Politiche per l’occupazione
Dalle prime fasi del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) ai giorni nostri l’attenzione comunitaria verso i problemi dell’impiego è aumentata in modo costante, in parallelo con i cambiamenti che si sono verificati nelle economie dei paesi membri e che, soprattutto a partire dagli anni Settanta, hanno posto in misura crescente la necessità di politiche attive in materia occupazionale.
Già il Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. Trattato di Parigi), nell’intento di evitare pericolose tensioni negli anni delicati della Guerra fredda, instaurava meccanismi volti a smorzare gli effetti negativi sul piano sociale del mercato comune carbosiderurgico. Si trattava di misure sollecitate da gran parte degli ambienti sindacali, ma richieste anche dai governi dei paesi con gli apparati produttivi più deboli, per i quali la futura concorrenza diretta con i produttori stranieri era fonte di seria apprensione. Per placare tali timori una norma transitoria del Trattato (v. anche Trattati) prevedeva contributi comunitari per la riqualificazione professionale e il trasferimento della manodopera che, licenziata a seguito di difficoltà causate dall’apertura del mercato comune (v. Comunità economica europea), fosse costretta a cambiare mestiere o residenza per lavorare di nuovo. Al fine di alleviare i disagi del periodo di disoccupazione era previsto inoltre il versamento di speciali indennità di attesa ai lavoratori interessati (Trattato CECA, Convenzione sulle disposizioni transitorie, § 23).
Il fatto che nel 1960, al momento della sua scadenza, la norma avesse già avuto numerose applicazioni (oltre 100.000 lavoratori avevano beneficiato degli aiuti finanziari), convinse gli Stati membri a renderla definitiva, sciogliendola da qualsiasi nesso con l’apertura del mercato comune e destinando i finanziamenti a tutti gli occupati della carbosiderurgia che avessero perso l’impiego a seguito di “mutamenti profondi” delle condizioni economiche (Trattato CECA, art. 56, comma 2). Nata semplicemente per ammortizzare gli effetti negativi delle razionalizzazioni imposte dalle nuove condizioni di concorrenza, la norma era quindi trasformata in un meccanismo permanente per eliminare gli ostacoli di natura sociale alla modernizzazione.
Alla stessa filosofia erano ispirate le disposizioni sul Fondo sociale europeo che, previsto nella versione originaria del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (v. Trattati di Roma) (CEE, artt. 123-127), era attivato anch’esso nel 1960 e, analogamente al meccanismo CECA, aveva lo scopo di contribuire alle spese di formazione e di trasferimento della manodopera licenziata dopo l’entrata in vigore del Trattato di Roma.
Profondamente riformato nel 1972, il fondo rimase comunque legato all’obiettivo di “ammortizzare” gli effetti sociali del mercato comune e delle politiche comunitarie; i cambiamenti puntavano, infatti, da una parte a correggerne alcuni difetti di funzionamento apparsi fin dai primi anni di attività, dall’altra ad adeguarne meglio i meccanismi alle nuove esigenze emerse nell’economia europea nel corso degli anni Sessanta.
Nonostante, proprio in occasione della prima riforma, il governo di Roma fosse riuscito a far destinare esplicitamente una quota di risorse alla lotta contro la disoccupazione strutturale nelle aree più povere, questa rimase una concessione occasionale da parte dei partner, ben lontana da quella politica comunitaria dell’impiego che gli italiani richiedevano con insistenza, ma che non trovava il minimo appoggio fra gli altri paesi membri della CEE. Né ebbe sviluppi di rilievo l’istituzione, a conclusione della conferenza “tripartita” – con rappresentanti della Commissione europea, degli Stati membri e delle forze sociali organizzate a livello europeo (v. Parti sociali) – del 1970, di un Comitato per l’occupazione permanente, primo embrione di un Dialogo sociale europeo che avrebbe trovato attuazione solo dalla metà degli anni Ottanta.
Oltre alle norme del Fondo sociale, in questa fase l’unica realizzazione concreta fu quindi l’istituzione, prevista dal regolamento 1612 del 1968 sulla libertà di circolazione dei lavoratori, di un sistema europeo di raccolta e diffusione delle offerte d’impiego (conosciuto come SEDOC). In vigore dal 1972, fu riformato e potenziato dopo soli due anni nel quadro del primo Programma d’azione sociale della Comunità (v. anche Programmi comunitari); nel 1993 sarà sostituito dalla rete European employment services (EURES).
In ogni caso, a seguito delle difficoltà dei primi anni Settanta, e soprattutto dopo lo shock petrolifero, il tema dell’occupazione attirò sempre più l’attenzione del mondo politico europeo. Fra la metà del decennio e quella del successivo, i ministri del Lavoro degli Stati membri affrontarono più volte la questione in Consiglio dei ministri e vararono una serie di risoluzioni sugli aspetti più gravi della disoccupazione. A esse non seguì però l’attivazione di reali politiche comunitarie, e le uniche decisioni concrete in materia rimasero quelle relative alle risorse del Fondo sociale europeo, parte delle quali fu destinata a specifiche categorie di disoccupati (le donne, i giovani con meno di 25 anni, i portatori di handicap, ecc.).
Pur inserendo ufficialmente la politica sociale fra le questioni di competenza comunitaria, l’Atto unico europeo non trattava i temi dell’occupazione, né lo farà la Carta comunitaria dei diritti sociali approvata dal Consiglio nel 1989 (v. Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori), che in materia si limitava ad affermare (peraltro senza potere vincolante) il principio di pari opportunità fra uomini e donne e quello di libera scelta della professione.
Una novità era invece introdotta dall’Accordo a Undici sulla politica sociale annesso al Trattato di Maastricht, che assegnava al Consiglio il potere di erogare, con voto all’unanimità, contributi finanziari per la promozione dell’occupazione e la creazione di posti di lavoro.
Ma gli elevati tassi di disoccupazione registrati su tutto il continente fin dai primi anni Novanta, e la loro persistenza anche nelle fasi di crescita economica, rendevano oramai la questione assolutamente prioritaria agli occhi dei decision makers europei. Nel 1993 la Commissione Delors (v. Delors, Jacques) presentava così il Libro bianco (v. Libri bianchi) su Crescita, competitività e occupazione che, pur non mancando di sottolineare l’esigenza di un incremento della flessibilità del lavoro (soprattutto negli impieghi meno specializzati), individuava nello sviluppo dell’istruzione e della formazione professionale l’elemento strategico per il rilancio dell’economia europea e per la creazione di nuova occupazione. Il Libro bianco sulla politica sociale, pubblicato l’anno successivo e dedicato in gran parte proprio a quest’ultimo scopo, avrebbe poi fornito la base per due nuovi programmi d’azione sociale, varati nei trienni 1995-1997 e 1998-2000, quasi completamente incentrati sull’emergenza occupazionale. Il tema sarà costantemente all’ordine del giorno anche in sede di Consiglio europeo, dove i criteri generali già individuati dalla Commissione (formazione, flessibilità e interventi per le categorie più svantaggiate) erano indicati come linee orientative cui ispirare le politiche occupazionali degli Stati membri.
La vera svolta si ebbe però nell’ottobre 1997 con la firma del Trattato di Amsterdam, che inseriva fra gli obiettivi ufficiali della Comunità europea il raggiungimento di alti livelli di impiego e, a tale scopo, creava il nuovo titolo VIII del Trattato, dedicato alla politica dell’occupazione. Esso configurava l’attivazione, da parte di Comunità e Stati membri, di una vera e propria «strategia coordinata a favore dell’occupazione», secondo la quale ogni anno la Commissione e il Consiglio avrebbe dovuto presentare una relazione congiunta sulla situazione dell’impiego e fissare orientamenti generali tali da incoraggiare la collaborazione fra gli Stati membri in materia, eventualmente indirizzando loro raccomandazioni (v. Raccomandazione). Sulla base del Trattato, nel 2000 fu anche istituito un nuovo Comitato per l’occupazione che, composto dai massimi esperti in ambito comunitario, aveva funzioni di natura consultiva ma anche l’obiettivo di promuovere il coordinamento fra le politiche macroeconomiche dell’Unione europea e la nuova strategia per l’occupazione (Trattato che istituisce la Comunità europea, versione consolidata, artt. 125-130).
Dato il momento di particolare difficoltà, il titolo VIII prevedeva la possibilità di applicare le nuove norme prima dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam (avvenuta solo nel maggio 1999, a conclusione dei processi di ratifica). Il Consiglio straordinario di Lussemburgo del novembre 1997 provvedeva così ad attivare il nuovo meccanismo che, basato sul coordinamento fra orientamenti generali e piani nazionali d’azione, d’ora in avanti sarà conosciuto come “Processo di Lussemburgo”. Il “Processo di Cardiff”, avviato in occasione del vertice dell’anno seguente nella capitale gallese, puntava invece ad accrescere la competitività, migliorando l’efficienza dei mercati di beni, servizi e capitali, e semplificando e alleggerendo gli oneri per la creazione di piccole imprese ad alto utilizzo di lavoro.
Completa infine il quadro del nuovo “Patto europeo per l’occupazione” il cosiddetto “Processo di Colonia” che, varato nel giugno 1999, istituiva un dialogo fra i responsabili delle politiche monetarie, salariali, strutturali e di bilancio, nell’intento di migliorarne il coordinamento e favorire una crescita economica equilibrata, caratterizzata da un’evoluzione controllata dei livelli salariali, da politiche monetarie e finanziarie compatibili col Patto di stabilità e da un progressivo e costante aumento di posti di lavoro.
Nel frattempo, nel 1998, il Consiglio individuava gli orientamenti generali della strategia coordinata nello sviluppo dei cosiddetti quattro “pilastri”: l’“occupabilità” dei lavoratori, attraverso il potenziamento di istruzione e formazione, l’“imprenditorialità”, basata su una maggior flessibilità per le imprese, l’“adattabilità” di imprese e manodopera ai mutamenti tecnologici e le “pari opportunità” fra uomini e donne sul mercato del lavoro. Tali orientamenti furono recepiti dai singoli Stati membri nei piani nazionali d’azione e, con poche variazioni, guidarono la politica comunitaria per i cinque anni successivi.
Nel 2003 si ebbe una modifica di sostanza, anch’essa volta a favorire un migliore coordinamento della strategia per l’occupazione con le politiche economiche generali. I quattro pilastri erano sostituiti da tre obiettivi generali: piena occupazione, qualità e produttività, coesione sociale e inclusione; su tale base, e nel rispetto degli orientamenti di politica economica approvati dal Consiglio economia e finanza (ECOFIN), vennero stabilite le linee guida per il triennio successivo.
Intanto, nel marzo 2000, prospettive di crescita più ottimistiche spingevano il Consiglio europeo straordinario di Lisbona a individuare obiettivi precisi (anche se non vincolanti) in materia di occupazione. In particolare i capi di Stato e di governo fissavano il traguardo del pieno impiego in tutta l’Unione per il 2010, da raggiungere attraverso uno sviluppo delle nuove tecnologie e una revisione dei sistemi di istruzione e formazione tali da fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo. Il tutto nel pieno mantenimento del modello sociale europeo.
La nuova situazione internazionale creatasi in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, e le difficoltà che ne sono derivate anche sul piano economico, sembrano però aver posto un serio ostacolo al conseguimento degli obiettivi di Lisbona. All’inizio del 2004 la stessa Commissione europea ha riconosciuto come, a quattro anni di distanza dallo storico Consiglio europeo, i progressi realizzati siano decisamente insufficienti. Il Consiglio europeo di Bruxelles del marzo 2005 ha sostanzialmente confermato tale valutazione, pronunciandosi in favore di una parziale rielaborazione della Strategia di Lisbona che, sottolineando ulteriormente l’importanza del capitale umano, ponga gli obiettivi di natura occupazionale in una posizione ancora più centrale.
Lorenzo Mechi (2005)