Pompidou, Georges
P. (Montboudif 1911-Parigi 1974), cominciò la sua carriera come professore di lettere nella scuola secondaria (1935-1944). Dal 1944 al 1946 fu chargé de mission nel gabinetto del generale Charles de Gaulle, presidente del governo provvisorio della Repubblica francese. Dal 1948 al 1953 fu capo gabinetto del generale ed esercitò contemporaneamente importanti responsabilità nel Rassemblement du peuple français (RPF) fondato da de Gaulle nel 1947 in reazione alla Quarta repubblica. Dal 1953 al 1962 svolse importanti funzioni alla Banca Rothschild, mentre dal giugno al dicembre 1958 fu anche direttore del gabinetto di de Gaulle, all’epoca presidente del Consiglio. Partecipò attivamente alla creazione della Quinta repubblica entrata in vigore nel gennaio 1959. Il 14 aprile 1962 P. divenne primo ministro, incarico che conserverà fino al 10 luglio 1968, all’indomani della crisi del “maggio ’68”. In seguito alle dimissioni del generale, il 28 aprile 1969, si candidò alla presidenza della Repubblica e venne eletto il 15 giugno. Morì mentre era ancora presidente, il 2 aprile 1974.
Prima di arrivare alla presidenza nel 1969, P. fu il principale collaboratore di de Gaulle fin dal 1948. Avendone seguito l’azione internazionale e avendola applicata come primo ministro dal 1962 al 1969, era già molto informato ed esperto quando giunse al vertice del potere. P. Era incontestabilmente gollista in materia internazionale ed europea, ma a partire dal 1962 con una serie di sfumature sostanziali: si potrebbe definire la sua posizione come un gollismo pragmatico, razionalizzato. Assumendo la presidenza, P. era deciso a preservare l’eredità gollista, ma al tempo stesso a farla evolvere, liberandola da quelli che considerava elementi troppo legati alla personalità forte e talvolta impulsiva del generale, e anche a tener conto delle risorse reali della Francia, per poter radicare il gollismo durevolmente. In materia europea questo significa che P., come il suo predecessore, era contrario a un’Europa integrata sopranazionale ed era fautore di un’Europa degli Stati (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della); ma al tempo stesso era più disposto di de Gaulle a trattare con i partner della Francia, in quanto si rendeva conto di non potere imporre loro qualsiasi decisione ed era risoluto a evitare un nuovo fallimento come quello del Piano Fouchet nel 1962.
D’altra parte, la candidatura presidenziale di P., che non aveva la statura storica del generale, e in seguito la sua azione politica come capo di Stato, si fondavano sulla nozione di “maggioranza presidenziale”, che andava al di là dei gollisti e comprendeva i repubblicani indipendenti e i centristi del Centre démocratie et progrès (CDP). Questi due partiti si distinguevano per un attaccamento profondo all’idea europea. P. non poteva non tenerne conto, anche se il suo orientamento europeo, incontestabile, era più pragmatico di quello di molti membri della sua maggioranza, e per nulla federalista (v. anche Federalismo).
Il primo problema europeo che si pose quando P. divenne Presidente della Repubblica fu quello dell’Adesione britannica. Dal 1962 il nuovo presidente era convinto che l’adesione britannica avrebbe modificato profondamente gli equilibri della Comunità economica europea (CEE), ma al tempo stesso aveva capito (malgrado i due rifiuti del generale nel 1963 e 1967) che era un fatto ineluttabile. In caso contrario, Londra avrebbe agito sui Cinque per bloccare tutte le iniziative francesi e la CEE sarebbe fallita. Era meglio che il Regno Unito fosse ammesso, ma a condizione di negoziare duramente il suo ingresso. Fu questa convinzione a determinare il suo atteggiamento e non, come è stato detto spesso, la sua volontà di controbilanciare la Repubblica Federale Tedesca (v. Germania). Al Vertice europeo dell’Aia del 1969 P. annunciò di accettare il principio dell’adesione britannica. In compenso i Cinque avrebbero ratificato il regolamento finanziario definitivo della Politica agricola comune (PAC), interesse francese essenziale bloccato da anni. I negoziati franco-britannici furono avviati nel giugno 1970, dopo l’arrivo al potere del conservatore Edward Heath, europeo e francofilo. L’incontro decisivo fra Heath e P. ebbe luogo il 20 e 21 maggio 1971. I negoziati si concludevano alla fine del mese seguente, il trattato venne firmato il 22 gennaio 1972 e il 1° maggio 1973 la Gran Bretagna, con l’Irlanda e la Danimarca, fece il suo ingresso nella CEE. A questo punto la Francia poteva riprendere l’iniziativa in materia europea.
Oltre alla buona intesa personale fra P. e Heath e la posizione del presidente francese sulla questione, un certo numero di fattori facilitarono le cose. Innanzitutto la Gran Bretagna, tradizionalmente gelosa della propria sovranità, sembrava costituire agli occhi di P. una solida garanzia contro qualsiasi deriva della CEE in senso federalista e per il mantenimento di un’Europa confederale fondata sul ruolo degli Stati. Inoltre Londra, a differenza di quanto era accaduto in precedenza, accettava di riconoscere l’Acquis comunitario. D’altra parte, il problema del contributo britannico al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), molto delicato, venne risolto in modo adeguato: la Gran Bretagna non avrebbe goduto di uno statuto derogatorio, ma il suo contributo avrebbe beneficiato di un abbattimento decrescente per sette anni. Quindi erano salvaguardati i principi della CEE, secondo la tesi francese, ma anche le necessarie possibilità di adattamento per Londra. Infine, i problemi legati al ruolo internazionale di una sterlina indebolita, come pure le balances sterling (i crediti detenuti da Stati stranieri sul Tesoro britannico) preoccupavano molto Parigi e gli ambienti comunitari. I colloqui approfonditi con Londra consentirono di rendersi conto che di fatto il problema delle balances sterling si sarebbe risolto da sé e che non sussistevano ostacoli reali.
Il 23 aprile 1972 P. indisse un referendum sull’Allargamento della CEE: i voti a favore prevalsero, ma il tasso di astensioni considerevole indebolì la portata del risultato (solo il 36,37% degli elettori iscritti approvava l’allargamento). Contrariamente alle sue speranze, il presidente ne usciva ridimensionato sul piano interno: forse questo può spiegare un irrigidimento della sua politica europea nelle settimane seguenti e un certo ritorno al gollismo più tradizionale. In effetti, se il Vertice europeo dei capi di Stato e di governo dell’Aia nel dicembre 1969, riunito su richiesta di P. (all’epoca non si trattava ancora di una struttura permanente della Comunità, ma l’iniziativa del presidente costituiva l’inizio del processo che approdò all’istituzionalizzazione del Consiglio europeo sotto il suo successore), era stato consensuale e positivo, il seguente, che si tenne a Parigi nell’ottobre 1972, fu più difficile. All’Aia era stato risolto uno dei problemi fondamentali dell’epoca, decidendo che l’Approfondimento sarebbe andato di pari passo con l’allargamento: fu adottata una proposta di Willy Brandt, sostenuta da P., per creare un’Unione economica e monetaria (UEM) per il 1980, allo scopo di perfezionare il Mercato comune (v. Comunità economica europea), e fu varato uno studio sui mezzi per progredire in direzione di un’Unione politica (v. anche Cooperazione politica europea).
Ma i partner della Francia temevano che essa approfittasse del progetto di Unione politica per preparare un ritorno al Piano Fouchet del 1961-1962, cioè che usasse la cooperazione politica interstatale per rimettere in discussione l’acquis comunitario sopranazionale. La Commissione europea e il governo belga nel 1972 prepararono una serie di contromisure preventive, in particolare prevedendo poteri accresciuti per il Parlamento europeo e cercando di riorientare le discussioni in vista dell’Unione politica in un senso più favorevole alle idee federaliste. P. reagì brutalmente, minacciando di rinunciare al vertice previsto a Parigi in ottobre. Il 2 giugno dichiarava: «Quanto alle discussioni istituzionali… vi confesso che ai miei occhi, dovrebbero scomparire di fronte alla volontà politica di agire per far sentire la voce distinta di un’Europa indipendente». Questa frase profondamente gollista riassume perfettamente la politica europea di P.
Il Vertice di Parigi nell’ottobre 1972 (ormai Vertice dei Nove) confermò due obiettivi ambiziosi: l’Unione economica e monetaria e l’Unione politica per il 1980, ma senza regolare il problema istituzionale che sorgeva dalla coesistenza di strutture sopranazionali e strutture interstatali in una Comunità che andava verso l’allargamento, ma anche verso l’approfondimento: il dibattito tra federalisti e confederalisti non si esaurì. Di fatto, nei mesi seguenti non si registrarono progressi. Di colpo P. adottò un’idea di Jean Monnet: sbloccare la situazione mediante riunioni regolari dei capi di Stato e di governo. Nella sua conferenza stampa del 27 settembre 1973 egli suggerì che i capi di Stato e di governo si riunissero regolarmente per trattare della cooperazione politica, proponendo questa formula ufficialmente il 13 ottobre 1973, per «confrontare e armonizzare l’atteggiamento [dei Nove] nel quadro della cooperazione politica». La proposta di tenere questi vertici europei fu accettata dai partner, ma la Repubblica Federale Tedesca e il Benelux insistettero perché il presidente della Commissione di Bruxelles partecipasse alla riunione e si potessero affrontare anche le questioni comunitarie, e non soltanto il problema della cooperazione politica; evidentemente si trattava di evitare che l’elemento interstatale rimettesse in discussione quello sopranazionale. P. fece adottare un compromesso: il primo giorno i capi di Stato e di governo si sarebbero riuniti solo per occuparsi di cooperazione politica, il secondo giorno li avrebbe raggiunti il Presidente della Commissione europea.
L’accordo dei partner tuttavia non era unanime. A Copenaghen si tenne un vertice il 15 e 16 dicembre 1973, che però non consentì di regolare il problema della periodicità di questo tipo di riunione: Parigi voleva riunioni semestrali o più frequenti se la situazione internazionale lo avesse richiesto; il Parlamento europeo e i paesi più attaccati alle Istituzioni comunitarie, al contrario, auspicavano che i vertici restassero eccezionali, per non indebolire la Comunità. Sarà Valéry Giscard d’Estaing, nel dicembre 1974, a far adottare la formula dei Consigli europei semestrali. Ma il Vertice di Copenaghen ratificò una “Dichiarazione sull’identità europea” molto importante (v. anche Dichiarazione di Stoccarda). I Nove proclamarono che tale identità si fondava sulla volontà di «assicurare la sopravvivenza di una civiltà comune», «una civiltà europea», e che i suoi elementi fondamentali erano costituiti da «valori di ordine giuridico, politico e morale nei quali si riconoscono […] i principi della democrazia rappresentativa, del dominio della legge, della giustizia sociale – finalità del progresso economico – e del rispetto dei Diritti dell’uomo». Questa filosofia corrispondeva profondamente a quella del presidente francese, come si può evincere dalla lettura dei suoi scritti (Le Noeud Gordien, 1974, e Pour rétablir une vérité, 1982). La Dichiarazione proclamava il ruolo e le responsabilità mondiali della Comunità (contro Henry Alfred Kissinger, che nell’aprile precedente aveva voluto limitarla agli interessi regionali) e manifestava la volontà di definire «progressivamente […] posizioni comuni nell’ambito della politica estera».
Di fatto la discussione sulla Cooperazione politica europea in materia di politica internazionale non si interruppe, da quando l’Unione politica venne fissata come obiettivo a medio termine all’Aia nel 1969. Nel marzo 1970 si creava un Comitato dei direttori politici dei ministeri degli Affari esteri, sotto la presidenza del belga Étienne Davignon, per avanzare proposte in questo senso. Ma P. si mostrò molto prudente: i partner in effetti volevano estendere la cooperazione politica alle questioni di difesa (il che avrebbe rischiato di rimettere in discussione la politica francese di difesa indipendente), volevano istituzionalizzarla, introducendovi la Commissione e il Parlamento europei. Parigi frenò energicamente e ottiene soddisfazione: il Rapporto Davignon del 24 ottobre 1970 si limitava a preconizzare una «concertazione delle politiche estere». Ma i partner intendevano spingersi più lontano. Willy Brandt nel febbraio 1972 propose la creazione di un “segretariato politico” incaricato di coordinare le iniziative e di preparare le riunioni europee intergovernative (v. anche Cooperazione intergovernativa). P. accettò, ma a condizione che la sede di questo organismo fosse Parigi e non Bruxelles, dove avrebbe rischiato di essere in balia della Commissione e dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Poiché la maggior parte dei partner, in effetti, auspicava che il segretariato fosse un organo di riflessione e di iniziativa – cosa inaccettabile per P. – e non un semplice organismo tecnico di coordinamento, la proposta non si concretizzò mai e si restò fermi al Comitato politico formato dai direttori politici. Ma il suo ruolo rimase limitato in conseguenza delle crescenti divergenze in materia di politica internazionale fra i Nove a partire dal 1973. La concezione francese di una collaborazione in materia internazionale dei Nove su una base interstatale non approdò a nulla di significativo. Tuttavia il più grande successo di P. in materia di cooperazione politica consistette nell’aver fatto riconoscere dai suoi partner della CEE, in occasione del Vertice di Copenaghen del 6 novembre 1973, dopo la guerra del Kippur, i “diritti” dei palestinesi. L’Europa espresse su una questione importante un punto di vista differente da quello degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’Unione economica e monetaria, un comitato di esperti presieduto da Pierre Werner, primo ministro lussemburghese, nel marzo 1970 presentò un rapporto (detto Rapporto Werner) in cui si proponeva una politica monetaria comune, un mercato unico dei capitali e un’Armonizzazione delle politiche finanziarie. L’Unione economica e monetaria sarebbe stata gestita da un nuovo centro decisionale indipendente dai governi nazionali, con il trasferimento al Parlamento europeo di una parte delle competenze dei governi nazionali e un Sistema europeo delle banche centrali (SEBC). Ma P. si mostrò molto reticente: il centro decisionale di politica economica non poteva che essere il Consiglio dei ministri e il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER), sempre per evitare una deriva sopranazionale; d’altra parte, l’integrazione economica e una futura moneta unica (v. anche Euro) avrebbero rischiato di limitare troppo la libertà d’azione economica del governo francese. Quindi non si registrarono progressi in questo ambito. In compenso Parigi auspicava, se non una integrazione, almeno una cooperazione in materia monetaria, per alleggerire i problemi ricorrenti della Francia in questo ambito dalla crisi del maggio 1968: solo questo tipo di collaborazione avrebbe potuto permettere di mantenere il tasso elevato di espansione di cui Parigi aveva bisogno per sviluppare l’economia e ritrovare l’equilibrio sociale, evitando anche un’inflazione eccessiva. In generale i problemi monetari degli anni 1971-1973 svolsero un ruolo essenziale nella politica europea di P., con la fluttuazione unilaterale del marco il 5 maggio 1971, lo “choc Nixon” e la fine della convertibilità del dollaro il 15 agosto, l’accordo dello Smithsonian 18 dicembre 1971, la crisi del giugno 1972 e alla fine, dopo una nuova crisi, l’annuncio, l’11 marzo 1973, della fluttuazione congiunta delle sei monete europee in rapporto al dollaro e la creazione del “Serpente monetario”. Nel corso di tutta questa crisi la Francia difese l’“ortodossia” e i cambi fissi, prima di aderire alla tesi tedesca della fluttuazione congiunta rispetto al dollaro. Si è detto spesso che la posizione francese era dettata dal fatto che P. temeva il dominio monetario della Germania in un sistema di cambi fluttuanti. In realtà le cose erano più complesse e l’ispirazione di P. era fondamentalmente europeista.
In primo luogo, durante tutta la crisi, la preoccupazione prioritaria di P. fu, malgrado tutto, il mantenimento del cammino verso l’Unione economica e monetaria. Questa preoccupazione emerse al momento della decisione di Bonn di lasciare fluttuare il marco il 5 maggio 1971, per uscire dalle difficoltà del sistema di Bretton Woods. Parigi la considerava come una rottura della solidarietà europea e riteneva che la Germania avesse agito unilateralmente senza occuparsi dell’impatto della sua decisione sui partner, per esempio sulla PAC. Bonn propose sia la fluttuazione congiunta delle monete europee in rapporto al dollaro, sia il “serpente nel tunnel”, cioè la rinuncia ai tassi fissi, sui quali si fondava il sistema monetario da Bretton Woods, e di accettare margini di fluttuazione: le monete avrebbero rispettato fra loro margini stretti (0,5%) e margini più ampi rispetto al dollaro (3%). In effetti, Parigi rifiutò di prendere in considerazione un allargamento dei margini di fluttuazione in rapporto al dollaro che, in un primo tempo, era esattamente quello che auspicavano gli Stati Uniti per liberarsi delle discipline costrittive imposte dal sistema di Bretton Woods; inoltre, l’incertezza che ne sarebbe derivata non poteva che confortare il ruolo internazionale del dollaro. D’altra parte, un sistema di margini più stretti fra monete europee e più ampi rispetto al dollaro poteva portare a una costrizione della moneta tedesca sul franco e a una valutazione eccessiva di quest’ultimo, mentre l’inflazione era senz’altro più forte in Francia che in Germania. Inoltre il “serpente nel tunnel” avrebbe portato a ricorrenti crisi speculative. Oltre agli inconvenienti per l’economia francese e al fatto che avrebbe favorito il dollaro, il sistema non poteva funzionare correttamente.
Il 10 novembre 1971 P. definiva la sua posizione in un consiglio ristretto: ritorno alle parità fisse, svalutazione del dollaro dal 5 al 7%, rivalutazione del marco dal 5 al 6%. Ma osservava che una via d’uscita dalla crisi era necessaria in ogni caso e che bisognava evitare innanzitutto che l’Europa uscisse a pezzi da questa situazione. Finalmente, venne trovato un compromesso con Brandt negli incontri di Parigi del 3 e 4 dicembre 1971: il dollaro sarebbe stato svalutato, il marco sarebbe stato rivalutato di circa il 6% e il franco sarebbe rimasto invariato. In cambio di queste due concessioni di Bonn P. accettava un allargamento dei margini di fluttuazione fra monete europee e un allargamento ancora maggiore nei confronti del dollaro, il che corrispondeva alla tesi tedesca. In altri termini, l’accordo dello Smithsonian del 18 dicembre 1971, che procedeva a raggiustamenti monetari, in particolare a una svalutazione del dollaro, e che aumentava i margini di fluttuazione, era stato preparato dal compromesso tra P. e Brandt del 4 dicembre.
Ma Parigi era perfettamente consapevole che l’accordo dello Smithsonian era fragile e provvisorio. Il 7 febbraio 1972 si tenne un consiglio ristretto sulle questioni monetarie. Valéry Giscard d’Estaing espose la situazione: o si faceva funzionare, con tutti i suoi limiti, l’accordo dello Smithsonian oppure si approfittava della crisi per segnare una nuova tappa in direzione dell’Unione economica e monetaria europea. P. espresse con forza la sua preferenza per la seconda ipotesi, perché la prima equivaleva ad ammettere che gli Stati Uniti dirigevano la politica economica e monetaria mondiale. Era necessario mettere con le spalle al muro i tedeschi: non potevano andare contro l’Europa, malgrado la loro propensione a seguire gli Stati Uniti. Ma a partire da questo momento P. compì un passo decisivo: per resistere al dominio del dollaro, un accordo europeo era più importante che forzare la moneta americana a restare nel quadro delle parità fisse. Questo ribaltamento concettuale aprì la strada all’accordo del 1973.
La nuova crisi monetaria del giugno 1972 portò P. e Brandt a intavolare importanti discussioni il 3 e 4 luglio. In settembre, in occasione dell’incontro di Feldafing in Baviera, essi si orientarono verso la soluzione del serpente monetario europeo, con margini ridotti. Quindi il terreno era stato adeguatamente preparato, dopo una nuova crisi dei cambi al principio del 1973, per l’accordo storico dell’11 marzo, che instaurava la fluttuazione congiunta delle monete europee rispetto al dollaro, creando così una personalità monetaria europea. P. non aveva ceduto bruscamente alla Germania: era stata un’evoluzione progressiva, avendo ammesso che il modo migliore per impedire al dollaro di esercitare un ruolo egemonico non consisteva più nel mantenere le parità fisse, ma nel rafforzare la cooperazione europea. Se P. finì per accettare la fluttuazione congiunta, che all’inizio non voleva, fu per la sua volontà di far progredire l’Europa concreta che auspicava, senza perdersi in discussioni istituzionali.
In effetti, il dibattito fra le tesi federaliste e confederaliste non si concludeva. Di fronte alla complessità crescente del dispositivo europeo, con gli elementi comunitari, da una parte, e l’apparizione di nuove strutture che non lo erano, dall’altra (l’Unione economica e monetaria e l’Unione politica), alcuni avrebbero voluto che il tutto fosse razionalizzato procedendo verso una maggiore sopranazionalità. P. rifiutò, ma in occasione del Vertice di Parigi del 1972 trovò una formula ambigua, secondo la quale la CEE si sarebbe evoluta in direzione di una “Unione europea”, che avrebbe raggruppato l’acquis comunitario e le nuove politiche comuni decise all’Aia. P. riusciva così a evitare il fallimento cui era andato incontro il Piano Fouchet nel 1962 per l’intransigenza del generale de Gaulle. Ma chiaramente per lui l’essenziale era altrove.
Innanzitutto, nello sviluppo di un’Europa pragmatica che si fondasse su programmi di cooperazione concreti, talvolta bilaterali franco-tedeschi (come Airbus) o più allargati (come Eurodif, per l’arricchimento dell’uranio, con i belgi, gli spagnoli e gli italiani, o ancora come il programma spaziale “Ariane”). Nelle intenzioni di P., si trattava di dominare a livello europeo le nuove tecnologie con ricadute economiche essenziali per l’avvenire.
Soprattutto, questa Europa doveva parlare nel mondo con una sola voce e manifestare la propria indipendenza. Se gli Stati membri non fossero stati animati da questa volontà politica, le strutture non avrebbero avuto alcuna efficacia, a prescindere dal tipo di organizzazione. Questa indipendenza doveva affermarsi sia di fronte all’URSS, sia di fronte agli Stati Uniti: anche in questo caso una concezione gollista. Come proponeva il ministro degli Esteri Michel Jobert in un discorso davanti all’Assemblea dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO) il 21 novembre 1973, si poteva arrivare a compiere uno «sforzo di dialogo e di riflessione» sui problemi della difesa nel quadro dell’UEO.
Nei confronti dell’URSS l’unità dell’Europa occidentale era essenziale per impedire ai sovietici di dividere gli europei, di manovrarli e «finlandizzarli», secondo una espressione usata correntemente da P. Al cancelliere Brandt P. dichiarava il 3 dicembre 1971: «Per me la politica di avvicinamento con l’Europa dell’Est, la nostra e la vostra, presuppone un’Europa occidentale forte. Se l’Europa occidentale si divide, questa politica diverrà presto pericolosa». Il 10 febbraio P. dice a Brandt a proposito del progetto di conferenza sulla sicurezza in Europa (la futura Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa): «Penso che se siamo tutti insieme, potremo sciogliere un po’ i blocchi, anche il blocco sovietico. L’avvicinamento di tutti i popoli dell’Est e dell’Ovest, e anche dei due Stati tedeschi, potrà avvenire in un’atmosfera politica di cooperazione e di distensione, e non di neutralizzazione dell’Europa centrale e quindi della Germania». Nel 1973 la pressione sovietica su Parigi, che conservava una politica ostile ai negoziati strategici americano-sovietici (accordi SALT del 1972) e ai negoziati Mutual balanced forces’ reduction (MBFR) di disarmo convenzionale in Europa, si fece insistente. P. reagì con fermezza, in particolare rilanciando nell’autunno 1973 il progetto di cooperazione politica nel quadro di vertici europei regolari.
Indipendenza e fermezza anche nei confronti di Washington: un fattore essenziale della politica europea di P. fu la sua politica americana. In un primo tempo, come all’epoca del vertice delle Azzorre con Nixon nel dicembre 1971, dopo lo “choc Nixon” dell’estate e la fine della convertibilità del dollaro, P. cercò di presentarsi a Washington come portavoce dell’Europa, secondo la concezione di un’Europa, guidata dalla Francia, che collaborava su un piede di parità con l’America sulla base di una buona intesa occidentale. Era questo il nucleo della politica estera di P.: la Francia voleva sviluppare la Comunità economica europea e influenzarla in maniera decisiva, ma con una collaborazione equilibrata e ragionevole con Washington, della quale sarebbe stata il tramite privilegiato, e non in una situazione di rivalità con l’America che avrebbe potuto portare solo al fallimento, perché l’Europa in questo caso non avrebbe seguito Parigi. Si trattava di portare avanti l’ispirazione gollista fondamentale di una “Europa europea”, senza cadere negli eccessi che avevano portato alla rottura con Washington a partire dal 1963. Ma il Vertice delle Azzorre si rivelò deludente in materia monetaria, perché se gli americani si impegnavano a tornare alla convertibilità del dollaro – un fatto capitale se si voleva effettivamente ripristinare un sistema definitivo di parità fisse – in realtà Washington non mantenne, se non parzialmente, i suoi impegni. L’accordo dello Smithsonian del 18 dicembre 1971 riprendeva solo in parte quello stipulato fra P. e Nixon alle Azzorre. Il dollaro restava inconvertibile e gli americani non si impegnarono a difendere la nuova parità della loro moneta. La fluttuazione del dollaro era ormai inevitabile: era di fatto l’abbandono del sistema di Bretton Woods e delle parità fisse, prima dell’abbandono ufficiale alla conferenza della Giamaica nel gennaio 1976. Si trattava di un sovvertimento profondo della politica seguita dagli americani dal 1947: ormai, su un punto essenziale, gli interessi strettamente nazionali degli Stati Uniti prendevano il sopravvento sulle loro responsabilità come capofila del “mondo libero”. P., con la sua esperienza di banchiere, ne restò profondamente colpito e questo rafforzò, come si è visto, il suo impegno europeo. A partire da questo momento compì un passo decisivo: per resistere al dominio del dollaro, un accordo europeo era più importante che forzare la moneta americana a restare nel quadro delle parità fisse.
A partire dal 1973, P. ormai non cercò più tanto di proporsi come intermediario privilegiato fra gli Stati Uniti e l’Europa, mostrandosi più interessato a compattare l’Europa per controbilanciare la prepotenza americana, il che rappresentava un certo ritorno a un gollismo più duro. Così Parigi si oppose con successo al progetto, annunciato il 23 aprile 1973 da Kissinger, di proclamare un “anno dell’Europa”, durante il quale le relazioni transatlantiche sarebbero state ridefinite intorno a una nuova Carta atlantica. Washington in realtà voleva aggiudicarsi una vera leadership, con il pretesto di strutturare le relazioni transatlantiche e di “globalizzarle”, collegando questioni economiche (dove era Washington a chiedere) e questioni di sicurezza (dove erano gli europei a chiedere). Questi timori erano accresciuti da un progetto americano di una “Dichiarazione comune di principi per l’Alleanza atlantica”. Si riteneva che tale Dichiarazione intendesse attribuire un ruolo dirigente agli Stati Uniti in tutti gli ambiti in un grande insieme atlantico, comportando un ritorno di fatto della Francia nella NATO e portando la CEE a rinunciare «a definire progressivamente la sua autonomia e la sua personalità politica in rapporto agli Stati Uniti». Anche in questo caso Parigi bloccò abilmente l’offensiva. Ma il dibattito con gli Stati Uniti, risolto su questo punto, si trasferiva su un’altra questione connessa, quella del tipo di rapporti da stabilire fra gli Stati Uniti e la CEE. In effetti, durante l’estate del 1973, i belgi e i tedeschi, preoccupati per il blocco della Carta atlantica provocato dalle reticenze francesi, proposero di elaborare parallelamente un documento sulle relazioni fra la CEE e gli Stati Uniti. Washington auspicava che questo documento riaffermasse «il carattere centrale della relazione transatlantica» e prevedesse una consultazione preliminare con gli Stati Uniti prima di qualsiasi decisione economica della CEE. I francesi accettarono che si preparasse una Dichiarazione Stati Uniti-CEE (che approderà alla fine alla Dichiarazione del Vertice atlantico di Ottawa nel giugno 1974), a condizione che parallelamente si mettesse a punto un testo sull’“identità europea”, affinché non si rischiasse di annacquarsi nel dialogo transatlantico. Fu questa l’origine della Dichiarazione sull’identità europea decisa al Vertice di Copenaghen nel dicembre 1973. Questo testo confermava gli “stretti legami” fra i Nove e gli Stati Uniti e la volontà di sviluppare la cooperazione con loro, ma al tempo stesso riaffermava, secondo la tesi francese, che i Nove formavano una «entità distinta e originale». Il documento esponeva le linee generali d’azione dell’Europa rispetto ai diversi problemi mondiali, inclusi la distensione, il Medio Oriente, la Cina, il sottosviluppo, in maniera generale ma sottolineando che l’Europa non era solo una potenza regionale, al contrario di quanto sostenuto da Kissinger.
La guerra del Kippur, nell’ottobre 1973, e le sue conseguenze (lo choc petrolifero) complicarono, come è noto, i rapporti franco-americani, perché Parigi era in disaccordo con Washington sulla crisi del Medio Oriente e ostile alle iniziative americane per costituire un gruppo di paesi consumatori di petrolio. Per i francesi l’invito rivolto da Nixon il 9 gennaio 1974 per una conferenza sui problemi dell’energia a Washington era anche un nuovo modo di rilanciare il progetto di Dichiarazione atlantica di Kissinger: equivaleva a creare sotto la direzione americana “una comunità Stati Uniti/Europa/Giappone”. Ma in questo caso i francesi non furono seguiti dai partner europei, che nel febbraio 1974 accettarono la creazione di un’Agenzia internazionale dell’energia, secondo la tesi di Washington. Ciò rappresentò un notevole colpo alla politica europea della Francia, il cui rilancio nell’autunno 1973 era parso la sola risposta possibile alle difficoltà crescenti con Bonn, ma anche con Bonn e Mosca.
In effetti, questo rilancio era essenziale anche in rapporto alla Repubblica Federale Tedesca. P. evidentemente nutriva seri dubbi in merito alla profondità dell’impegno tedesco nella costruzione europea. Incideva anche il peso della divisione della Germania e dell’Ostpolitik, che ormai secondo il presidente era prioritaria per Bonn in rapporto alla CEE. Da qui la sua volontà costante di tornare – nelle relazioni con Bonn riguardanti la costruzione europea – alle questioni concrete, senza fermarsi alla fraseologia sopranazionale. In effetti, per P. esisteva un legame molto stretto fra la questione tedesca e la questione europea, un legame che nascondeva dei pericoli che potevano essere scongiurati solo dal progressivo instaurarsi di solidarietà effettive franco-tedesche ed europee, al di là delle costruzioni teoriche e del mito dell’integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).
Le preoccupazioni di P. nei confronti di Bonn si aggravarono nel 1973. Quell’anno il presidente cercò l’appoggio della Germania nelle diverse crisi che abbiamo menzionato, ma in gran parte senza successo. Inoltre, a Parigi suscitò grande scalpore l’importanza assunta dalla visita di Leonid Brežnev a Bonn nel maggio 1973 e l’ampiezza degli accordi economici conclusi in questa circostanza. Quanto all’Ostpolitik, che P. aveva approvato nella sua prima fase e che consisteva di fatto nel riconoscere la divisione della Germania, nel 1973 sembrava avviata sulla strada della costituzione di un sistema europeo di sicurezza indipendente dagli Stati Uniti e fondato su un accordo tedesco-sovietico che preoccupava fortemente P. Incontestabilmente, nell’autunno 1973 P. nutriva profonde inquietudini a proposito dell’evoluzione della Germania, delle relazioni Est-Ovest e dell’Europa. Si può pensare che la risposta di P. alle derive che temeva da parte di Bonn fosse il suo tentativo di rilanciare la cooperazione politica nell’autunno 1973, approdando al Vertice europeo di Copenaghen del dicembre 1973. Si trattava di ancorare la Germania per mezzo di un’Europa concreta, non ideologica.
In definitiva il bilancio non fu negativo, malgrado i limiti derivanti dal rifiuto del principio di sopranazionalità: sblocco dell’adesione britannica, preparazione dell’istituzionalizzazione dei Consigli europei, avvio della creazione di una politica monetaria europea, difesa dell’identità europea di fronte a Washington e a Mosca, accompagnamento prudente della Repubblica Federale Tedesca. La visione pragmatica ma duttile di P. corrispondeva probabilmente alle necessità dell’epoca, soprattutto se si tiene conto degli sconvolgimenti del sistema internazionale (distensione americani-sovietici e Ostpolitik, in particolare). P. si era liberato da certi irrigidimenti del periodo di de Gaulle, aveva saputo concludere i compromessi necessari, senza tuttavia modificare in profondità la filosofia europea interstatale della Francia.
Georges-Henri Soutou (2010)