massacro di Srebrenica, per poi appellarsi agli USA perché bombardassero i serbo-bosniaci.
Il terzo dilemma è stato quello fra la ownership, cioè fra il processo di riforma dal basso, con responsabilizzazione dei politici locali, e la conditionality, cioè il processo dall’alto, collegato solitamente agli aiuti economici. Beninteso, in linea di principio, la ownership è preferibile. La conditionality è deresponsabilizzante, tanto più che i rappresentanti locali, eletti più o meno democraticamente, sono ben lieti di lasciare la responsabilità delle scelte ai vari “proconsoli” internazionali. Ma la seconda è stata spesso necessaria. Purtroppo non è stata esercitata con la necessaria decisione e durezza nelle fasi iniziali dell’intervento occidentale. Solo allora si sarebbero potuti spezzare i legami fra la politica locale (i cui capi erano di solito i “signori della guerra”), l’economia (sia legale che informale) e il territorio. La causa è da attribuirsi non tanto all’incapacità dei funzionari di allora, quanto alla pluralità delle istituzioni internazionali, spesso in concorrenza fra loro e per le quali vige sempre il c.d. “paradosso del coordinamento”, secondo cui tutti chiedono di essere coordinati, ma nessuno accetta di essere coordinato da qualcun altro. La confusione che ne conseguì accrebbe le difficoltà già notevoli della stabilizzazione. Gli effetti negativi si risentono tuttora. Il “periodo d’oro” è nelle prime settimane dell’occupazione. L’unità di comando può essere garantita solo dalle forze militari. Purtroppo all’adozione di tale soluzione si è opposta la retorica dell’“Europa potenza civile”. La separazione fra le componenti civili e militari ha così privato l’UE proprio di uno dei suoi punti di forza: quello di disporre di capacità e risorse “a giro d’orizzonte”.
Dalla pacificazione all’ingresso nell’Unione
La politica europea ha subito successivi adattamenti, spesso ondivaghi e contradditori, anche a causa della volontà dei vari governi e responsabili internazionali di demarcare una “discontinuità” rispetto ai loro predecessori. Tali variazioni hanno determinato talvolta sorprese – e spesso sconcerto – fra le popolazioni interessate, facendo aumentare le resistenze alle riforme e alla stabilizzazione.
Inizialmente prevalse la logica della regionalizzazione. Con Dayton, venne approvato il regional approach, che cercò di far tesoro delle esperienze di cooperazione regionale maturate dal Gruppo di Visegrad. I progressi furono irrilevanti. Ci si limitò ad affermare che le cooperazioni regionali – soprattutto quelle transfrontaliere – costituivano precondizione per una pace durevole e uno sviluppo sostenibile. Finanziamenti, peraltro molto limitati, furono tratti dai fondi del Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (Poland, Hungary aid for the reconstruction of the economy, PHARE). Successivamente PHARE venne sostituito per l’Europa sudorientale dal programma Community assistance for reconstruction, development and stabilization (CARDS). Tramite esso furono concessi cospicui finanziamenti. Inoltre, l’UE approvò il c.d. “Royamont process” che sottolineò l’importanza delle organizzazioni della società civile per promuove la democrazia e lo Stato di diritto. Esso cercò invano di ripristinare la cooperazione culturale e scientifica, nonché il dialogo fra le varie comunità. Di fronte al fallimento delle sue iniziative, nella riunione del Consiglio dei ministri tenuta a Lussemburgo nell’ottobre 1996, l’Unione decise di rafforzare la propria azione, introducendo principi di condizionalità, tra cui il collegamento degli aiuti finanziari alla collaborazione con il Tribunale internazionale dell’Aia. In tale riunione, poi, le repubbliche ex iugoslave furono dichiarate potenziali candidati dell’UE. L’approccio “duro” culminò con l’attribuzione ai responsabili internazionali dei c.d. Bonn powers che assegnavano loro poteri da veri e propri proconsoli.
Un passo importante – all’inizio considerato decisivo – fu attuato nel giugno 1999 con il Patto di stabilità per l’Europa del sudest. Esso si proponeva di stabilizzare l’intera regione, di integrarla orizzontalmente e di perseguirne contemporaneamente l’integrazione euroatlantica. Tutti gli Stati dei Balcani occidentali venivano considerati potenziali membri dell’UE.
Quest’ultima, l’anno successivo, nel summit di Zagabria, decise invece che una nuova iniziativa – lo Stabilization and association process (SAP) – dovesse costituire il fulcro della politica dell’UE. Il SAP si propose di introdurre – con accordi diretti della Commissione con i singoli Stati – i valori, principi e standard europei, in particolare il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Inoltre, prevedeva assistenza istituzionale e sostegno per la lotta contro la corruzione e il crimine organizzato. Lo strumento operativo del SAP è lo Stabilization and association agreement (SAA), analogo a quello adottato per preparare all’accesso all’UE gli Stati dell’Europa centro orientale. La promessa di membership è stata solennemente riaffermata nel summit europeo di Salonicco (giugno 2003) e in quelli successivi, ma spesso con l’aggiunta di condizioni che l’hanno resa poco credibile. Particolarmente positiva è stata invece l’assicurazione che l’ammissione all’UE non avverrà per stadi successivi. Tale possibilità è particolarmente temuta dai paesi balcanici, che sospettano che l’UE voglia imporre loro pesanti riforme, con promesse di membership che, se verranno mantenute, lo saranno solo parzialmente. Comunque sia, con il SAP e il SAA venne accantonato definitivamente l’approccio regionale. Ma i risultati ottenuti sono stati finora deludenti. I paesi più arretrati pensano di essere indebitamente penalizzati. La frustrazione, invece di stimolare le riforme, aumenta l’instabilità.
La Croazia è il paese più avanzato. Ha firmato il SAA nel 2001 e presentato domanda di ammissione all’UE nel 2003, accettata poi dalla Commissione nel 2004. Anche la Macedonia è più o meno allo stesso livello. Indietro si trovano invece l’Albania (apertura dei negoziati per il SAA solo nel 2003); la Bosnia-Erzegovina (negoziati iniziati appena nel 2005); la Serbia e il Montenegro, per i quali i negoziati per un SAA sono stati sdoppiati già prima dell’indipendenza montenegrina del marzo 2006; e soprattutto il Kosovo. Fino a quando rimarrà irrisolto il problema della sua sovranità, non è possibile attivare un negoziato SAP. Pertanto, si è adottato un meccanismo sostitutivo basato su un dual track informale, che ha sollevato vive proteste a Belgrado.
L’attuale crisi dell’UE ha influito negativamente sul processo di integrazione dei Balcani. Anche se finora sono state negate ufficialmente, si parla sempre più spesso di membership limitate, forse per neutralizzare preventivamente l’opposizione di qualche Stato dell’Unione a nuovi allargamenti (v. Allargamento). Ulteriori incertezze e ritardi avrebbero un impatto psicologico molto negativo, rendendo ancora più difficili le riforme e diminuendo l’attrazione dell’Unione. Tale rischio è incrementato dalla diminuzione degli aiuti europei (di oltre un terzo dal 2001) e dal fatto che non si prevede un miglioramento della situazione con la sostituzione, nel 2007, del CARDS con l’Instrument for pre-accession assistance (IPA), che pur dovrebbe comportare un finanziamento di 14 miliardi di euro in sette anni. I fondi IPA però non sono destinati solo ai Balcani occidentali, ma anche a quelli orientali e alla Moldavia. Inoltre, i prestiti hanno superato le donazioni. La situazione non è quindi molto rosea, tenuto conto anche dell’instabilità interna, che aumenta il rischio politico degli investimenti esteri e ne riduce quindi l’entità.
Si valuta che i Balcani occidentali (forse con l’eccezione della Croazia) non raggiungeranno gli standard previsti dall’Unione prima di un decennio. Ciò potrebbe comportare nuovi scontri. L’UE dovrebbe assumere oneri e responsabilità che ha già molta difficoltà a fronteggiare e che diverrebbero insostenibili in caso di nuove crisi, tanto più che non può contare sugli USA come nel passato. La popolarità dell’UE nella regione è ancora alta, ma in accentuato calo. Di ciò approfittano i nazionalisti per fare una propaganda antieuropea ed evitare riforme che li priverebbero del loro potere politico ed economico.
Sono perciò del tutto condivisibili le raccomandazioni della Commissione internazionale sui Balcani in merito alla necessità di assumere un impegno preciso circa la data di accesso – beninteso qualora gli standard d’accessione vengano raggiunti – nonché di riprendere gli sforzi per stimolare la cooperazione regionale, finora troppo trascurata. Solo così potranno essere evitate ulteriori destabilizzazioni. Solo in tal modo l’Europa potrà approfittare del fatto che, per la prima volta nella loro storia, tutte le popolazioni della regione hanno un obiettivo comune e una visione condivisa del loro destino: quello di entrare nell’UE. Poi, anche per la prima volta nella loro storia, esse non devono temere le ingerenze straniere. Devono temere invece la possibilità di uno sganciamento dell’Europa dai Balcani, sebbene, così facendo, essa finirebbe per compromettere i propri interessi e la propria sicurezza.
Carlo Jean (2007)