Resistenza ed Europa si legano tra loro per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, perché la Resistenza ha rappresentato un fenomeno di dimensioni continentali, avendo interessato tutti i paesi sottomessi al regime d’occupazione della Germania nazista e dei suoi alleati. In secondo luogo perché nel contesto della guerra di liberazione, seppure in maniera sostanzialmente autonoma, diversi nuclei partigiani elaborarono programmi che mettevano in discussione un assetto geopolitico basato sull’esistenza di Stati nazionali sovrani in competizione permanente tra loro, approdando talvolta a un generico internazionalismo, altre volte a concezioni di tipo federalistico-europeo (v. Federalismo).
In realtà la guerra partigiana ha rappresentato un’esperienza comune a gran parte dei popoli europei soltanto se partiamo da una definizione non restrittiva di Resistenza. Se infatti prendessimo in considerazione solo l’attività di guerriglia e sabotaggio svolta da eserciti di liberazione ben organizzati e armati, inevitabilmente finirebbero per restare escluse dal discorso grandi aree continentali come la Germania – dove pur esisteva un antinazismo politicamente organizzato, tanto che tra il 1933 e il 1945 furono 800.000 i tedeschi rinchiusi nei campi di concentramento per comportamento attivo di resistenza – e l’Austria, entrata a far parte del Terzo reich con l’Anschluss del marzo 1938, che pagò un alto tributo di sangue agli atti di diserzione, contropropaganda e trafugamento di armi compiuti dai suoi uomini costretti a combattere nelle file della Wehrmacht.
Risulta parimenti fuori dubbio il fatto che la Resistenza ebbe in primo luogo un carattere di lotta di liberazione nazionale, presentò generalmente scarsi collegamenti sopranazionali al di fuori dei necessari contatti con gli eserciti alleati, evidenziò non poche specificità da Stato a Stato. Bisogna infatti distinguere tra la Resistenza al nazifascismo nei paesi occupati e in quelli occupanti (la Germania e i suoi satelliti), con un discorso a sé per l’Italia che vide un capovolgimento della situazione dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, nonché tra resistenze unitarie, organizzate sulla base di accordi tra forze politiche di diversa impostazione ideologica in nome dei comuni obiettivi del momento, e non unitarie, combattute cioè all’interno dello stesso territorio da gruppi partigiani rivali e talvolta perfino in conflitto tra loro: a questo proposito l’esempio più significativo fu senz’altro quello della Polonia, dove si costituirono sia un’Armata nazionale di ispirazione liberale sia un’Armata popolare di ispirazione comunista.
E poi ancora si deve tener presente che in alcuni paesi la Resistenza ebbe un carattere sostanzialmente spontaneo, là dove cioè prese avvio nell’ambito della società civile, mentre altre volte fu conseguente all’azione di forze politiche organizzate nella clandestinità; in certi casi essa fu accompagnata da grandi mobilitazioni politico-sindacali da parte dei lavoratori e del movimento operaio, come ad esempio nei Paesi Bassi, dove nell’aprile del 1943 si verificò il più grande sciopero dell’Europa occupata, mentre in altri casi si sviluppò principalmente all’interno dell’esercito e della vecchia classe dirigente; in alcuni paesi i rapporti con gli Alleati e con l’URSS furono difficili, mentre in altri, come ad esempio nella Norvegia di Quisling, il fronte antinazista non solo fu strettamente collegato allo Special operation executive (SOE) britannico, ma ne rappresentò quasi un’emanazione. Queste differenze interessavano naturalmente anche i programmi per la ricostruzione postbellica, dato che nel movimento partigiano coesistevano sia coloro che auspicavano una semplice restaurazione del vecchio ordine, sia quanti ritenevano viceversa fondamentale un radicale rinnovamento sociale ed economico, anche per scongiurare il ripetersi di nuove forme di fascismo.
Un caso a sé hanno invece rappresentato alcuni territori dell’Est Europa, come i paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina, che conobbero sia il regime di occupazione di Stalin che quello di Hitler, e di conseguenza svilupparono in un primo tempo forme di Resistenza antisovietica che solo successivamente avrebbero assunto un carattere antitedesco. Del tutto peculiare fu inoltre la Resistenza in Unione Sovietica, in virtù dei suoi stretti legami con l’Armata rossa e del ruolo svolto dai Comitati regionali del PCUS nella sua organizzazione, così come in Iugoslavia, dove il maresciallo Tito, segretario generale del Partito comunista iugoslavo, riuscì a organizzare un esercito di liberazione nazionale formato da oltre 800.000 combattenti, a sconfiggere l’occupante senza alcun aiuto diretto da parte delle potenze straniere, e a conservare un ampio margine di autonomia sia dall’URSS che dagli Alleati, che cercò poi di sfruttare politicamente nel dopoguerra.
In virtù di tali differenze gli studiosi si dividono in merito al concetto di “Resistenza europea”, che inevitabilmente tende a evidenziare, e forse anche a sopravvalutare, gli elementi comuni ai diversi movimenti partigiani. Alcuni storici preferiscono pertanto fare riferimento alle “Resistenze in Europa”, sottolineando in tal modo l’esiguità dei contatti tra nuclei partigiani di diversa nazionalità. La questione è però complessa, e non si riduce certo a una sottigliezza semantica, dato che, per dirla con le parole di Claudio Pavone, si tratta di stabilire se l’Europa abbia rappresentato in quel contesto «un semplice contenitore geografico oppure il soggetto di un processo storico dai tratti di fondo comuni, pur se variamente articolati».
Resta comunque fuori dubbio che la guerra abbia avvicinato e affratellato popoli che sino a quel momento, nell’età del nazionalismo e degli imperialismi, si erano guardati con diffidenza e talvolta perfino con odio. Di qui il fenomeno del tutto nuovo dell’internazionalismo partigiano, che si manifestò sotto forma di partecipazione di tanti stranieri alle lotte di liberazione “nazionali”: si trovavano infatti russi, inglesi, francesi, americani e perfino tedeschi a combattere in Italia a fianco dei partigiani, così come si verificò il caso di decine di migliaia di soldati italiani, sorpresi all’estero dall’armistizio di Badoglio, che si unirono alle forze della Resistenza in Albania, Francia, Grecia e Iugoslavia. Il caso italiano, citato come esempio, era del tutto analogo a quello di altri paesi europei, nei quali un nuovo senso di appartenenza sopranazionale andava ad affiancarsi alle preesistenti identità nazionali e locali.
Il limite dell’internazionalismo partigiano era però quello di non riuscire a trasformare un generico sentimento di solidarietà sopranazionale in un concreto progetto istituzionale e quindi, sostanzialmente, di non essere in grado di risolvere quei problemi che esso stesso aveva meritevolmente saputo denunciare. Differente fu invece l’impostazione dei federalisti europei che, consapevoli dei limiti dello Stato nazionale e delle contraddizioni generate dal sistema geopolitico internazionale, avanzarono allora la proposta degli Stati uniti d’Europa, indicando nel federalismo lo strumento più idoneo per realizzare questo obiettivo.
A tal fine i rappresentanti di diverse nazioni europee in lotta contro l’oppressione nazifascista, pur senza alcuna delega ufficiale da parte dei rispettivi vertici resistenziali, si riunirono a Ginevra il 20 maggio 1944 nella casa di Willem Visser ’t Hooft, segretario generale del Consiglio ecumenico mondiale delle Chiese, e sottoscrissero la Dichiarazione federalista dei resistenti europei, uno dei documenti più significativi dell’europeismo politico di quel periodo. In esso si affermava la necessità di dar vita a una Federazione europea non solo al fine di assicurare la pace nel vecchio continente, ma anche in risposta al problema della futura riammissione del popolo tedesco nel consesso internazionale, alla delicata questione della ridefinizione delle frontiere tra gli Stati, al tema del ripristino, della salvaguardia e del consolidamento di istituzioni democratiche all’interno dei singoli paesi, e perfino nella prospettiva del superamento di quei contrasti di natura economica che avevano turbato per decenni le relazioni internazionali. Viceversa il documento non considerava ancora maturi i tempi per l’unificazione mondiale, demandando all’instaurazione di un organismo sopranazionale dotato di più ampi poteri rispetto alla Società delle Nazioni il compito di dirimere le controversie internazionali.
Determinante nell’elaborazione della Dichiarazione era stato l’apporto di due federalisti italiani, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, rifugiatisi in Svizzera dopo aver scontato una lunga pena detentiva per la loro militanza rispettivamente nelle file di Giustizia e libertà e del Partito comunista italiano. Conosciutisi al confino presso l’isola di Ventotene, a cavallo tra il 1940 e il 1941 avevano elaborato insieme al socialista Eugenio Colorni un documento politico, intitolato Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, noto semplicemente come Manifesto di Ventotene, che costituisce senz’altro il più importante contributo teorico italiano all’europeismo politico. Due erano le intuizioni più originali in esso contenute: da un lato la consapevolezza che l’unità europea non rappresentava più una nobile utopia ma un obiettivo concreto per cui lottare, essendo nel frattempo maturate quelle condizioni storiche che ne avrebbero consentito la realizzazione, dall’altro la necessità di ridefinire la linea di demarcazione tra le forze progressiste e quelle conservatrici, non più in base al diverso grado di democrazia e giustizia sociale contenute nei rispettivi programmi, bensì in riferimento alle posizioni espresse nei confronti del processo di unificazione europeo, considerato un obiettivo prioritario e pertanto propedeutico al conseguimento di ogni altro traguardo.
Spinelli e Rossi non furono comunque solo teorici ma anche attori politici, avendo fondato a Milano, nell’agosto 1943, il Movimento federalista europeo, evento che costituì l’inizio di una battaglia per l’unità europea che avrebbe impegnato Spinelli nei successivi decenni della propria esistenza. Alcuni mesi prima era inoltre nato “L’unità europea”, giornale clandestino di cui sarebbero usciti otto numeri prima della Liberazione.
Tra le espressioni della cultura federalista nell’Italia di quegli anni si deve inoltre ricordare almeno il Progetto di Costituzione confederale europea e interna redatto tra l’autunno del 1942 e l’8 settembre 1943 da Duccio Galimberti, martire della Resistenza in Piemonte, e Antonino Repaci. Al di là dell’uso improprio del termine “confederale”, il Progetto aveva in realtà una natura federale, prevedeva un’Italia federale all’interno di un’Europa unita e aveva il merito di provare a delineare l’ossatura giuridica degli Stati Uniti d’Europa: i suoi limiti erano comuni a molta letteratura dell’epoca, come laddove veniva fatto riferimento a Stati disegnati sulla base del principio di nazionalità, oppure dove si immaginava l’uso di una lingua supernazionale elaborata ex novo. Altri contributi significativi alla riflessione vennero inoltre dagli scritti coevi di Umberto Campagnolo, Adriano Olivetti e Mario Alberto Rollier.
Anche i partiti che avevano dato vita al Comitato di liberazione nazionale mostrarono in Italia una sensibilità europeista che faceva ben sperare per il dopoguerra. Sicuramente tra le forze politiche democratiche fu il Partito d’azione quello più attento alle questioni europee, ma si poteva riscontrare un certo interesse per tali tematiche anche nella Democrazia cristiana (DC), nel Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), nel Partito liberale italiano (PLI) e nel Partito repubblicano italiano (PRI), o almeno in alcuni loro dirigenti; lo stesso antieuropeismo del Partito comunista italiano (PCI) si sarebbe del resto manifestato pienamente solo nel dopoguerra, non essendo frutto di incompatibilità ideologiche ma delle divisioni prodotte dalla Guerra fredda.
In quegli anni l’Italia assunse pertanto una sorta di leadership internazionale sul piano europeista, soprattutto sotto l’aspetto ideologico, mentre a livello d’azione fu probabilmente un limite dei federalisti italiani l’aver sopravvalutato la permeabilità delle forze politiche nazionali alle nuove idee. Nella Resistenza francese prevalsero invece posizioni nazionali e talvolta perfino nazionaliste, ma non mancarono nuclei portatori di istanze europeiste, come ad esempio il gruppo Combat di Lione, che sin dal 1941 aveva concepito la lotta antinazista in Francia come parte di un’opera più ampia di liberazione dell’Europa, o il gruppo Libérer et Fédérer di Tolosa, che aveva propugnato il federalismo infranazionale e integrale congiuntamente a quello sopranazionale. Tra le forze politiche fu soprattutto il Partito socialista a esprimere convincimenti europeisti, dopo che il suo storico leader, Léon Blum, allora detenuto politico del regime di Vichy, aveva maturato tali propensioni a seguito di una profonda riflessione sulla crisi della democrazia e del modello sociale prebellico negli Stati del vecchio continente.
Oltre a questo scritto di Blum, intitolato A l’échelle humaine e considerato una sorta di suo testamento spirituale, dal punto di vista teorico l’apporto più significativo della Francia di quegli anni alla causa del federalismo europeo fu sicuramente rappresentato dal saggio di Francis Gérard, Que faire de l’Allemagne?, pubblicato ad Algeri nel 1943, nel quale gli Stati Uniti d’Europa erano indicati come l’unica soluzione possibile a quel “problema tedesco” che aveva caratterizzato la storia continentale degli ultimi cento anni e che tutto lasciava prevedere che si sarebbe ripresentato nel dopoguerra. Nel giugno 1944, infine, venne elaborata negli ambienti resistenziali anche una Dichiarazione del Comitato francese per la federazione europea (CFFE), ma si trattò di un documento predisposto da pochi attivisti, per giunta sotto la diretta influenza dei federalisti italiani, che certamente non esprimeva l’idem sentire della maggioranza del partigianato d’oltralpe.
Ideali europeisti erano inoltre presenti anche nella Resistenza tedesca, con particolare riferimento all’attività del gruppo della “Rosa bianca” di Monaco, animato dai fratelli Hans e Sophie Scholl e composto per lo più da studenti dell’Università di Monaco che, nella temperie della guerra, prefigurarono la ricostruzione di una Germania federale all’interno di un’Europa federale, onde scongiurare il ripetersi del circolo vizioso del nazionalismo, dell’autoritarismo e dell’imperialismo bellicista. Convintamente europeisti erano inoltre i socialisti cristiani del Kreisauer Kreis, capeggiati dal conte Helmuth von Moltke, il massimo pensatore federalista tedesco, autore nel 1941 del saggio Ausgangslage. Ziele und Aufgaben, nel quale si individuavano nelle origini medievali degli Stati nazionali, nonché nella rottura dell’unità cristiana prodotta dalla Riforma protestante, le radici del “male europeo”, e si indicava nel federalismo, oltre che nei valori universali della religione, lo strumento necessario a ricomporre l’antica unità del continente e porre così fine a una funesta stagione di divisioni e guerre.
Sia i fratelli Scholl, giustiziati nella primavera del 1943, sia von Moltke, ucciso nel 1945, pagarono con la vita la loro battaglia politica in favore dell’unità europea. Una sorte analoga spettò pure a Carl Friedrich Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia e probabile successore di Hitler alla guida della Germania in caso di successo dell’attentato del 20 luglio 1944 contro il Führer, ucciso nel febbraio 1945; anch’egli era stato inoltre un teorico dell’unità europea, avendo individuato in questa prospettiva l’unica possibilità di riscatto per la Germania dopo i disastri del nazismo. Il suo europeismo è però più generico rispetto a quello di von Moltke: a tratti veniva confuso il concetto di federazione con quello di confederazione, e l’integrazione politica era sempre subordinata a quella economica. Almeno una menzione meritano infine Thomas Mann, che in un radiomessaggio del gennaio 1943 aveva auspicato la nascita di una federazione europea nell’ambito di una più ampia cooperazione economica delle nazioni civili del mondo, e Hilde Meisel, una socialista rifugiatasi nel Regno Unito all’inizio del conflitto, che nel 1943 aveva pubblicato a Londra il volume The Unity of Europe, in cui criticava con argomentazioni hamiltoniane le proposte di federazioni regionali allora avanzate dalla Resistenza soprattutto nell’Europa orientale, sostenendo che esse non avrebbero risolto né il problema tedesco, né quello della pace e forse neppure quello dello sviluppo economico.
Per quanto concerne la Gran Bretagna, l’episodio più noto è sicuramente rappresentato dalla proposta avanzata da Winston Churchill nel giugno 1940, mentre le truppe tedesche stavano ormai dilagando in Francia, di costituire una federazione franco-britannica, in modo da consentire la piena partecipazione di Parigi alla guerra e gettare le basi di una federazione europea. Tuttavia, a parte questa vicenda, dietro la quale si poteva scorgere la lungimiranza sia dello statista britannico sia di Jean Monnet, allora presidente del Comitato di coordinamento anglo-francese, e l’attività del laburista Ronald William Mackay, autore nel 1941 del volume Peace aims and the new order, che conteneva un progetto organico di costituzione federale, nel corso della guerra si diffusero nel paese soprattutto le idee dei fautori di una federazione atlantica, capace di riunire sotto istituzioni comuni Washington e Londra. Il più efficace sostenitore di questo progetto fu il giornalista americano Clarence Streit, autore nel 1939 del fortunato saggio Union now: a proposal for a federal union of the democracies of the North Atlantic, ma su questa linea si orientarono anche molti esponenti di Federal union, l’associazione nata nel 1938 dal Federal union research institute.
Per quanto riguarda gli altri Stati vale la pena ricordare brevemente il volume dell’olandese Hans Dieter Salinger, Der Wiedergeburt von Europa. Der Sinn dieses Krieges für Europa. Ein Kontinent sucht nach seiner Lebensformen und seiner Weltgeltung, diffuso clandestinamente negli ambienti resistenziali nel 1944. In quest’opera si indicava la necessità di superare l’attuale sistema europeo degli Stati che, come insegnava Versailles, aveva completamente fallito nel suo intento di creare stabilità in Europa, e quindi di dar vita a una federazione europea in grado di integrare la Germania, costituire un ponte tra Est e Ovest, consentire un miglior funzionamento della Società delle Nazioni grazie alla riduzione del numero degli Stati membri, nonché favorire lo sviluppo economico e la solidarietà sociale. Partendo da queste premesse Salinger elaborava quindi la costituzione di un’Europa federata, formata a sua volta da dieci federazioni regionali, prendendo in esame una serie di questioni tecniche generalmente tralasciate da progetti analoghi.
Di un certo interesse è inoltre anche il caso polacco, paese in cui nel corso della guerra venne diffuso clandestinamente il periodico federalista “Srodkowo-Europejski”, interamente centrato sui problemi dell’unità continentale. Tuttavia i progetti federalisti elaborati in Polonia e in altri paesi dell’Europa dell’Est propugnavano generalmente unioni regionali piuttosto che continentali, sottolineando le specificità esistenti rispetto all’area mediterranea e atlantica. Sin dal gennaio 1942, ad esempio, i governi in esilio di Polonia e Cecoslovacchia annunciarono che avrebbero costituito nel dopoguerra una confederazione aperta a tutti i paesi dell’area che avessero voluto diventarne membri, e, in quello stesso anno, l’ex presidente del Consiglio Milan Hodža auspicò la nascita di una federazione tra cechi, slovacchi e polacchi nel volume Federation in Central Europe. Reflections and reminiscens. Nel 1943 fu invece il Club danubiano a proporre una federazione più ampia di paesi dell’Europa sud orientale, e su questo terreno si distinse in particolare il suo segretario generale Feliks Gross, che avrebbe inoltre voluto veder confluire queste federazioni regionali in una più ampia confederazione europea.
Tuttavia, questi progetti federalisti elaborati nell’Europa orientale presentavano almeno due grossi limiti: mancavano di un adeguato approfondimento della dimensione istituzionale e non tenevano conto di un contesto internazionale che difficilmente ne avrebbe consentito la realizzazione, anche in virtù del loro carattere esplicitamente antisovietico. Un’indiretta conferma di ciò viene dalla Resistenza iugoslava, che in virtù del prestigio derivatole dalle vittorie militari contro i tedeschi, in un primo tempo propose un’unione con la Grecia, quindi propugnò la realizzazione di una federazione balcanica tra la Iugoslavia (che nel frattempo avrebbe dovuto annettere l’Albania), la grande Macedonia e la Bulgaria. Il collante della nuova entità statale veniva individuato da un lato nell’ideologia comunista e dall’altro nella presenza di un leader carismatico come Tito. Il limite del progetto era però rappresentato dall’incomprensione per le nuove dinamiche della politica internazionale, e di conseguenza il progetto venne rapidamente accantonato vista la contrarietà non solo dell’URSS, ma anche della Bulgaria, condizionata da Mosca, e della Grecia, non disposta a tollerare le rivendicazioni indipendentiste di quella parte della Macedonia compresa nel suo territorio.
Rientrava in qualche modo nell’ambito di questo discorso sulle federazioni regionali anche l’unione doganale tra Belgio, Olanda e Lussemburgo (Benelux), avviata il 1˚ gennaio 1948 sulla base di progetti elaborati durante la Resistenza e poi sfociati in una convenzione siglata a Londra nel settembre 1944 tra i rappresentanti dei tre governi in esilio.
Guido Levi (2012)
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