Politica di sviluppo rurale

Introduzione

La politica di sviluppo rurale copre un ambito territoriale vastissimo: le aree rurali rappresentano, infatti, più dell’80% del territorio comunitario. Ugualmente assai vasta è la sua sfera di azione, dal momento che a essa è stato assegnato il compito di favorire il progresso dell’intero tessuto socio-economico delle aree rurali e non soltanto quello dell’agricoltura.

La politica di sviluppo rurale non ha dietro di sé una lunga storia. In effetti, ancora alla fine degli anni Ottanta, veniva portata avanti in queste aree una politica che aveva come campo di azione esclusivo il settore primario le aziende agricole, i loro addetti nonché i servizi e le infrastrutture strettamente connessi con l’attività agricola. Veniva chiamata, appunto, “politica delle strutture agricole”.

Il balzo in avanti è avvenuto sul finire di quel decennio, a seguito di una comunicazione della Commissione europea alle altre Istituzioni comunitarie dell’Unione europea, in particolare al Consiglio dei ministri e al Parlamento europeo. In quel documento – Il futuro del mondo rurale ne era il titolo eloquente – la Commissione insisteva con dovizia di dati e ricchezza di argomentazioni su tre temi fondamentali: il primo era che l’agricoltura rappresenta soltanto uno dei settori produttivi delle aree rurali e, spesso, non ne è nemmeno il più importante in termini sia di occupazione che di ricchezza prodotta; il secondo era che un intervento sulle sole strutture del settore primario non poteva che avere scarsa efficacia, perché il progresso dell’agricoltura è causa ed effetto insieme del progresso generale del territorio in cui essa viene esercitata; il terzo era che una politica mirante allo sviluppo generale delle aree rurali doveva conseguentemente sostituire quella di tipo settoriale che sino ad allora era stata portata avanti. Nasceva la politica di sviluppo rurale.

I precedenti della politica delle strutture agricole

La politica delle strutture agricole comincia agli inizi degli anni Settanta. Sino ad allora l’azione della Comunità nel campo dell’ammodernamento dell’agricoltura era rimasta circoscritta al sostegno finanziario, al di fuori di ogni logica di programma, di progetti di infrastrutture e di impianti di trasformazione presentati dagli Stati membri. Lo strumento giuridico era rappresentato dal regolamento comunitario n. 17/1964.

Il 1972 è l’anno della svolta. Con l’approvazione di tre speciali direttive (v. Direttiva) – la 159/72/CEE, la 160/72/CEE e la 161/72/CEE – la Comunità si dota di una normativa organica e assai dettagliata (v. anche Diritto comunitario). Queste direttive sono il risultato di lunghe discussioni, iniziate addirittura nel dicembre 1968 con l’apparizione del memorandum Agricoltura 1980”, meglio noto come Piano Mansholt dal nome dell’allora vicepresidente della Commissione che ne era stato il convinto ispiratore (v. Mansholt, Sicco). In particolare, la direttiva 159 riguarda l’ammodernamento delle aziende agrarie. Con questa direttiva la Comunità economica europea decide di sostenere finanziariamente solo gli investimenti di quelle aziende che, mediante l’attuazione di un preciso piano di sviluppo, siano in grado di raggiungere un «reddito di lavoro comparabile» con quello degli altri settori. Agli investimenti da parte delle aziende che sono troppo piccole per poter raggiungere un tale livello di reddito sono concessi aiuti di minor favore e soltanto a spese dei bilanci nazionali. Dal canto suo, la direttiva 160 mira a facilitare la scomparsa di questa seconda categoria di aziende introducendo un regime di prepensionamento per gli agricoltori con più di 55 anni. Infine, la direttiva 161 istituisce «servizi di informazione socio-economica» allo scopo di aiutare gli imprenditori agricoli e i loro familiari a scegliere se continuare l’attività agricola o orientarsi verso altre soluzioni professionali.

Nel 1975 vede la luce la direttiva 268/75/CEE sull’agricoltura di montagna e zone svantaggiate. In forza di questa direttiva viene istituita una speciale “indennità compensativa” a favore delle aziende situate in questi territori per compensare, appunto, i loro più elevati costi dovuti alle più difficili condizioni naturali di produzione. Si tratta di un evento innovativo di notevole rilievo perché, per la prima volta, anche se limitato alle aree in questione, viene istituito un regime di aiuti al reddito dei produttori. Il 1977 è l’anno di un nuovo regolamento, il 355/77/CEE, che riguarda le attività di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti agricoli (impianti di macellazione, impianti lattiero-caseari, cantine, centrali ortofrutticole, ecc.). Con esso la Comunità cerca di porre fine alla pratica più che decennale degli interventi a pioggia in un settore che è di importanza cruciale per l’agricoltura e, nello stesso tempo, mira ad assicurare che fra questi impianti e le aziende agrarie chiamate a fornire la materia prima siano stabiliti sin dagli inizi sicuri legami di collaborazione. Gli anni successivi vedono un susseguirsi di nuove misure riservate in prevalenza alle aree meno avanzate della Comunità. Fra queste, vale la pena citare: l’irrigazione nel Mezzogiorno e in Corsica; il drenaggio in Irlanda; la ristrutturazione della viticoltura nel Languedoc-Roussillon; gli allevamenti da carne nel Mezzogiorno e nelle aree di montagna del resto dell’Italia; le infrastrutture rurali nel sud della Francia e, ancora, nel Mezzogiorno e nelle stesse aree di montagna e svantaggiate del centro e del nord dell’Italia. Parallelamente, la normativa del 1972 viene profondamente rivista: in particolare, viene accantonato il criterio del “reddito di lavoro comparabile” rivelatosi troppo severo e perciò scarsamente applicabile soprattutto nelle aree qui sopra indicate, che poi sono quelle nelle quali l’agricoltura denuncia il più forte ritardo strutturale.

Verso la fine degli anni Ottanta, come sopra accennato, la Comunità riconosce che quanto si è venuto realizzando a partire dal 1972 non è sufficiente, che una politica che voglia sostenere gli agricoltori nei loro sforzi di ammodernamento non può rimanere isolata, ma deve diventare parte di una politica che tenda allo sviluppo generale delle varie realtà territoriali in cui il settore primario si trova a essere inserito. È venuto il momento della politica di sviluppo rurale la quale, nel corso degli anni Novanta, viene assumendo una sua specifica identità sino a essere definita come il “secondo pilastro” della Politica agricola comune (PAC), il primo essendo costituito dalla «politica dei prezzi e degli aiuti al reddito».

I tratti essenziali della politica di sviluppo rurale 2000-2006

Per il periodo 2000-2006, il regolamento n. 1257/1999/CEE e il programma Liaisons entre actions de developpement de l’économie rurale (LEADER) costituiscono i principali strumenti giuridici di questa politica.

Il regolamento n. 1257/1999/CEE definisce in maniera dettagliata i contenuti, le condizioni e le modalità di messa in opera della politica di sviluppo rurale. In particolare, il titolo II stabilisce quali sono gli ambiti e le relative misure suscettibili del sostegno finanziario della Comunità. È articolato in nove capitoli. I primi sette sono riservati all’agricoltura e riguardano: gli investimenti nelle aziende agrarie; l’installazione di giovani agricoltori; la formazione dei lavoratori agricoli; il pre-pensionamento dei lavoratori meno giovani; i sussidi alle aziende nelle zone di montagna e svantaggiate; la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli; i programmi agroambientali. Il capitolo ottavo è dedicato alla forestazione. Solo nel capitolo nono vengono specificate, all’articolo 33, le possibilità di azione al di fuori dell’agricoltura. Vi si menzionano il restauro dei villaggi, la preservazione del patrimonio rurale, i servizi di base per l’economia e le popolazioni locali, la promozione del turismo e dell’artigianato, il sostegno a iniziative di “ingegneria finanziaria”. Per quanto attiene alle misure agricole di cui ai sette capitoli sopra elencati, vale la pena rilevare che nella quasi totalità si tratta di misure riprese dalla precedente politica delle strutture agricole.

Solo i programmi agroambientali hanno origine abbastanza recente, essendo stati introdotti agli inizi degli anni Novanta. Con questi programmi l’Unione incoraggia i suoi agricoltori a seguire modi e tecniche di produzione che migliorino il rapporto dell’agricoltura con l’ambiente, prevedendo a tal fine la concessione di speciali sussidi. La gamma delle azioni suscettibili di beneficiare dei finanziamenti comunitari è assai ampia: dalla riduzione dell’uso di pesticidi e di concimi chimici all’agricoltura biologica; dallo sviluppo estensivo degli allevamenti al mantenimento di metodi estensivi laddove già esistono; dal ripristino del paesaggio alla prevenzione degli incendi; dal ritorno alle rotazioni poliennali sino alla messa a riposo ventennale dei terreni; dal recupero di terre abbandonate alla formazione degli agricoltori sui metodi di produzione compatibili con il rispetto dell’ambiente.

Lo stesso regolamento prescrive poi che i vari interventi devono essere inquadrati all’interno di una logica di programma e stabilisce a tal fine che gli Stati membri elaborino appositi “piani di sviluppo rurale”. Nelle regioni in ritardo di sviluppo e in quelle che devono fronteggiare gravi problemi di riconversione questi piani devono essere integrati nei rispettivi programmi regionali, mentre nel resto della Comunità devono essere elaborati al «livello territoriale più appropriato».

Per quanto attiene ai mezzi finanziari, è da osservare che per il periodo 2000-2006 la PAC si è vista assegnati 42,4 miliardi di euro all’anno, pari al 45% dell’intero bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). Ora, la ripartizione di questo volume di risorse finanziarie fra le sue due componenti risulta enormemente squilibrata: alla politica dei prezzi e degli aiuti diretti al reddito sono stati attribuiti mediamente 38,1 miliardi di euro e allo sviluppo rurale i rimanenti 4,3 miliardi. Un rapporto di quasi 9:1 a favore della prima.

Davanti a una tale sproporzione di mezzi c’è da chiedersi quanto sia fondato definire la politica di sviluppo rurale come il “secondo pilastro” della Politica agricola comune.

L’iniziativa comunitaria LEADER

Abbiamo ricordato dianzi che la Comunità dispone anche di un secondo strumento giuridico per intervenire nelle sue aree rurali. Si tratta del programma LEADER, varato nel 1991 e giunto ormai alla sua terza edizione: 1991-1993; 1994-1999; 2000-2006. È un programma tutto incentrato su un approccio che parte dal basso, è articolato per aree di piccole dimensioni e mira a coinvolgere e responsabilizzare tutti gli attori sia pubblici che privati presenti sul terreno, organizzandoli in “gruppi di azione locale” (GAL). A questi gruppi viene assegnato il compito di individuare le azioni capaci di assicurare un futuro sostenibile alle loro comunità, senza privilegiare a priori l’uno o l’altro settore, e di metterle poi in opera secondo strategie integrate di sviluppo. Perdurando il suo carattere sperimentale, anche la terza edizione del programma si è vista assegnata dalla Comunità un volume di risorse relativamente limitato: un totale di 2020 milioni di euro per l’intero periodo 2000-2006. L’esperienza di LEADER si è dimostrata particolarmente proficua. Sono diversi i punti di forza di questa originale strategia che meritano di essere segnalati. In particolare, il partenariato fra attori pubblici e attori privati, la ricerca di azioni innovative appropriate alle specificità delle singole zone e il loro inquadramento in piani di sviluppo locale, la formulazione di precisi piani di finanziamento, il monitoraggio sistematico, gli scambi continui di esperienze tanto al livello regionale e nazionale che comunitario. Da notare che sono più di 800 i GAL che in forza della terza edizione di LEADER si sono costituiti in altrettante zone diffuse un po’ su tutto il territorio rurale comunitario.

La nuova politica di sviluppo rurale 2007-2013

Nel giugno 2005 l’UE ha profondamente rinnovato la normativa dei sette anni precedenti rendendola più chiara e meglio articolata tanto dal punto di vista dei contenuti che da quello delle procedure e dell’approccio strategico. In particolare, la nuova normativa individua quattro grandi assi lungo i quali lo sviluppo rurale deve essere perseguito: il primo concerne il miglioramento della competitività del settore agricolo e forestale; il secondo la protezione dell’ambiente e la gestione del territorio; il terzo la diversificazione dell’economia rurale; il quarto concerne il programma LEADER.

Per ciascuno di questi assi la normativa fornisce una indicazione delle misure da adottare. Così, per quanto attiene al miglioramento della competitività, viene posto l’accento sul sostegno finanziario ai servizi di formazione e di assistenza, agli operatori agricoli e forestali, all’ammodernamento strutturale delle aziende, all’adeguamento delle infrastrutture, al sostegno ai giovani agricoltori o, ancora, agli agricoltori che si impegnano in programmi di miglioramento della qualità dei prodotti, al trasferimento delle conoscenze e dell’innovazione nella catena alimentare. L’asse relativo alla protezione dell’ambiente e alla gestione del territorio può contare sui programmi agroambientali, sugli aiuti alle attività forestali, sulle indennità compensative di cui beneficiano gli agricoltori delle zone di montagna e svantaggiate, sugli aiuti agli agricoltori presenti nelle zone classificate ai sensi di “Natura 2000”, il programma comunitario di protezione della biodiversità. Il terzo asse, relativo alla diversificazione dell’economia rurale, prevede misure di sostegno al turismo, alla diversificazione ulteriore delle attività non agricole, alla creazione di imprese artigianali, al restauro dei piccoli centri rurali e alla conservazione e valorizzazione del loro patrimonio storico-culturale, alla creazione di servizi di base a favore delle popolazioni rurali e delle attività produttive. Infine, il programma LEADER non è più, come nel periodo precedente, un’iniziativa a sé stante e sperimentale: il suo approccio dal basso che fa leva sul coinvolgimento delle forze locali, sul partenariato fra settore pubblico e settore e privato, diventa la base della nuova politica.

Da segnalare che la scelta delle misure da adottare e del loro peso relativo viene lasciata agli Stati membri e alle regioni. L’Unione si limita a prescrivere che i quattro assi sopra menzionati devono essere presenti tanto nel “piano strategico nazionale” che ogni Stato membro deve presentare alla Commissione quanto nei susseguenti “programmi di sviluppo rurale” da elaborare a livello regionale o subregionale e, a tal fine, fissa il peso minimo da assegnare in termini finanziari a ogni singolo asse. Più precisamente, alle azioni previste per il miglioramento della “competitività” deve essere destinato almeno il 10% delle risorse, il 25% almeno a quelle ascrivibili alla protezione dell’ambiente e alla gestione del territorio, un minimo di 10% alle azioni volte alla diversificazione dell’economia rurale. Infine, almeno il 5% delle risorse deve essere destinato all’asse LEADER.

Le autorità nazionali e regionali dispongono dunque di margini di discrezionalità davvero ampi, il che significa che su di esse incombe la responsabilità di porre in atto una programmazione dello sviluppo che sappia davvero tenere conto dei bisogni e delle specificità delle diverse aree. Responsabilità tanto più delicata se si tiene conto che la questione della scarsità dei mezzi finanziari è rimasta irrisolta. Infatti, per l’insieme del periodo 2007-2013 le risorse allocate alla politica di sviluppo rurale dell’Unione allargata (v. Allargamento) sono pari a 69,25 miliardi di euro, di cui poco meno della metà – 33,01 miliardi di euro – sono riservati ai 10 nuovi Stati membri più Bulgaria e Romania. I vecchi 15 Stati membri, fra cui l’Italia, non possono quindi contare su un volume di finanziamenti superiore rispetto al precedente periodo 2000-2006. Alle autorità nazionali e soprattutto a quelle regionali spetta dunque il compito di non disperdere i limitati mezzi disponibili. Incentrare i “programmi di sviluppo rurale” sull’approccio bottom-up sperimentato felicemente con LEADER appare a tal fine essenziale. In effetti, LEADER ha dimostrato che l’approccio dal basso, con il coinvolgimento effettivo delle forze presenti sul terreno e il partenariato fra il settore pubblico e quello privato, è la condizione di base per scegliere le azioni che meglio si adattano ai bisogni specifici delle diverse aree e per garantirsi che queste azioni vengano poi davvero realizzate.

Claudio Guida (2008)