Introduzione
L’articolo 3, lettera h del Trattato della Comunità Europea (TCE) (v. Trattati di Roma) indica tra le azioni che la Comunità europea (v. Comunità economica europea) può svolgere al fine di realizzare gli obiettivi previsti dal Trattato stesso «il ravvicinamento delle legislazioni nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune».
Si può, innanzitutto, notare come nessun articolo del Trattato CE specifichi il significato della nozione di ravvicinamento; peraltro, si può escludere che essa comporti l’introduzione di regole identiche per tutti gli Stati membri tramite la quale sostituire in toto le norme già esistenti all’interno di ciascuno di essi. Piuttosto, il ravvicinamento delle legislazioni nazionali implica un adeguamento progressivo degli ordinamenti giuridici nazionali in funzione di alcune finalità previamente definite dal Diritto comunitario. Non a caso, l’atto di diritto derivato cui le Istituzioni comunitarie comunemente ricorrono al fine di realizzare il ravvicinamento delle legislazioni statali non è il regolamento, bensì la Direttiva. Quest’ultima, infatti, imponendo agli Stati membri soltanto l’obbligo di raggiungere un risultato, lasciandoli liberi di scegliere le forme e i mezzi ritenuti più opportuni, permette di mantenere in vigore molteplici regolamentazioni statali, seppure tra loro armonizzate.
Il ravvicinamento comporta la modificazione, o anche l’abrogazione, delle normative nazionali nella misura necessaria per renderle conformi ai principi comuni definiti dalla Comunità europea. In particolare, il ravvicinamento tende a favorire la piena realizzazione e il consolidamento del mercato comune europeo (v. Comunità economica europea) e a cancellare quelle difformità riscontrabili nelle legislazioni degli Stati membri che ne intralciano il corretto funzionamento. Infatti, una volta definito il mercato comune, in senso lato, quale uno spazio economico e commerciale in cui si «mira a eliminare ogni intralcio per gli scambi intracomunitari al fine di fondere i mercati nazionali in un mercato interno» (Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 5 maggio 1982, 15/81, Schul, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 1409), si può rilevare come le difformità esistenti tra le legislazioni tecniche adottate dagli Stati membri, se mantenute, possano ostacolare la libera circolazione dei fattori produttivi (Libera circolazione delle merci, Libera circolazione dei capitali, Libera circolazione delle persone e Libera circolazione dei servizi) e, in ultima analisi, la piena realizzazione dello stesso mercato comune. Così ad esempio, uno Stato membro può impedire l’accesso a determinate merci provenienti da altri Stati membri in base all’assunto che la legislazione del paese di origine non tutela adeguatamente le esigenze considerate come imperative dallo Stato interessato ex art. 30 del Trattato CE. Tuttavia, una volta che le normative statali sono state oggetto di ravvicinamento a livello comunitario, nessuno Stato membro può considerarsi legittimato a non rispettare gli obblighi in esso incombenti in tema di libera circolazione delle merci e degli altri fattori produttivi, invocando le deroghe previste dal Trattato CE. Il ravvicinamento, quindi, non costituisce tanto una politica comunitaria in senso proprio, quanto un’azione complementare esercitata dalla Comunità europea volta a garantire un funzionamento efficace del mercato comune.
Il Trattato CE contiene un capo specifico dedicato al “Ravvicinamento delle legislazioni”, nel quale sono dettati principi di carattere generale che sovrintendono all’esercizio dell’azione di ravvicinamento. Le norme contenute in tale capo dettano una disciplina comune in ordine alle procedure che le istituzioni comunitarie devono necessariamente seguire nel realizzare il ravvicinamento delle normative statali e in ordine ai limiti che esse devono rispettare nell’esercizio di tale funzione.
I Trattati, l’applicazione del principio e il regime di deroga
Fino all’adozione dell’Atto unico europeo la disposizione fondamentale in relazione al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri era l’articolo 94 del Trattato CE che, introdotto già con il Trattato di Roma e modificato in misura molto limitata dal Trattato di Maastricht, prevede quanto segue: «Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale, stabilisce direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune».
La formula “disposizioni legislative, regolamentari e amministrative” contenuta nel citato articolo è così ampia da poter ritenere che essa includa qualsiasi fonte normativa e qualunque atto giuridico adottato all’interno degli ordinamenti statali. Tuttavia, lo stesso articolo 94 prevede per l’azione comunitaria volta al ravvicinamento alcuni limiti piuttosto stringenti. Il primo è rappresentato dalla necessità che oggetto delle direttive menzionate nel detto articolo siano solo e soltanto quelle norme statali atte a determinare «un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune». Ciò significa che, prima di procedere con il ravvicinamento, le istituzioni comunitarie devono avere accertato che l’attività di ravvicinamento sia essenziale e necessaria per favorire l’evoluzione del mercato interno. In merito, la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) ha rilevato che il ravvicinamento «non è giustificato qualora l’atto da adottare abbia solo come effetto secondario di armonizzare le condizioni del mercato all’interno della Comunità» (CGCE, sentenza 18 novembre 1999, C-209/97, Commissione c. Consiglio, in “Raccolta della giurisprudenza”, I-8067, che a sua volta richiama le sentenze: 4 ottobre 1991, causa C-70/88, Parlamento/Consiglio, ivi, pag. I-4529 e 17 marzo 1993, causa C-155/91, Commissione/Consiglio, ivi, pag. I-939).
La disposizione in esame ha costituito la base giuridica di numerose direttive adottate dal Consiglio dei ministri, specialmente nel settore della libera circolazione delle merci, al fine di armonizzare le molteplici normative statali volte a tutelare le “esigenze imperative” di cui all’art. 30 CE e alla sentenza Cassis de Dijon della Corte di giustizia. Occorreva, infatti, ridurre all’essenziale i casi in cui gli Stati membri fossero legittimati, ai sensi del Trattato e della Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, a mantenere in vigore norme o misure tali da determinare impedimenti o restrizioni alla libera circolazione nel mercato comune.
Nella prassi applicativa dell’art. 94 si è affermata la tendenza all’adozione delle c.d. direttive particolareggiate. Si tratta di direttive che, invece di dettare, come previsto dall’art. 249 del Trattato CE, obiettivi di carattere generale, presentano una disciplina talmente precisa, puntuale e dettagliata da non lasciare agli Stati membri alcun reale spazio discrezionale sia in ordine alla scelta dei mezzi per la loro attuazione, sia al contenuto delle norme tramite cui le direttive sono adottate negli ordinamenti interni. La Corte di giustizia non si è mai espressamente pronunciata sul punto, pur ammettendo la legittimità di simili direttive se necessarie per la realizzazione degli obiettivi in esse prefissati (CGCE, sentenza 14 luglio 1994, Faccini Dori, causa C-91/92, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-3325). Peraltro, tale prassi ha suscitato molte perplessità e contestazioni da parte degli Stati membri, cosicché le istituzioni hanno abbandonato il ricorso alle direttive dettagliate, privilegiando le direttive note come “leggere” o “di nuovo approccio” così definite in quanto esse, nel rispetto del Principio di sussidiarietà e del Principio di proporzionalità, dettano solo norme minime inderogabili dagli Stati membri cui sono dirette e richiedono a questi ultimi di procedere al ravvicinamento soltanto di quelle regolamentazioni interne che effettivamente ostacolano la libera circolazione dei fattori produttivi nel contesto del mercato unico.
La seconda condizione prevista dall’art. 94 CE è relativa al Processo decisionale che deve essere seguito per adottare direttive di ravvicinamento. Infatti, come si è visto, il citato articolo impone che il Consiglio si pronunci con Voto all’unanimità. Tale requisito ha, spesso, ostacolato o rallentato l’adozione delle dette direttive, con ripercussioni negative sullo sviluppo del mercato interno, in particolare a fronte dell’esigenza di celerità imposta dall’imponente programma di completamento del mercato interno contenuto nel Libro bianco (v. Libri bianchi) della Commissione europea nel 1993. Si noti, inoltre, come l’articolo in esame attribuisca un ruolo soltanto consultivo e quindi del tutto marginale al Parlamento europeo.
Inoltre, l’Atto unico europeo ha introdotto nel testo del Trattato CE un nuovo articolo, il numero 95 (ex art. 100A), che può essere utilizzato, come esso stesso prevede, per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «in deroga all’articolo 94 e salvo che il presente Trattato non disponga diversamente». L’articolo 95 costituisce, quindi, una lex specialis rispetto all’articolo 94, che, invece, continua a configurarsi come lex generalis in materia. Occorre, peraltro, sottolineare che l’ambito di applicazione dei due articoli in oggetto non è identico. Infatti, mentre l’articolo 94 concerne il ravvicinamento delle normative statali «che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune», l’articolo 95 è utilizzabile soltanto «per la realizzazione degli obiettivi» di cui all’articolo 14, ossia per l’Armonizzazione delle legislazioni nazionali «che hanno per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato comune». A tal proposito, l’avvocato generale Giuseppe Tesauro nelle proprie conclusioni rese nella causa nota come Biossido di Titanio (sentenza 11 giugno 1991, causa C 300/89, Commissione/Consiglio, in “Raccolta della giurisprudenza”, pag. I-2867), ha affermato che l’ambito di applicazione di tale articolo è determinato «in virtù di un criterio di carattere funzionale, estendendosi in modo trasversale all’insieme delle misure destinate alla realizzazione del mercato comune».
Il paragrafo 2 del succitato articolo prevede alcune limitazioni concernenti il ricorso all’articolo stesso quale base giuridica per un atto di ravvicinamento: tali limiti, di fatto, comportano la sua applicazione prevalentemente per l’armonizzazione nel settore della libera circolazione delle merci. Tale disposizione, infatti, non può trovare applicazione in materia fiscale, nell’ambito della libera circolazione delle persone e neppure con riferimento alla disciplina dei diritti e degli interessi dei lavoratori dipendenti. In tutti questi casi, quindi, per operare un ravvicinamento delle norme degli Stati membri sarà necessario ricorrere all’articolo 94.
Rispetto a quanto previsto da quest’ultima norma, l’articolo 95 contiene alcune innovazioni di rilievo relative, rispettivamente, al tipo di atti tramite cui le istituzioni comunitarie possono realizzare il ravvicinamento e alla procedura necessaria per l’adozione di tali atti. Per quanto concerne il primo aspetto, si evidenzia che l’articolo 95 prevede, in termini generici, il ricorso a “misure” di ravvicinamento – quindi anche a regolamenti – laddove l’articolo 94 prevede che quest’ultimo possa essere realizzato solo tramite direttive. Non solo: oltre che per la forma dell’atto, l’articolo in esame sembra lasciare un certo margine di discrezionalità anche per quel che concerne il contenuto delle “misure” che possono essere adottate dalle istituzioni. Questa flessibilità è stata sottolineata dalla Corte di giustizia, secondo cui «la nozione di misure relative al ravvicinamento deve intendersi come ricomprendente il potere del Consiglio di prescrivere i provvedimenti relativi a un dato prodotto o a una categoria di prodotti determinati e, se del caso, provvedimenti individuali riguardanti questi prodotti» (sentenza 9 agosto 1994, causa C-359/1992, Germania c. Consiglio, in “Raccolta della giurisprudenza”, pag. I-3681).
Con riferimento, invece, alla procedura disciplinata dall’articolo 95, si può osservare che essa, a differenza di quella prevista dall’articolo 94, non richiede l’unanimità, bensì la Maggioranza qualificata. Tale innovazione è resa necessaria dalla necessità di favorire il completamento del mercato interno e, quindi, anche dell’azione di ravvicinamento, alla luce delle scadenze stabilite nel Libro bianco del 1993. Non deve neppure essere trascurato il fatto che l’articolo 95 sancisce che la misura di armonizzazione sia adottata «su proposta della Commissione, in codecisione con il Parlamento europeo»: la Procedura di codecisione assicura, come noto, il pieno coinvolgimento del Parlamento europeo nel processo decisionale comunitario, e anche questo fattore rappresenta una significativa innovazione rispetto a quanto previsto dall’articolo 94.
Pur avendo contribuito a una realizzazione più celere dell’attività di ravvicinamento, l’articolo 95 prevede, allo stesso tempo, diverse deroghe cui gli Stati membri possono ricorrere per non dare applicazione alla normativa armonizzata. Una prima ipotesi è prevista dai paragrafi 4 e 5 secondo cui ogni Stato membro può richiedere alla Commissione europea di mantenere in vigore o di introdurre, nonostante l’avvenuto ravvicinamento a livello comunitario, una disposizione nazionale derogatoria. Nel primo caso la concessione della deroga può essere giustificata da «esigenze importanti di cui all’articolo 30» o dalla necessità di garantire la tutela dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro. Lo Stato interessato è tenuto a precisare alla Commissione i motivi a fondamento della richiesta volta a continuare ad applicare nel proprio ordinamento la disposizione interna, nonostante l’avvenuto ravvicinamento, ma non anche a dimostrare che il mantenimento in vigore di tale disposizione nazionale sia richiesto da un problema che riguarda, nello specifico, quello stesso Stato (sentenza 20/3/2003, C-3/00, Danimarca c. Commissione, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-2643).
La deroga prevista dal paragrafo 5 è, invece, relativa all’introduzione da parte di uno Stato membro all’interno del proprio ordinamento, successivamente all’adozione della misura di ravvicinamento, di una norma non conforme alla disciplina contenuta nell’atto comunitario che ha operato il ravvicinamento stesso. In tal caso, lo Stato richiedente la deroga deve fornire prove scientifiche “nuove” – ossia non esistenti al momento dell’adozione dell’atto comunitario di armonizzazione – in merito alla tutela dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro. Inoltre, la deroga richiesta dallo Stato membro deve necessariamente derivare dall’esistenza di un problema che riguardi, nello specifico, quello stesso Stato.
Per la concessione di una deroga ai sensi dei paragrafi 4 e 5 occorre seguire la procedura disciplinata dal successivo paragrafo 6: la Commissione, una volta ricevuta la richiesta da parte dello Stato, ha sei mesi di tempo per concedere o meno la deroga. In assenza di una pronuncia entro tale termine, essa si considera autorizzata. A tal proposito, nelle conclusioni della causa C-3/00, Danimarca/Commissione, l’avvocato generale Tizzano ha rimarcato che l’adozione di una deroga ex paragrafi 4 e 5 «soggiace a regole e a schemi procedurali tipici di un procedimento amministrativo, tant’è che, ad esempio, se la Commissione non si pronuncia entro un certo termine, le disposizioni derogatorie devono ritenersi autorizzate in applicazione del principio amministrativo del silenzio-assenso».
L’avvocato generale Tesauro ha, invece, precisato che la Commissione deve verificare, in particolare, che le disposizioni statali di cui è richiesto il mantenimento o l’introduzione a norma dell’art. 95, paragrafi 4 e 5, non determinino né discriminazioni arbitrarie, né restrizioni dissimulate nell’ambito del commercio sul territorio comunitario (causa C-300/89, Commissione/Consiglio, cit.).
Il paragrafo 10 prevede, poi, un’ipotesi differente rispetto a quella contemplata dai due paragrafi esaminati e cioè il caso che la facoltà di deroga non sia subordinata a una richiesta espressa da uno Stato membro, ma sia disciplinata dallo stesso atto comunitario tramite cui si è operato il ravvicinamento. In proposito, il paragrafo 10 prevede che nei casi “opportuni” le misure di ravvicinamento possono contenere una Clausola di salvaguardia in forza della quale consentire a uno Stato membro di adottare una misura provvisoria per i motivi di cui all’articolo 30, purché non siano “di carattere economico”. Si tratta, peraltro, di una precisazione superflua, posto che la Corte di giustizia ha più volte ribadito che le esigenze imperative di cui all’articolo 30 non possono essere invocate dagli Stati membri per mantenere in vigore o adottare misure nazionali volte a salvaguardare esigenze di carattere economico (sentenza 19 dicembre 1961, Commissione c. Italia; sentenza 28 aprile 1988, Decker).
Il paragrafo 3 dell’articolo 95 sancisce che gli atti di ravvicinamento in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori debbano garantire «un livello di protezione elevato, tenuto conto, in particolare, degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici».
Merita, inoltre, evidenziare che il paragrafo 9 disciplina una particolare procedura per il caso in cui «uno Stato membro faccia un uso abusivo dei poteri contemplati» dall’articolo 95: infatti, la Commissione europea o qualunque altro Stato membro può presentare direttamente un ricorso per inadempimento alla Corte di giustizia, con esclusione della fase precontenziosa, in deroga a quanto previsto dagli articoli 226 e 227 del Trattato CE.
Conclusioni
Infine, devono essere citati anche gli articoli 96 e 97 del Trattato CE che però, a differenza dei due articoli sin qui esaminati, prevedono non tanto il ravvicinamento delle legislazioni nazionali, quanto un intervento della Comunità europea per eliminare specifiche disparità esistenti tra le suddette disposizioni e solo qualora esse comportino distorsioni della concorrenza nella Comunità stessa (v. anche Politica europea di concorrenza).
Accanto alle norme di carattere generale sin qui esaminate, il Trattato contiene diverse disposizioni in cui si prevede esplicitamente la necessità di un ravvicinamento, o di un coordinamento, o, ancora, di un’armonizzazione da parte della Comunità europea delle normative degli Stati membri in specifici settori disciplinati dalle normative degli Stati membri. È questo il caso, tra gli altri, dell’art. 47, par. 2, secondo cui «il Consiglio […] stabilisce le direttive intese al coordinamento delle disposizioni […] degli Stati membri relative all’accesso alle attività non salariate e all’esercizio di queste»; dell’art. 93, in forza del quale «il Consiglio […] adotta le disposizioni che riguardano l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo e altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno»; dell’art. 132, il quale, nell’ambito della Politica commerciale comune, stabilisce che gli «aiuti concessi dagli Stati membri alle esportazioni nei paesi terzi saranno progressivamente armonizzati nella misura necessaria per evitare che venga alterata la concorrenza fra le imprese» della Comunità europea; degli articoli 136, par. 3 e 137, par. 2, che sanciscono la necessità di procedere a un’armonizzazione dei sistemi sociali e, a tal fine, all’adozione da parte della Comunità di direttive che individuino «le prescrizioni minime applicabili progressivamente», e, infine, dell’art. 174, par. 2, che prevede l’applicazione di «misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell’ambiente». Si tratta di norme speciali, che disciplinano un’apposita azione di ravvicinamento, o di armonizzazione, promossa dalla Comunità europea nel contesto dei singoli settori materiali cui esse rinviano, con le modalità e le condizioni da esse stesse indicate.
Claudio Mandrino (2009)
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