L’elezione del Parlamento europeo tra normativa comunitaria e leggi nazionali
Il Parlamento europeo (PE) è composto dai rappresentati dei popoli degli Stati che fanno parte dell’Unione europea, eletti direttamente dai cittadini europei a suffragio universale (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo). Il riparto dei seggi è stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma), mentre il sistema elettorale, l’elettorato attivo e passivo, le incompatibilità sono disciplinate da leggi nazionali e variano quindi, in modo più o meno sensibile, da Stato a Stato. Tale differenziazione non è voluta dal Diritto comunitario che, anzi, disciplina le tappe di una procedura che dovrebbe portare all’adozione di una procedura elettorale uniforme in tutti gli Stati o, almeno, all’elaborazione di “principi comuni”. È infatti stabilito nell’art. 190, par. 5 e 6 del Trattato, che in materia il PE eserciti l’iniziativa nei confronti del Consiglio dei ministri, proponendo un progetto sulla base del quale quest’ultimo è chiamato ad adottare all’unanimità (v. Voto all’unanimità) una Decisione contenente le disposizioni da suggerire agli Stati membri. Dal momento che il Consiglio potrebbe modificare l’originaria proposta del PE, il Trattato prevede che prima dell’adozione della decisione finale l’assemblea esprima a maggioranza assoluta un Parere. L’attuazione di questa disposizione del Trattato, presente sin dalla versione di Roma del 1957, forma da tempo oggetto di dibattito in ambito comunitario, ma non ha portato all’adozione di alcuna procedura elettorale uniforme (PEU). In seguito alla integrazione del testo originario dell’art. 190, avvenuta con il Trattato di Amsterdam del 1997, con riferimento all’adozione almeno di “principi comuni” si è giunti, nel 2002, alla Decisione del Consiglio 2002/772/CE, che «modifica l’atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo, a suffragio universale diretto, allegato alla decisione 76/787/CECA, CE, Euratom» e che, indirizzata agli Stati nazionali, ha trovato in molti di questi ultimi applicazione a partire dalle elezioni del 2004. La Decisione, contenente “principi comuni” in materia di elezioni è stata da taluni considerata il primo passo verso l’adozione di sistemi elettorali omogenei, per altri ha rappresentato il massimo risultato possibile vista la perdurante difficoltà di giungere alla definizione di una procedura elettorale uniforme.
Il ruolo rappresentativo del Parlamento europeo
Sebbene le elezioni a suffragio universale diretto fossero già previste nel testo originario del Trattato di Roma, la prima consultazione elettorale per la formazione del PE ebbe luogo solo nel giugno del 1979, oltre venti anni dopo la nascita della Comunità economica europea. Sino a quel momento l’istituzione “Parlamento” funzionò quale periodica occasione di incontro tra parlamentari nazionali. Benché nella originaria stesura del Trattato al PE non fosse attribuito un significativo ruolo nel Processo decisionale comunitario, può comunque dirsi che sin dal primo momento a esso è stato affidato il compito fondamentale di rappresentare in modo indiviso il popolo europeo, sulla base di uno modello, proprio dei singoli Stati nazionali che compongono l’Unione, per il quale in un sistema democratico almeno un organo di indirizzo politico deve essere di diretta legittimazione popolare. Tuttavia, almeno nella fase iniziale, il ruolo di rappresentante svolto dal PE si è presentato diverso da quello proprio dei parlamenti nazionali, sostanziandosi essenzialmente nella “rappresentazione”, in un’unica sede, delle diversità e delle omogeneità presenti nei diversi popoli dell’Unione. Tale impostazione ha a lungo limitato il ruolo degli europarlamentari sotto un duplice profilo. Innanzitutto ha rimarcato il legame “politico” di questi ultimi con i singoli popoli nazionali, qualificandoli come rappresentanti degli stessi in seno al PE, privilegiando così l’ottica nazionale rispetto a quella sopranazionale. Questo aspetto è stato superato con la citata decisione 2002/722 del Consiglio, con la quale è stata introdotta la definizione, poi fatta propria dai legislatori nazionali, di “membri del PE”, espressione che sottolinea in modo diretto il livello sopranazionale della funzione degli europarlamentari, chiamati a rappresentare il popolo europeo nelle sue differenziazioni nazionali. La seconda iniziale limitazione del ruolo rappresentativo del PE derivava dall’assenza del potere di elaborare politiche. Anche questo aspetto può dirsi oggi in buona parte superato, dal momento che, con le diverse modifiche del Trattato, il PE ha assunto un crescente ruolo di making-policy non tanto nella forma di intervento diretto nel processo decisionale, quanto piuttosto in quella di controllo delle decisioni prese dalle altre istituzioni “politiche” dell’Unione (v. Istituzioni comunitarie). Ne è derivato un cambiamento nel suo ruolo rappresentativo, nel quale alla funzione di manifestazione della realtà sottostante, incentrata sul rapporto rappresentativo, si è affiancata quella di sostituzione della stessa nei casi in cui il PE partecipa al processo decisionale comunitario. Ciò ha avvicinato l’assemblea rappresentativa comunitaria al compito che attualmente svolgono i parlamenti dei singoli Stati europei. In questi ultimi, infatti, la formulazione delle politiche è sempre più una prerogativa degli esecutivi ma resta ferma l’indispensabilità, per la legittimità del sistema politico, della presenza di un organo direttamente eletto dai cittadini al quale siano affidate funzioni di indirizzo e soprattutto di controllo politico.
La composizione del Parlamento europeo
Il PE è composto da un numero di parlamentari “variabile”, sia nel totale sia nella suddivisione dei seggi tra gli Stati. Il Trattato CE si limita a stabilire il numero massimo di eurodeputati, che nella formulazione di Nizza è stato fissato a 732. Si tratta di un numero oggettivamente elevato e che presenta l’indubbio rischio, come è stato sottolineato, di nuocere all’efficacia del lavoro del Parlamento, trasformandolo in un forum invece che in una sede decisionale. Tuttavia, considerato il ruolo di rappresentanza di una “articolata diversità” che questa istituzione è chiamata a svolgere, si è ritenuto necessario mantenere una certa proporzionalità tra i seggi al Parlamento e la popolazione degli Stati membri. Inoltre, riconosciuto ai Partiti politici europei un ruolo nel processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), si è voluto garantire alle diverse forze politiche la possibilità di essere rappresentate, anche negli Stati meno popolati. Da qui la determinazione di un numero minimo di deputati per paese relativamente alto (cinque).
I numerosi allargamenti (v. Allargamento) che hanno interessato l’Unione hanno reso necessari alcuni aggiustamenti del numero e della proporzione dei parlamentari eletti dai singoli paesi. Infatti il Trattato di Nizza, con riferimento in prospettiva alla legislatura 2004-2009 (attualmente in corso), ha ridotto il numero dei parlamentari dei paesi facenti già parte dell’Unione, al fine di consentire la determinazione del numero dei rappresentanti da attribuire ai paesi allora candidati e oggi membri dell’Unione senza incrementare il numero massimo previsto. E infatti l’ingresso di dieci nuovi paesi nel 2004 ha riportato il numero dei parlamentari al tetto massimo, mentre il successivo ingresso di due paesi nel 2007, quindi a legislatura in corso, ha elevato il numero ben oltre la soglia (attualmente il numero è di 785). Ciò renderà necessaria, nella prossima legislatura, una nuova rideterminazione dei seggi.
Il dibattito comunitario in tema di procedura elettorale uniforme
I parlamentari europei, come già sottolineato, vengono eletti a livello nazionale sulla base di regole stabilite da ogni Stato. Tuttavia, sin dall’avvio della Comunità europea, fu dibattuta l’opportunità e l’importanza di adottare una procedura elettorale per l’elezione dei parlamentari europei uniformemente utilizzata in tutti gli Stati membri. Inizialmente questo tema fu accostato al principio del suffragio universale, ritenendo entrambi questi aspetti essenziali per la creazione di una assemblea realmente rappresentativa dei popoli europei, la quale fosse legittimata dal voto diretto degli elettori per l’esercizio dei suoi poteri, richiamandosi al sistema parlamentare tradizionale delle moderne democrazie occidentali. In occasione dell’adozione dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto (Atto di Bruxelles, 20 settembre 1976), la nozione di PEU fu tuttavia scissa dal principio del suffragio universale, e la sua definizione fu rinviata a un progetto ad hoc predisposto dal Parlamento europeo e adottato dal Consiglio dei ministri seguendo la procedura sopra descritta. La separazione delle due questioni si rese necessaria al fine di consentire in tempi brevi l’indizione di elezioni dirette e fu quindi previsto che «fino all’entrata in vigore di una procedura elettorale uniforme […], la procedura elettorale [fosse] disciplinata in ciascun Stato membro dalle disposizioni nazionali» (articolo 7, paragrafo 2, Atto di Bruxelles). Da quel momento furono presentate, senza successo, una serie di relazioni e di proposte di discussione in materia di PEU (Relazione Seitlinger approvata dall’Assemblea nel 1982 ma accantonata dal Consiglio, Relazione Bocklet, del 1985 che non riuscì a completare neppure l’iter parlamentare, Relazione De Gucht, approvata dal PE nel 1993 ma bocciata dal Consiglio), fino a giungere alla Relazione Anastassopoulos, che ha dato l’avvio a un lungo processo di concertazione interistituzionale, culminato nel progetto di decisione del Consiglio del 21 maggio 2002, che è stato approvato – secondo la procedura di parere conforme – dal Parlamento europeo nel giugno dello stesso anno. Da quel momento è iniziata la fase nazionale della procedura, mediante la quale gli Stati sono chiamati a dare attuazione ai principi contenuti in tale decisione, trasformandoli in disposizioni normative, in armonia con le rispettive Costituzioni.
Uniformità e principi comuni nell’elezione dei parlamentari europei
Il dibattito, tuttora attuale, in materia di procedura di elezione dei parlamentari europei riflette un elemento emerso sostanzialmente in tutte le diverse relazioni prima citate, e cioè la difficoltà, se non l’impossibilità, di stabilire in modo univoco cosa si debba intendere per uniformità e soprattutto, sul piano pragmatico, fino a che punto l’individuazione di singoli principi comuni possa surrogare la mancata adozione di una PEU. In particolare, è stato sottolineato che “uniformità non è sinonimo di identità”, con la conseguenza che tale principio potrà ritenersi soddisfatto anche qualora permangano alcune differenze tra le leggi nazionali di applicazione di regole uniformi. Dello stesso tenore sono stati anche i pareri delle diverse Commissioni giuridiche del Parlamento europeo investite della questione, dai quali si evince l’orientamento a considerare “uniforme” una procedura elettorale solo quando questa assicuri una sostanziale identità negli elementi costitutivi del sistema, presentandosi quindi restrittiva nell’autorizzazione a un ricorso eccessivo a deroghe, ammesse unicamente in casi particolari, ma tollerando flessibilità organizzative nazionali su questioni specifiche e comunque marginali. Resta tuttavia il dato, non controverso, in base al quale l’uniformità debba riguardare non solo la formula elettorale, bensì anche i principali elementi che caratterizzano un sistema elettorale. Con la conseguenza che qualora l’uniformità venga sostituita dall’adozione di principi comuni, questi ultimi debbono riguardare in senso ampio il procedimento di selezione dei rappresentanti al PE e in particolare, oltre la formula, la presenza o meno e l’eventuale entità della clausola di sbarramento, l’ampiezza delle circoscrizioni, il voto di preferenza, l’elettorato attivo e passivo, le incompatibilità tra la carica di parlamentare europeo e quella di componente di un organo rappresentativo nazionale.
Su alcuni di questi elementi vi è già una sostanziale uniformità nelle legislazioni nazionali. Può ad esempio parlarsi di sostanziale omogeneità tra i diversi Stati in relazione all’elettorato attivo che spetta ai cittadini comunitari, che è fissato in tutti i paesi a 18 anni. Gli Stati sono inoltre tenuti a consentire l’esercizio del diritto di voto anche ai residenti nel paese, che siano cittadini di un altro paese UE, alle stesse condizioni alle quali votano i propri cittadini, con la sola condizione che ne facciano richiesta. È la categoria definita dell’elettore comunitario, alla quale si affianca quella del candidato comunitario, che presenta tuttavia, a differenza della prima, alcune differenziazioni al suo interno, dal momento che gli Stati hanno una diversa disciplina che riguarda in modo particolare l’età minima per candidarsi, le cause di ineleggibilità e le modalità di presentazione delle candidature, con un ruolo più o meno accentuato dei partiti politici.
Per quanto concerne, invece, gli elementi più strettamente attinenti al meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, tutti i paesi adottano oggi la formula proporzionale, seppure con diversi sistemi di riparto (D’Hondt, d’Hare). Anche la Gran Bretagna (v. Regno Unito), infatti, ha aderito, a partire dalle elezioni del 2004, al sistema proporzionale e questo è stato considerato un traguardo importante, dal momento che l’adozione di questa formula elettorale è sempre stata considerata un elemento importante per rafforzare il carattere rappresentativo del PE, confermando così che il ruolo attribuito a quest’ultimo nel sistema istituzionale comunitario è soprattutto quello di dare rappresentazione dei popoli dell’Unione piuttosto che di sostituire gli stessi nell’agire politico. Se l’analisi dei sistemi elettorali adottati nei diversi paesi si limitasse quindi solo alla formula adottata, si potrebbe parlare di una sostanziale uniformità delle procedure elettorali nazionali per la formazione del PE. Invece, la presenza in alcune legislazioni di correttivi capaci di limitare anche in modo sensibile la proporzionalità riduce fortemente il livello di omogeneità dei procedimenti di selezione dei rappresentanti. Due in particolare presentano rilevanza: la soglia di sbarramento e l’ampiezza delle circoscrizioni. Quest’ultima, pur non potendo essere considerata esplicitamente un correttivo, incide fortemente sulla capacità del sistema proporzionale di “fotografare” la realtà politica sottostante. Infatti, circoscrizioni piccole riducono il grado di proporzionalità, che risulta invece pienamente soddisfatto in presenza di un unico collegio elettorale o, qualora ciò non sia possibile per l’estensione del territorio e il numero degli elettori, raggiunge livelli soddisfacenti qualora il recupero dei seggi avvenga su base nazionale. Nei diversi Stati europei l’ampiezza delle circoscrizioni varia invece notevolmente, come pure non uniformemente applicato è il criterio del recupero dei resti su base nazionale, con la conseguenza che il livello di proporzionalità dei singoli sistemi viene sensibilmente influenzato da questo elemento.
La soglia di sbarramento rappresenta, invece, un correttivo esplicito, avendo come finalità la non attribuzione di seggi alle formazioni politiche che non raggiungono una soglia percentuale di consensi predefinita dal legislatore. Per le elezioni del PE la soglia massima, indicata nella decisione 2002/722/CEE è del 5% e le leggi nazionali che presentano tale correttivo tendono a collocarsi al limite alto di tale percentuale. Si tratta di un correttivo al sistema proporzionale che ha l’indubbio vantaggio di ridurre la frammentazione dei partiti o comunque delle correnti politiche presenti in un’Assemblea rappresentativa. Tuttavia, nel caso del PE, la sua applicazione non uniforme in tutti i paesi altera in parte questo risultato. Infatti formazioni politiche “minori” (per numero di consensi) ma diffuse in tutta l’Unione riescono a ottenere seggi solo nei paesi che non prevedono la soglia di sbarramento, subendo una sottorappresentazione che è conseguenza unica e diretta dell’assenza di questo principio comune. E ciò contrasta anche con la tendenza, da sempre promossa a livello comunitario, all’aggregazione dei parlamentari comunitari in ragione non della nazionalità, bensì dell’orientamento politico che rappresenta oggi un dato pressoché acquisito.
La normativa italiana per l’elezione dei parlamentari UE
La legge per l’elezione dei membri italiani del PE è la l. 24/1/1979, n. 18, integrata e modificata nel tempo da diversi atti normativi. Un primo intervento, posto in essere con due leggi, approvate in rapida sequenza (27 marzo 2004, n. 78 e 8 aprile 2004, n. 90) ha definito le incompatibilità tra la carica di europarlamentare e altri incarichi politici, aspetto che costituisce da tempo uno dei punti di maggiore attenzione a livello comunitario, insieme alla volontà di pervenire ad uno Statuto dei parlamentari europei, anch’esso poi adottato nel 2005. Sulla base dell’attuale normativa, il membro italiano del PE non può essere componente di un’altra istituzione comunitaria, del parlamento e del governo del paese di provenienza, in sintonia con quanto proposto dalla decisione 2002/772/CE del Consiglio. Inoltre, vi è incompatibilità anche con la carica di consigliere o assessore regionale, presidente della giunta regionale, provinciale e di sindaco (di comuni con più di 15.000 abitanti). Nel complesso, la normativa per i membri del PE si presenta più restrittiva rispetto a quella riguardante i parlamentari nazionali, dal momento che questi ultimi possono essere anche membri del governo nazionale, oltre che sindaci di comuni fino a 20.000 abitanti. Per quanto riguarda l’elettorato attivo e passivo, la legge rinvia a quanto previsto per la Camera dei deputati, e quindi riconosce la possibilità di candidarsi solo a quanti abbiano più di 25 anni (l’età più alta tra i paesi UE). Ai partiti politici viene riconosciuto un ruolo centrale nella presentazione delle candidature. Infatti, i candidati presentati da partiti presenti nell’ultima legislatura sia alla Camera nazionale sia al PE non necessitano della raccolta delle firme per la sottoscrizione della loro candidatura. Gli altri candidati dovranno, invece, raccogliere un numero di firme significativo (35.000 a fronte di un massimo di 4500 per la Camera dei deputati) e che mira a scoraggiare candidature prive di un reale supporto elettorale di partenza. Sul piano degli elementi caratterizzanti il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, la normativa italiana delinea un sistema proporzionale, parzialmente modificato con la l. 20 febbraio 2009, n. 10, che ha introdotto una clausola di sbarramento al 4% dei voti validi espressi su base nazionale. Tale riforma ha notevolmente ridotto l’elemento della “massima rappresentatività” che originariamente caratterizzava il sistema, anche se restano fermi altri aspetti orientati in tal senso, come l’ampiezza delle circoscrizioni e il recupero dei resti su base nazionale. Peraltro, in quest’ultima operazione vengono presi in considerazione anche i voti conseguiti dalle liste che non hanno raggiunto la soglia di sbarramento, consentendo quindi anche alle formazioni politiche più piccole di poter concorrere al riparto dei seggi non attribuiti nella prima applicazione del quoziente elettorale.
Anna Papa (2009)
Bibliografia
Bardi L., Il Parlamento della Comunità europea, il Mulino, Bologna 1989.
Lanchester F., La procedura elettorale uniforme tra prospettiva europea e interessi nazionali, in AA.VV, Scritti in onore di Emilio Romagnoli, Giuffrè, Milano 2000.
Vigevani G.E., Parlamento europeo: una nuova procedura elettorale uniforme, in «Quaderni costituzionali», a. XXIII, n. 1, 2003.