Robbins, Lionel
La corrente d’opinione favorevole al Federalismo, favorita dallo sviluppo di Federal union, è bene testimoniata dal crescente interesse con cui il mondo accademico britannico, di solito aristocraticamente incline a non lasciarsi coinvolgere nel dibattito politico, si occupò del tema della federazione. Ne è testimonianza il contributo di R. (Londra 1898-ivi 1984) che, ormai membro del Federal union research institute diretto da William H. Beveridge a Oxford e coordinato da Patrick Ransome, verso la fine di novembre 1939, pubblicava il volume The economic causes of war, indubbiamente un classico del pensiero federalista, che seguiva Economic planning and international order. Entrambi i volumi erano basati su una serie di conferenze tenute su invito di William Rappard all’Institut universitaire de hautes études internationales di Ginevra. Robbins fu docente di economia presso la London school of economics dal 1929 al 1961 e nel corso della guerra (dal 1941 al 1945) fu direttore della sezione economica degli uffici del War cabinet. Successivamente, dal 1954 al 1955, fu presidente della Royal Economic society, e del “Financial Times” dal 1961 al 1970.
In Economic planning and international order, R. aveva per primo capito come il mercato non fosse in grado di funzionare senza le regole che solo lo Stato è in grado di far valere. Nel 1937 sosteneva la necessità del trasferimento, da parte degli Stati nazionali, di una parte della loro sovranità a un’autorità internazionale. Il diritto di dichiarare la guerra e il potere di farla dovevano essere abbandonati. Ciò non avrebbe significato la perdita, da parte degli Stati nazionali, di tutti i poteri che garantivano l’indipendenza dei loro governi, dal momento che anche i poteri dell’autorità internazionale avrebbero dovuto essere limitati. Non si doveva giungere, secondo R., «né a un’alleanza, né a una completa unificazione, ma a una federazione» (v. Robbins, 1937).
In The economic causes of war, R. confutava l’interpretazione marxista‑leninista della guerra, identificando nella sovranità nazionale, e non nella proprietà privata dei mezzi di produzione, la causa fondamentale dei conflitti internazionali. Gli interessi che agivano a favore della guerra, non erano, secondo R., «interessi di classe in senso marxista», ma «interessi settoriali che hanno in comune interessi monopolistici nel mercato». Prendendo in considerazione l’influenza dei proprietari, appariva che non erano «i proprietari come classe» a essere attivi in quel senso, ma «un particolare gruppo di proprietari», coloro che speravano «di accrescere il valore del loro particolare tipo di proprietà attraverso la limitazione dei mercati» (v. Robbins, 1939, pp. 125-26). In settembre la “New Commonewalth quarterly” aveva pubblicato l’articolo Economic conditions of inter-state federalism di Friedrich von Hayek, in cui il celebre economista austriaco, da pochi mesi diventato cittadino britannico, sosteneva la creazione di una federazione europea entro la quale il libero scambio e la libera circolazione dei capitali e di persone avrebbero impedito agli Stati membri di esercitare un controllo esclusivo sulle politiche dei prezzi, delle monete e del fisco. Von Hayek notava, in particolare, che non solo il corretto funzionamento del sistema liberale richiedeva un certo grado di federalismo economico, ma che la federazione avrebbe anche offerto ai liberali un nuovo punto d’appoggio, Il liberalismo del XIX secolo non avrebbe avuto un successo più marcato perché non si era sviluppato nella direzione federalista, ma si era unito prima al federalismo e quindi al socialismo (v. von Hayek, 1939).
Un sistema internazionale di Stati socialisti si sarebbe potuto rivelare ancor più bellicoso di un sistema di Stati capitalisti, venendo a coincidere gli interessi nazionali con quelli della collettività. Varie e contrastanti erano le opinioni sulla guerra. I pacifisti avrebbero detto che si trattava “della mancanza di virtù”, mentre i biologi che si trattasse di “un aspetto dell’inevitabile lotta per l’esistenza”. Dal canto loro, gli psicologi sostenevano che essa fosse “un’espressione dell’istinto di morte” e che ci sarebbero voluti migliaia di anni per imparare a sublimarlo. I marxisti avrebbero sostenuto “che tutto è dovuto al sistema capitalista”, e alcuni storici avrebbero suggerito che si trattava del risultato di subdole forze oscure, delle quali erano i soli a conoscere il mistero: in realtà, concludeva R., si trattava «dell’esistenza di Stati sovrani indipendenti».
Gli architetti della Società delle Nazioni avevano ben intuito la necessità di una “autorità supernazionale”, senza capire peraltro che un suo funzionamento efficace era «incompatibile con la sovranità nazionale indipendente». La verità, sosteneva R., era che se non si sarebbe distrutto lo Stato sovrano, esso avrebbe distrutto la civiltà occidentale. Non era né desiderabile né possibile creare «uno Stato mondiale unitario», utopistico sperare di poter formare nello spazio di una generazione «una federazione di dimensioni mondiali», che doveva secondo R. venir considerata «come l’evento divino, per cui tutto ciò che è buono nell’eredità delle diverse civiltà del mondo ci invita a lottare». Ma non era utopistico lavorare per la costruzione della federazione europea, dal momento che nessuno, «con un benché modesto senso della storia» poteva negare «l’esistenza di un vero problema tedesco in Europa», che si esprimeva in un «senso profondo di insicurezza, […] che a partire dall’ascesa della Prussia», aveva «sempre più rappresentato una minaccia alla pace e alla libertà dell’Europa». I tedeschi, tuttavia, erano «parte della nostra civiltà e l’Europa non potrà mai godere davvero di buona salute» finché anche la Germania non ne avesse goduto. In un modo o nell’altro, gli europei avrebbero dovuto «creare una struttura in cui il Geist tedesco possa offrire il suo meglio, non il peggio, all’Europa». Una pace draconiana non avrebbe portato a nulla. Era possibile estirpare il nazismo, ma non «mantenere i tedeschi sottomessi indefinitamente». Le sofferenze che l’umanità stava conoscendo avrebbero avuto un significato «quale consacrazione» del sangue che si stava versando, solo vincolando «questo grande popolo, purificato dai suoi mali» […] nella cittadinanza libera ed eguale degli Stati Uniti d’Europa» (v. Robbins, 1939, pp. 90-109).
Nella primavera del 1940, anche lo “Spectator”, un settimanale di orientamento liberal‑conservatore, partecipava al dibattito pubblicando una serie di sei articoli, Federal union examined, quattro dei quali del direttore Henry Harris e due di R. Il 29 marzo, all’indomani della “dichiarazione solenne” anglo‑francese, R. sosteneva che, non essendo realizzabile il progetto streitiano e nemmeno il disegno di una federazione mondiale, il problema della federazione era essenzialmente “un problema europeo”. Se al di fuori dell’Europa il mantenimento della pace dipendeva «dalla buona volontà e dalla potenza dello Stato più forte», in Europa si stava attraversando «una di quelle crisi storiche in cui cambiamenti di grande portata sono la sola alternativa al caos». La civiltà europea non poteva sopravvivere nelle condizioni che avevano dominato la vita politica europea «sin dall’ascesa dell’impero bismarckiano». Negli intervalli di pace che l’Europa aveva conosciuto negli ultimi settant’anni, «e spese e gli intralci per prepararsi alla guerra» avevano vanificato i benefici creati dal progresso scientifico e generato periodi di «regresso e decadenza». L’esperienza della Società delle Nazioni insegnava che era erroneo fondare il mantenimento della pace sulla «buona volontà e la saggezza» degli Stati, perché in un sistema di Stati sovrani le considerazioni di ordine strategico – la difesa del territorio nazionale nell’eventualità della guerra – avevano il sopravvento su quelle di ordine morale: «Se potessimo dare per scontate ovunque la buona volontà e la saggezza, non dovremmo preoccuparci delle istituzioni. Ogni istituzione varrebbe le altre». Ma, concludeva R., «il regno della legge non può fondarsi su basi esclusivamente volontaristiche, né all’interno dello Stato né tra gli Stati».
Entrando nel merito degli aspetti economici della questione europea, R. osservava che tutti coloro che avevano esaminato con attenzione il problema, giungevano alla conclusione che «l’esistenza di barriere commerciali e di ostacoli ai flussi migratori è la causa di gravi crisi economiche e di una continua tensione nelle relazioni internazionali». In assenza di un controllo centrale all’interno di un’area nazionale, non v’era «motivo di attendersi che le città e le province non facciano ricorso a politiche economiche anti‑sociali, vale a dire a dazi e a restrizioni locali ai movimenti», come accadeva nel Medioevo. Così pure, nell’assenza «di un’autorità internazionale con poteri di primaria importanza», non v’era alcun motivo «di supporre che gli Stati sovrani non facciano ricorso a misure simili». L’idea che in Europa si potesse «avviare una stabile ricostruzione economica prima di una efficace ricostruzione politica», andava contro non solo «a tutte le supposizioni ragionevoli, ma anche alle lezioni di tutta la recente esperienza». Il problema economico era «essenzialmente politico». La difesa della civiltà europea esigeva che i suoi popoli formassero una «unione più stabile e più avanzata per quanto riguarda i suoi poteri, rispetto al sistema confederale della Società delle Nazioni». Gli Stati europei dovevano rinunciare «al loro diritto di far la guerra e la pace» e anche «al diritto di seguire politiche economiche che mettono in difficoltà e impoveriscono i loro vicini». Condizione fondamentale per creare una federazione europea era «l’attribuzione a un’autorità centrale […] di quei poteri il cui esercizio indipendente è contrario alla stabilità e alla giustizia». Ciò non implicava semplicemente l’esistenza di una cultura comune, ma istituzioni e comportamenti «più o meno simili». La federazione avrebbe dovuto comprendere l’Europa intera – sia pure con l’esclusione dell’Unione Sovietica – poiché «una federazione più piccola, limitata alle potenze occidentali», avrebbe «corso il rischio di creare rivali». Le elezioni del Parlamento federale sarebbero dovute essere dirette. Una tale costruzione non poteva realizzarsi immediatamente e nemmeno nel corso di un’intera generazione, ma si poteva sperare di avviarla se nel dopoguerra si fosse consolidato «a occidente un solido nucleo di stabilità e di potere». Nel breve periodo si potevano in effetti realizzare dove esistevano «le principali condizioni necessarie a una unione federale permanente» tra Regno Unito e Francia.
R. sottolineava che senza «un’unione permanente» anglo-francese, vale a dire «una permanente unione delle risorse militari, economiche e una continua identità nella politica estera», non c’era «alcuna speranza neppure per l’avvio di un durevole riassetto della pace». Era necessario «costruirlo immediatamente, non solo come un rafforzamento del potere di difesa, ma anche come la testata d’angolo degli Stati Uniti d’Europa» che alla fine sarebbero sorti.
Intervenendo, sempre sullo “Spectator”, il 12 aprile, R. mostrava l’infondatezza della tesi del direttore Harris, secondo il quale era possibile conseguire un «disarmo economico […] senza la creazione di una struttura politica». Non era plausibile attendersi, in nome della ragione e dell’esperienza, che Stati indipendenti e vicini potessero vivere in armonia sulla base della saggezza e della buona volontà. La questione di fondo era «la rinuncia alla libertà di far la guerra e alla libertà di limitare le possibilità economiche dei propri vicini». Chi, come Harris, non riconosceva i termini di riferimento della questione e riteneva efficaci le soluzioni intermedie tra «la rinuncia permanente a queste libertà» e «il perpetuarsi del caos attuale», era un illuso (v. Robbins, 1940, pp. 517-18).
Andrea Bosco (2010)