Il principio di non discriminazione è volto a garantire la parità di trattamento fra le persone quali che siano la nazionalità, il sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età e le tendenze sessuali. A tal fine il Consiglio dei ministri, deliberando con Voto all’unanimità, su proposta della Commissione europea e dopo aver consultato il Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere tali disparità. Il suddetto principio ha trovato nel Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) (v. Trattato di Maastricht) espresso e generale riconoscimento in tre fattispecie: come generale divieto di discriminazione in base alla nazionalità (art. 12 TCE); come esclusione di qualsiasi discriminazione tra produttori e consumatori, in tema di organizzazione comune dei mercati agricoli (art. 34, par. 2 TCE); come principio che sancisce la parità di retribuzioni tra lavoratori dei due sessi (art. 141 TCE).
Il Trattato di Amsterdam ha in seguito rafforzato la materia introducendo un nuovo articolo (art. 13 TCE) che ha ampliato la base giuridica dell’art. 12 attraverso specifiche fattispecie discriminatorie, allegando altresì la Dichiarazione n. 11 sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali, con la quale l’Unione europea si è impegnata a rispettare lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese, le associazioni religiose, le organizzazioni filosofiche e non confessionali, e la Dichiarazione n. 22 con la quale si è convenuto che, nelle misure per la realizzazione del Mercato unico europeo, le Istituzioni comunitarie terranno sempre conto delle esigenze dei portatori di handicap. Riguardo alla parità di trattamento fra uomini e donne, nel Trattato di Amsterdam sono state inoltre apportate ulteriori modifiche tese a eliminare le disuguaglianze e a promuovere l’uguaglianza. In ultimo, il Trattato di Nizza ha aggiunto il paragrafo 2 all’art. 13, specificando che la procedura di approvazione è quella seguita dall’art. 251 del TCE quando il Consiglio adotta misure di incentivazione comunitaria destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a realizzare gli obiettivi generali di lotta alla discriminazione di cui al paragrafo 1 della norma.
Il Diritto comunitario si è dunque evoluto, passando dalla previsione di un generale divieto di discriminazione in base alla nazionalità sino alla proibizione di ogni discriminazione che fondandosi su diversi criteri distintivi, giungesse tuttavia a tale finalità (sentenza Sotgiu, 12/2/1974, causa 152/73 in “Raccolta della giurisprudenza”, p 153).
Come evidenziato dalla stessa Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) «il principio generale d’uguaglianza, di cui il divieto di discriminazione a motivo della cittadinanza è solo un’espressione specifica, è uno dei principi fondamentali del diritto comunitario [v. Cittadinanza europea]. Questo principio impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che la differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata» (sentenza Uberschar, 8 ottobre 1980, causa 810/79, ivi, p. 2747 e ss.).
Il concetto di discriminazione presuppone strutturalmente una comparazione tra due o più rapporti, facendo però attenzione al fatto che non sempre una diversità di trattamento sulla base della nazionalità concreta una violazione del menzionato art. 12 del Trattato.
In particolare, secondo un consolidato indirizzo della Corte di giustizia, si ha discriminazione sostanziale «sia nel trattamento diverso di situazioni simili, sia nello stesso trattamento di situazioni diverse», mentre la disparità di trattamento fra situazioni non comparabili si risolve, per contro, in una discriminazione “formale” che non contrasta con il dettato comunitario (sentenza del 17 luglio 1963, causa 13/63, Governo italiano contro Commissione CEE, ivi, 1963, p. 33 e ss.).
Va precisato quindi che l’art. 12 svolge un ruolo non esaustivo rispetto agli analoghi criteri individuabili nel Trattato CE. Ne consegue che esso trova applicazione autonoma nella misura in cui non è previsto uno specifico divieto di discriminazione nelle singole aree di codificazione.
Di contro, occorre precisare che il principio in esame non costituisce l’unico fattore verso l’abolizione delle norme e pratiche discriminatorie ma viene a giocare un ruolo nell’ambito più generale delle libertà fondamentali e della relativa evoluzione giurisprudenziale (v. anche Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea).
Vittorio Calaprice