Prodi, Romano
P. (Scandiano, Reggio Emilia 1939) si è laureato in Giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano e si è specializzato all’università di Milano e alla London school of Economics. È stato visiting professor alla Harvard University e allo Stanford Research Institute. La sua carriera accademica si è svolta alla Facoltà di Scienze politiche di Bologna: assistente (1963), professore incaricato (1966), professore ordinario (1971-1999) di Organizzazione industriale e Politica industriale. Dal novembre 1978 al marzo 1979 è ministro dell’Industria; dal novembre 1982 all’ottobre 1989 presidente dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), dove tornerà, sempre in qualità di presidente, nel biennio 1993-94.
Nel febbraio 1995 fonda la coalizione dell’Ulivo che vince le elezioni politiche del 1996. Dal maggio 1996 all’ottobre del 1998 è presidente del Consiglio dei ministri. Dal 1999 al 2004 è presidente della Commissione europea. Alla scadenza dell’incarico, sarà confermato candidato premier per il centrosinistra con le elezioni primarie dell’ottobre del 2005. Con la vittoria della sua coalizione alle elezioni dell’aprile 2006, sarà nuovamente nominato presidente del Consiglio, incarico che dovrà lasciare con le elezioni anticipate della primavera 2008.
La presidenza della Commissione europea. Il 24 marzo 1999, in seguito allo scandalo che aveva travolto la Commissione presieduta dal lussemburghese Jacques Santer, i capi di Stato e di governo europei, riuniti a Berlino, designarono P. presidente della Commissione europea, sia per i nove mesi restanti, fino al termine del mandato della commissione precedente, sia per un nuovo mandato. In quell’occasione, il Consiglio europeo investì il presidente nominato del compito di formare una Commissione capace di avviare un serio programma di ammodernamento e riforme, al fine di migliorarne l’organizzazione interna, l’amministrazione e il controllo finanziario. Sulla base del Trattato di Amsterdam (che sarebbe entrato in vigore nel giro di poco tempo, il 1° maggio 1999), il presidente designato avrebbe dovuto ottenere l’approvazione del Parlamento europeo: il 13 aprile del 1999 P. si presentò quindi davanti a quell’assemblea (ormai in scadenza di legislatura) e tenne un primo discorso programmatico.
I temi affrontati in quell’occasione sarebbero stati il perno dell’azione della futura Commissione Prodi. Sul piano politico, l’Unione europea (UE) si trovava di fronte all’impegno, di grande portata, di allargare i propri confini e di permettere l’uscita da situazioni di instabilità dei numerosi paesi limitrofi, in un’ottica di consolidamento della propria area di sicurezza (e di influenza) e di aiuto a questi paesi (v. anche Allargamento). A tale scopo sarebbe stato necessario definire un piano preciso e condiviso per regolare l’ingresso nella UE degli Stati con cui erano state avviate le trattative. Sul piano economico, le grandi sfide erano l’introduzione dell’Euro (il change-over previsto per il 1° gennaio 2002) e il governo dell’economia e della politica monetaria dell’Unione, come completamento del Mercato unico europeo, teso all’integrazione dei mercati finanziari. Un altro obiettivo indicato in quell’occasione era il potenziamento del ruolo della Commissione per risollevarne il prestigio, nella prospettiva di un rafforzamento dell’ottica europea, incarnata proprio da quell’istituzione.
L’approvazione vera e propria di P. quale presidente designato avvenne nel corso della sessione plenaria di maggio con 392 voti favorevoli, 72 contrari e 41 astensioni. In quell’occasione P. affermò che il rilancio della Commissione, così come richiesto dal Consiglio europeo, doveva necessariamente passare attraverso una precisa ridefinizione del rapporto tra le Istituzioni comunitarie e una chiarificazione del rapporto tra politica e amministrazione all’interno della stessa commissione, per evitare i problemi che avevano compromesso la precedente commissione e rendere più funzionale e controllabile l’operato dell’intero apparato.
Altro passaggio fu la scelta dei commissari. Sempre in base al Trattato di Amsterdam, il presidente designato doveva consultare i governi nazionali per individuare e scegliere i candidati: era la prima volta che tale potere di influenza sulla nomina dei commissari veniva esercitato. Il 21 luglio P. presentò al Parlamento la sua Commissione, nominata d’intesa coi governi, sottolineando come, a suo avviso, i nomi scelti fossero di personalità di alto livello, in grado di svolgere un ruolo superiore a qualsiasi governo nazionale; la sua intenzione era stata di concretizzare ed evidenziare il cambiamento politico che si era voluto introdurre e, in tal senso, la Commissione avrebbe dovuto dar prova di grandi capacità e di grande spirito di servizio. P., con queste parole, interpretava espressamente e in modo estensivo quanto previsto dal Trattato di Amsterdam, che rafforzava il ruolo del presidente della Commissione: egli ottenne così dai singoli commissari un accordo verbale in base al quale, in caso di gravi mancanze, il presidente li avrebbe potuti singolarmente obbligare alle dimissioni e, nel caso lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto procedere a modifiche dei singoli portafogli.
Anche per i commissari era necessario un voto di approvazione da parte del Parlamento (procedura prevista già dal Trattato di Maastricht): dovevano sottoporsi ad audizioni individuali pubbliche, da tenersi di fronte alle commissioni parlamentari competenti. In quell’occasione, vennero introdotte alcune novità procedurali, come l’invio ai commissari di formulari, incentrati su temi quali il portafoglio del commissario e il collegio nella sua interezza, che sarebbero poi serviti come base per l’audizione. L’ottenimento dell’approvazione da parte del Parlamento non fu né semplice né lineare, perché durante le audizioni i commissari furono sottoposti al “fuoco incrociato” da parte dei principali schieramenti (popolare o socialista) a seconda del partito di appartenenza del commissario esaminato. I veti incrociati sfociarono nella richiesta (avanzata dalla componente tedesca e britannica del Partito popolare europeo, PPE) di differenziare il mandato della Commissione (mandato limitato fino a fine 1999, per completare il quinquennio della Commissione Santer, e mandato pieno dal gennaio 2000). Su questo punto, la trattativa rischiò seriamente di bloccarsi e lo stesso P. minacciò di rimettere l’incarico in mancanza di mandato pieno da parte del Parlamento. Alla fine, tuttavia, il PPE accettò di non differenziare i mandati e ottenne in cambio dallo stesso P. l’impegno a un maggior coinvolgimento del Parlamento nell’attività della Commissione: il presidente si impegnò a presentarsi davanti al Parlamento ogni volta che quest’ultimo ne avesse fatto richiesta, a tenere nella massima considerazione la presentazione di proposte legislative da parte degli eurodeputati, a esaminare la possibilità di dimissionare qualsiasi commissario avesse ottenuto un voto di sfiducia personale, a consultarsi col Parlamento sulla riforma dei propri servizi e ad associare il Parlamento nei lavori delle Conferenze intergovernative.
Il 14 settembre 1999 la Commissione P. ottenne la fiducia, con una votazione piuttosto elaborata: entrando in carica per terminare il mandato della Commissione Santer, dovette ottenere la fiducia per quel mandato, cioè fino a dicembre 1999 (427 voti a favore, 138 contrari e 29 astenuti) e lo stesso avvenne per P. presidente (446 voti a favore, 123 contrari e 23 astenuti); poi fu votata la fiducia per il mandato fino al 2004 (Commissione: 404 voti a favore, 154 contrari e 37 astenuti; P.: 426 voti a favore; 134 contrari e 32 astenuti); infine una quinta votazione venne fatta per adottare una risoluzione politica generale (414 favorevoli, 142 contrari e 32 astenuti; v. Gozi, 2005, pp. 45-67).
L’allargamento. Nell’ottobre del 1999, P., ormai presidente in carica, si presentò davanti al Parlamento ed espose, riprendendo quanto già affermato in aprile, gli obiettivi principali della sua presidenza, prospettando soprattutto l’allargamento come perno degli impegni della Commissione: l’obiettivo era quello di costruire un’Europa più grande, più forte e più solidale e di creare un senso di appartenenza e uno spirito europei in tutti i cittadini del continente. «Oggi abbiamo la possibilità – che non si è mai presentata prima e forse non si presenterà mai più – di creare un’Europa in cui tutti i popoli del continente possano vivere insieme in pace, in sicurezza, in libertà, nella giustizia e nella parità dei diritti. Un’Europa democratica nella quale i diritti umani sono rispettati e nella quale vige lo Stato di diritto. Un’Europa economicamente integrata che offre crescita e prosperità attraverso un mercato unico e una moneta unica» (discorso tenuto il 13 ottobre 1999 davanti al Parlamento europeo).
Se l’allargamento è stato l’obiettivo prevalente dalla Commissione P., e per il quale lo stesso P. si è molto speso personalmente, si trattava comunque del proseguimento di un processo che aveva le sue premesse nelle decisioni prese e negli accordi firmati negli anni precedenti. Dopo la caduta del Muro di Berlino (v. Germania), infatti, la Comunità europea aveva iniziato (tra il 1991 e il 1996) una politica di apertura verso i paesi dell’Est fino alla firma dei cosiddetti “accordi europei”, tipologia particolare di accordi di associazione che prevedevano una collaborazione di tipo economico e un meccanismo istituzionalizzato di riunioni periodiche tra rappresentanti dei paesi dell’Europa centro orientale, della Comunità e degli Stati membri al fine di realizzare un coordinamento delle politiche estere e di sicurezza, oltre a una generale cooperazione politica. In ognuno di questi accordi veniva introdotto un preambolo che imponeva il rispetto dei diritti delle minoranze, dei principi democratici e dei diritti dell’uomo. Si trattava di accordi di associazione “misti” perché contemplavano competenze di tipo sia comunitario che nazionale (e la loro ratifica fu infatti subordinata alla ratifica dei parlamenti degli Stati membri, del Parlamento europeo e dei parlamenti degli Stati associati). Col Consiglio europeo di Copenaghen (giugno 1993) furono definite le condizioni di adesione, in base alle quali ai paesi associati venne imposto il rispetto di precise condizioni economiche e politiche. I Criteri di adesione (“criteri di Copenaghen”) imponevano il raggiungimento della stabilità politica e della democrazia, la tutela delle regole dello Stato di diritto e dei diritti dell’uomo e delle minoranze, l’instaurazione e il consolidamento di un’economia di mercato in grado di sopportare regole e pressioni derivanti dalla libera concorrenza, la capacità di assumere gli impegni legati all’adesione, compresa l’accettazione degli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.
L’anno successivo, a Essen, il Consiglio europeo delineò una strategia di preadesione per i potenziali nuovi Stati membri: i candidati dovevano accettare tutti i diritti e gli obblighi, presenti e futuri, del sistema comunitario e della sua struttura istituzionale, e dovevano dimostrare di essere in grado di rispettare questa assunzione di responsabilità (v. anche Paesi candidati all’adesione). Negli anni successivi furono attuate le strategie ritenute idonee a preparare in modo adeguato gli Stati associati all’adesione all’Unione, tramite provvedimenti mirati o generali (“Agenda 2000”), tesi al rafforzamento della capacità istituzionale e amministrativa dei paesi candidati e all’adeguamento delle imprese alle norme comunitarie. Fu poi avviata una strategia di preadesione rafforzata per garantire interventi efficaci in risposta alle reali esigenze dei paesi candidati, consentendo loro di ottemperare agli obblighi imposti per l’ingresso nell’UE. Il lavoro di armonizzazione dell’assetto socio-economico dei paesi candidati portò, il 12 marzo 1998, ai negoziati bilaterali con un primo gruppo di Stati (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia ed Estonia, a cui si aggiunse Cipro); con il secondo gruppo (Romania, Slovacchia, Lettonia, Lituania e Bulgaria, con l’aggiunta di Malta) i negoziati di adesione bilaterali vennero avviati il 15 febbraio 2000.
Alla fine del marzo 2000, la Commissione P. presentò una road map che individuava le priorità dei lavori per i successivi tre-sei mesi al fine di coinvolgere nei negoziati tutti gli attori del processo (Stati membri, Stati candidati e Commissione) e vincolarli a una tempistica definita. Nel dicembre 2002, la Commissione, durante il Consiglio europeo di Copenaghen, propose (e ottenne) di proseguire i negoziati con tutti gli Stati, escludendo momentaneamente Romania e Bulgaria.
Il 16 aprile 2003 ad Atene veniva firmato l’atto di adesione, con l’obiettivo (raggiunto) di far entrare ufficialmente i dieci nuovi Stati il primo maggio 2004, dopo le ratifiche degli Stati membri e dei nuovi entrati e in tempo utile per far partecipare i nuovi elettori europei alle elezioni del giugno di quell’anno. Per Romania e Bulgaria il Trattato di adesione era firmato il 25 aprile del 2005 e il pieno ingresso previsto era previsto per il gennaio del 2007.
Il Libro bianco sulla governance europea. Tra gli obiettivi strategici presentati nel febbraio del 2000 vi era anche la promozione di nuove forme del governo dell’Unione, sia per semplificarne le procedure sia per rendere più visibili i processi decisionali. Nel presentare il suo programma, lo stesso P. aveva annunciato la presentazione di un Libro bianco (v. Libri bianchi) sulla governance europea: la riforma si imponeva proprio in vista dell’allargamento e della necessità di inserire a titolo paritario i nuovi membri. Inoltre, le proposte di P. andavano nella direzione di un rafforzamento del livello sovranazionale del processo decisionale e dell’avvio di un processo di revisione dei trattati al fine di adeguarli alla nuova realtà europea. Durante il Consiglio europeo di Nizza (7-9 dicembre 2000) fu faticosamente approvato il Trattato di Nizza, che solo in parte riprendeva quanto proposto da P. in febbraio (ripartizione del numero dei rappresentanti degli Stati membri nelle istituzioni e negli organi comunitari, ampliamento dei poteri del presidente della Commissione, drastica riduzione dei casi in cui il Consiglio dei ministri deve decidere con il Voto all’unanimità), mentre l’ipotesi, avanzata dallo stesso P., di convocare una Convenzione con il compito di procedere alla revisione dei Trattati, non ebbe un grande successo (v. anche Convenzioni).
Il Libro bianco sulla governance, presentato nell’agosto del 2001, intendeva occuparsi del modo «in cui l’Unione esercita i poteri che le hanno conferito i suoi cittadini. La riforma deve incominciare subito, affinché i cittadini percepiscano il cambiamento ben prima che siano apportate ulteriori modifiche ai Trattati dell’Unione. Il Libro bianco propone una maggiore apertura nel processo di elaborazione delle politiche dell’Unione europea, così da garantire una partecipazione più ampia dei cittadini e delle organizzazioni alla definizione e presentazione di tali politiche. Esso incoraggia una maggiore apertura e responsabilizzazione di tutte le parti in causa».
Gli obiettivi proposti erano: in primo luogo una maggiore partecipazione e una maggiore trasparenza al fine di rendere le decisioni (v. Decisione) e le relative procedure più comprensibili e facili da seguire, attraverso la messa in rete delle stesse procedure di elaborazione delle politiche, in tutte le fasi del processo decisionale, attraverso un dialogo più sistematico coi rappresentanti delle autorità regionali e locali, attraverso una maggiore flessibilità nelle modalità esecutive comunitarie, attraverso la definizione di pubblici criteri di qualità (standard minimi) da rispettare nelle consultazioni sulle politiche dell’UE, attraverso l’istituzione di accordi di partenariato, oltre gli standard minimi, in determinati settori. In secondo luogo, un miglioramento delle politiche e delle normative comunitarie per permettere all’Unione di combinare strumenti politici differenti, più efficaci rispetto al raggiungimento di scopi comunitari. In tale prospettiva, la Commissione si impegnava a promuovere un uso diversificato degli strumenti a disposizione, a semplificare ulteriormente il diritto comunitario e a incoraggiare gli Stati membri a semplificare a loro volta le normative nazionali attuative delle disposizioni comunitarie (v. Semplificazione legislativa), a fissare orientamenti sull’utilizzo dei pareri degli esperti, a determinare i criteri per le proprie attività di indagine e i criteri per l’istituzione di nuove agenzie di regolamentazione e il contesto giuridico in cui avrebbero dovuto operare.
Nei fatti, lo stesso Libro bianco era stato pensato e proposto come un primo tentativo di rendere accessibili i processi decisionali e di aprire spazi di partecipazione: nel sito in cui venivano riportate tutte le informazioni e il collegamento ai dibattiti interattivi, era infatti prevista la possibilità di presentare osservazioni alle proposte in esso contenute da inviare o via mail o via posta alla Commissione europea, garantendo la pubblicazione sul sito web delle osservazioni pervenute.
La riforma della Commissione. Un altro degli obiettivi prioritari, già annunciato da P. all’assunzione dell’incarico e perseguito nel corso del suo mandato, era la riforma della struttura interna della Commissione (v. Nugent, 2001). Concentrandosi sostanzialmente sui suoi principali compiti (elaborazione delle politiche comunitarie, miglioramento delle funzioni legate al potere di iniziativa e alla sorveglianza sulla corretta esecuzione della legislazione comunitaria), l’intento era quello di rinnovare le procedure decisionali e operative e riorganizzare il personale sulla base delle mansioni che la stessa Commissione aveva assunto nel corso del tempo senza mai aver adeguato la propria struttura amministrativa. Venivano così ridefinite e riorganizzate le Direzioni generali (il cui numero era ridotto da 42 a 36) e i loro servizi e veniva rafforzato il ruolo di coordinamento della Segreteria generale. Risultava potenziato il settore delle relazioni esterne, con la creazione di cinque nuove Direzioni generali: Relazioni esterne (quasi un equivalente di un ministero degli Esteri); Allargamento, per gestire i processi di adesione; Politica commerciale; Sviluppo; l’Ufficio di gestione del programma di assistenza esterna (EuropeAid). L’attività di revisione degli assetti non si limitava a una semplice ristrutturazione amministrativa: P. nominava il vicepresidente Neil Kinnock commissario responsabile della riforma, ponendo sotto la sua autorità una task force (formata dai commissari Ignacia de Loyola de Palacio, Michaele Schreyer, Paul Nielson, António Vitorino, Mario Monti, Franz Fischler e Pascal Lamy) col compito di monitorare il processo di attuazione della riforma, avvalendosi della collaborazione dei direttori generali e dei capi servizi, consultando il personale e incaricando esperti esterni di fornire pareri.
La riforma intendeva seguire alcuni importanti orientamenti strategici, quali la promozione di una cultura di servizio, attraverso il rafforzamento dei principi di indipendenza, responsabilità, accountability, efficienza e trasparenza. Indispensabile era ritenuta una chiara definizione delle priorità, in modo da poter allocare e utilizzare in modo efficiente le risorse. Inoltre si volle agire sulle competenze professionali del personale, accordando una maggior importanza agli aspetti gestionali, introducendo una maggior linearità nelle carriere, riducendo il ricorso al personale a contratto e adottando una politica per la promozione delle pari opportunità. Si provvide anche a rendere più chiaro e trasparente il bilancio, a separare la responsabilità di chi autorizza la spesa da quella di chi la gestisce, in modo da garantire una complessiva protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea (v. Gozi, 2005, pp. 94-124).
Con questa riforma veniva ribadita la volontà di conservare una funzione pubblica europea indipendente, permanente e altamente qualificata: le risorse umane venivano quindi riallocate in modo più funzionale rispetto agli scopi e ai compiti prioritari della Commissione. Veniva poi migliorata l’attività gestionale, definendo in modo più chiaro responsabilità e competenze. Inoltre si interveniva sull’evoluzione delle carriere, sia attraverso una maggiore efficacia degli strumenti di reclutamento sia attraverso la formazione e la mobilità, e si attuava una politica di pari opportunità; in aggiunta a ciò era previsto un sistema più trasparente e rigoroso di valutazione del personale.
La Strategia di Lisbona. Il 23 e 24 marzo del 2000 si svolse a Lisbona il Consiglio europeo straordinario per definire “Un programma di rinnovamento economico e sociale per l’Europa”. La posizione della Commissione era stata presentata qualche settimana prima nell’indicazione degli “Obiettivi strategici 2000-2005”, in cui due capitoli erano dedicati alle priorità economiche e sociali e al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini europei: «Sul piano economico e sociale la nostra priorità è la lotta alla disoccupazione. Ciò significa approfittare della ripresa economica per attuare riforme più strutturali. […] Ci adopereremo per migliorare e ammodernare il nostro modello sociale. […] Nel raccogliere tutte queste sfide l’Unione deve rispondere alle preoccupazioni dei cittadini».
La Commissione presentò quindi a Lisbona un documento che individuava i settori in cui era necessario intervenire e indicava le strategie da adottare per favorire una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. Il presupposto era che l’UE dovesse «superare il passaggio al nuovo paradigma indotto dalla globalizzazione e dalla nuova economia della conoscenza: ciò investe ogni aspetto della vita e implica una radicale trasformazione dell’economia e della società europea. È necessario che l’UE intervenga rapidamente per dare al mutamento una forma consona ai suoi valori e alla sua concezione della società». Gli obiettivi individuati in quel documento erano: l’instaurazione di un’economia in grado di promuovere l’inclusione sociale, una crescita economica accelerata e sostenuta, la piena occupazione come priorità e fine della politica economica e sociale, la riduzione della disoccupazione al livello dei paesi coi tassi più bassi, l’ammodernamento dei sistemi europei di protezione sociale. Le strategie più idonee dovevano fondarsi su «una visione del futuro lungimirante, abbinata a scelte politiche capaci di tradurla in pratica. Si tratta di un compito complesso, che richiede un approccio assolutamente integrato e operativo capace di collegare obiettivi economici, sociali e politici a date e scadenze precise. Il fulcro di questa strategia è continuare e accelerare i cambiamenti strutturali già in atto. […] In presenza di un contesto macroeconomico stabile, per la Commissione europea la risposta dell’Unione deve imperniarsi su due baricentri: condurre la riforma dell’economia in modo da preparare l’economia della conoscenza e rafforzare il modello sociale europeo investendo in risorse umane. Questo presuppone un coordinamento generale a livello europeo, nazionale, regionale e locale, nel rispetto del principio di sussidiarietà».
L’economia della conoscenza era uno dei pilastri della “Strategia di Lisbona” e si fondava su sei priorità: l’iniziativa e-Europe (alfabetizzazione digitale e diffusione dell’uso di internet, commercio elettronico in un quadro giuridico trasparente per imprese e consumatori); il mercato interno (incentivazione delle transazioni transfrontaliere in materia di appalti pubblici; snellimento degli adempimenti amministrativi a tutti livelli; l’aumento degli scambi transfrontalieri dei servizi; l’ultimazione del mercato unico dell’energia e del trasporto aereo), i servizi finanziari; lo spirito imprenditoriale (incentivazione dell’assunzione di rischio); lo spazio europeo della ricerca (coordinamento e integrazione delle attività di ricerca per favorirne l’efficienza e l’innovazione); la modifica degli strumenti finanziari.
Per quanto riguarda il rafforzamento del modello sociale europeo, il percorso indicato dalla Commissione era quello dell’investimento nelle risorse umane (occupazione, istruzione, formazione), tramite il rafforzamento della cooperazione con gli Stati membri sul tema dell’ammodernamento dei sistemi di protezione sociale (mediante l’istituzione di un Gruppo permanente ad alto livello) e l’avvio di uno studio di vasto respiro sui presupposti per un sistema pensionistico sicuro e sostenibile, fondato sulla solidarietà tra le generazioni. «Se riusciamo a trasfondere in queste idee la stessa forza ed energia politica già mostrata per costruire il mercato unico e poi l’unione economica e monetaria, l’Europa potrà avviarsi a vivere un vero e proprio nuovo Rinascimento». Tali proposte furono poi organicamente elaborate ed esposte in un’Agenda di politica sociale (rivista nel 2003) e confermate dal Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000, in cui, tuttavia, la Carta dei diritti fu solamente firmata e proclamata in risposta alle perplessità, di carattere opposto, dei governi che, proprio perché occupandosi di diritti sociali, non volevano avesse valore vincolante, e dei governi che invece ritenevano le tutele lì previste troppo generiche e quindi inefficaci.
Per raggiungere gli obiettivi indicati, la Commissione P. favorì l’adozione di quattro Programmi comunitari da attuarsi nei settori dell’occupazione, dell’inclusione sociale, dell’azione contro la discriminazione e per le pari opportunità tra uomini e donne; propose un nuovo programma di azione “Progress”, per coprire la programmazione in queste aree per il periodo 2007-2013. Venne poi adottato un Piano di azione sulla mobilità, che portò in particolare all’introduzione di una Carta sanitaria europea, all’applicazione di un nuovo regolamento sul coordinamento europeo dei sistemi nazionali di sicurezza sociale (estensione dei diritti attuali ai cittadini non comunitari legalmente residenti nella UE) e la creazione di un Portale europeo sulla mobilità del lavoro. La Commissione adottava inoltre una nuova Strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul lavoro (2002-2006), fondata sull’idea generale di benessere sul posto di lavoro, in particolare tramite il consolidamento di una cultura della prevenzione del rischio, non solo fisico ma anche psicologico e sociale. Sempre in materia di lavoro, la Commissione adottava una proposta di direttiva sul lavoro temporaneo (adottata poi dal Parlamento e dal Consiglio nel 2002: direttiva sull’informazione e la consultazione dei lavoratori), in base alla quale i lavoratori temporanei non devono essere discriminati rispetto a lavoratori che occupano posti simili all’interno della stessa azienda. Due importanti direttive venivano adottate contro la discriminazione, una sull’uguale trattamento senza distinzioni di etnia, l’altra che stabiliva un quadro generale per il trattamento paritario nell’occupazione e sul lavoro. Veniva inoltre attuata una strategia quadro comunitaria per la promozione dell’uguaglianza tra i generi nel periodo 2001-2005: la direttiva mirava a raggiungere il pari trattamento tra uomini e donne, con riferimento all’accesso all’occupazione, alla formazione professionale, alla promozione e alle condizioni di lavoro.
Il generoso bilancio degli effetti di Lisbona, compiuto dal Consiglio europeo nella primavera del 2004, evidenziava progressi e passi ancora da fare, sia nella direzione di un incremento significativo del tasso di occupazione e di un aumento della produttività, sia nella riduzione della frammentazione del mercato interno (v. de Lecea, 2004, pp. 149-156).
La Convenzione sul futuro dell’Europa e il progetto “Penelope”. Il Trattato di Nizza, pur non prevedendo, come detto, un organo formalmente preposto alla revisione dei Trattati, aveva posto le basi per la convocazione di una nuova conferenza intergovernativa proprio con questo scopo: in tale direzione venne adottata la Dichiarazione n. 23, in allegato al Trattato, che invitava tutte la parti interessate ad avviare un dibattito, diffuso a più livelli (sociale, politico, di opinione pubblica, accademico, economico), sul futuro dell’Unione, soprattutto in vista dell’allargamento. Nel dicembre del 2001, al Consiglio europeo di Laeken venne deciso di istituire una Convenzione sul futuro dell’Europa (v. Convenzione europea), presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, incaricata di preparare la bozza della futura costituzione europea. Secondo quanto deciso a Laeken, la Convenzione avrebbe dovuto esaminare i problemi fondamentali dello sviluppo europeo e individuarne possibili soluzioni (v. Sviluppo sostenibile): la ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri, la semplificazione dei Trattati, la possibilità di includere una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la definizione del ruolo dei parlamenti nazionali nella futura architettura europea. La Convenzione non doveva redigere un testo definitivo, ma solo un documento finale che comprendesse le diverse opzioni emerse nel corso del dibattito e riportare quali soggetti le sostenevano. L’adozione del documento sarebbe spettata a un’apposita Conferenza intergovernativa (v. Ziller, 2004).
Come contributo ai lavori della Convenzione, la Commissione presentava due comunicazioni, “Un progetto per l’Unione europea” e “Per l’Unione europea. Pace, libertà e solidarietà”. Accanto a questi due documenti, approvati dal collegio come posizioni ufficiali dal carattere principalmente politico-istituzionale, P., in accordo coi commissari Vitorino e Michel Barnier, fece preparare un documento completo che potesse dare un’idea concreta della futura costituzione. Il lavoro era stato affidato a un gruppo di funzionari (Marie Lagarrigue, Paolo Stancanelli, Pieter Van Nuffel, Alain Von Solinge con l’assistenza tecnica di Marguerite Gazze) sotto la guida del direttore generale dell’energia e dei trasporti, François Lamoreux. Si trattava di un lavoro riservato, nato con l’intenzione di porsi come una “tela” che si fa e disfa sulla base degli spunti provenienti dalla Convenzione: è per questo motivo che venne chiamato “Progetto Penelope”.
Una prima redazione del testo fu presentata a P. il 23 ottobre 2002; nella fase successiva il testo fu sottoposto alle revisioni giuridico-linguistiche con il coinvolgimento di funzionari della Commissione per verificare col personale competente l’articolato sulle singole politiche. Il 4 dicembre del 2002 il testo venne presentato alla Commissione, che sollevò numerose obiezioni e alla fine non lo approvò. Il testo fu quindi reso pubblico accompagnato dalla frase: «Il presente studio di fattibilità non impegna la Commissione europea».
Il Progetto Penelope mirava da un lato a semplificare, fondere e consolidare l’integralità dei Trattati, e dall’altro a rendere il metodo comunitario il motore del governo europeo. In tale documento la valorizzazione del metodo comunitario si articolava intorno ad alcuni principi: chiarificazione, delimitazione e rafforzamento della funzione di ciascuna istituzione; generalizzazione della procedura di codecisione e del voto a maggioranza qualificata al Consiglio dei ministri; gerarchizzazione, raggruppamento e riduzione della tipologia degli atti (v. anche Gerarchia degli atti comunitari). Inoltre si potenziavano le istituzioni, senza alterarne l’equilibrio, attraverso un ampliamento della loro legittimità (per esempio, si accresceva il ruolo del Parlamento nella nomina della Commissione e del suo presidente). La struttura a Pilastri dell’Unione europea era eliminata attraverso la collocazione di profili diversi in un contesto unico, al fine di rafforzare coerenza ed efficacia dell’azione europea. Ciò vale sia per le azioni relative allo Spazio di sicurezza, libertà e giustizia sia per le relazioni esterne dell’Unione, che hanno sia un rilievo comunitario, sia competenza parallela tra Unione e Stati membri, sia intergovernativi (v. anche Cooperazione intergovernativa): l’innovazione più significativa era la figura del segretario dell’Unione, vicepresidente della Commissione con uno statuto speciale (v. Tognon, 2003, spec. pp. 11-118).
Conclusioni: bilancio di un quinquennio. Durante la sua presidenza P. fu sottoposto a una serrata critica da parte di alcuni settori della stampa europea: fu attaccato dalla stampa inglese, in particolare dall’“Economist” e dal “Financial Times” (in special modo dal vicedirettore Wolfgang Munchau), che lo accusò spesso di incapacità e che bocciò l’operato della sua Commissione, così come fu più volte bersaglio delle critiche feroci di “Libération”. Una serie di critiche, rimproveri e accuse che si scontravano con la grande attività della Commissione stessa, i cui risultati sono ora oggetto di valutazione (v. De Zwaan, 2004, p. 53 e ss.; Dimitrakopoulos, 2004).
Sicuramente sotto la presidenza P. il processo di “europeizzazione” ha subito una notevole accelerazione, ma anche significative brusche frenate: numerosi cambiamenti sono avvenuti nell’UE e di fatto l’idea di Europa ha cominciato a circolare in modo più diffuso attraverso pubblicazioni, dibattiti pubblici, campagne elettorali, referendum (che, a prescindere dal risultato, hanno posto i cittadini di fronte a decisioni che travalicavano le frontiere nazionali). Lo stesso P. lo ribadiva nel discorso, tenuto il 13 ottobre del 2004 davanti al Parlamento europeo, per fare un bilancio del suo mandato («Cinque anni caratterizzati da profondi cambiamenti politici e istituzionali e da grandi avvenimenti in Europa e nel mondo») e per ipotizzare le vie di sviluppo della politica europea. “L’elemento unificatore” della legislatura è stato l’allargamento per quanto riguarda sia l’adesione di 10 nuovi Stati membri, sia la definizione di un calendario preciso per gli altri candidati, sia la prospettiva politica concreta offerta ai paesi dei Balcani, ma anche dal punto di vista interno, cioè della tenuta e dell’ammodernamento della struttura istituzionale europea. La prospettiva politica della Commissione P., come egli ha dichiarato, ha voluto essere quella dell’equilibrio, nel tentativo di non alimentare né false speranze né di creare allarme eccessivo riguardo alle trasformazioni in atto.
L’altro grande obiettivo è stata la riforma istituzionale: nei cinque anni di presidenza P. si è avuto un continuo confronto su questo tema che ha superato i confini delle istituzioni europee e ha trovato ampio spazio presso l’opinione pubblica. La via della Convenzione è stata possibile grazie agli sforzi congiunti di Parlamento e Commissione e attraverso il coinvolgimento di numerosi attori. È stato un percorso in cui si sono confrontate due idee di Europa: da una parte, si è teso a far prevalere un’Europa concepita come uno spazio di stabilità, benessere e regolamentazione comune di ambiti specifici; dall’altra, si è cercato di affermare l’Europa come entità politica forte, in grado di porsi sul palcoscenico internazionale dotata di una legittimità e di una capacità decisionale rafforzate.
Il necessario ripensamento del Trattato costituzionale, in seguito alla bocciatura di Francia e Paesi Bassi, e l’ancora evidente incapacità dell’UE di agire come attore unico nelle recenti crisi internazionali hanno imposto una riflessione su quelli che erano stati ritenuti da parte di P. e della sua commissione i passaggi fondamentali verso un ulteriore rafforzamento della UE, motivando una nuova politica dell’equilibrio, proprio per rispondere a quei timori e a quelle preoccupazioni che lo stesso P. aveva individuato nel suo discorso conclusivo, ma che aveva avuto ben presenti in tutto il suo mandato.
Elena Antonetti (2006)