Roosevelt, Franklin Delano
Avvocato e uomo politico statunitense, R. (New York 1882-Warm Springs 1945) fu presidente degli USA dal 1933 al 1945. Durante i suoi quattro mandati gli Stati Uniti divennero la maggiore potenza economica e militare mondiale. Di fronte al declino dell’egemonia globale europea, R. teorizzò esplicitamente il primato del suo paese quale modello di sviluppo civile e democratico; volle in tal senso ricollegarsi alla visione democratica e progressista di Woodrow Wilson, adattandone le idee al contesto della Grande depressione sul piano della politica interna e alla lotta contro le dittature fasciste e il militarismo giapponese su quello della politica estera.
Nato da famiglia patrizia, R. poté godere di notevoli opportunità educative e di vaste relazioni sociali. Dopo aver compiuto gli studi ad Harvard e alla Columbia University, si avviò alla carriera forense, ma presto la abbandonò preferendo quella politica. Nel 1910 venne eletto nelle file del Partito democratico al Senato di New York e tre anni più tardi ottenne un incarico nell’amministrazione Wilson. Nel 1928 divenne governatore dello Stato di New York, carica in cui si fece notare per la vocazione riformista, che si richiamava alle due grandi presidenze dell’età progressista, quella di Theodore Roosevelt (suo lontano cugino) e quella di Wilson. Grazie alla popolarità così acquisita, nel 1932 fu scelto come candidato democratico alla Casa Bianca e sconfisse pesantemente il presidente uscente Herbert Hoover.
Nel confronto con Hoover uno dei temi più rilevanti fu l’influenza dell’Europa sulla crisi del 1929. Il repubblicano era convinto che il coinvolgimento americano negli affari europei, causato dalla Grande guerra e dalla situazione economica del dopoguerra, avesse finito per rovesciare i problemi del vecchio continente sugli Stati Uniti, il cui sistema altrimenti era sano. R. sosteneva invece che la catastrofe fosse primariamente endogena e dipendesse dalle scelte delle precedenti amministrazioni, le quali, a suo parere, avevano badato solo alla salvaguardia di interessi oligarchici privati, consentendo un aumento della produzione di beni che le masse lavoratrici non erano poi state in grado di assorbire. Il nuovo presidente si impegnò pertanto nell’espansione dei poteri di governo, ritenendo necessarie anche forme di “pianificazione economica”.
Particolarmente abile e spregiudicato nell’uso della retorica pubblica e dei mezzi di comunicazione di massa per popolarizzare la sua leadership, R. fece del New Deal la parola d’ordine del suo disegno politico. Il concetto centrale di tale “nuovo corso”, come si è detto, era rappresentato dall’espansione dei doveri e delle responsabilità del governo. Su tali basi l’amministrazione democratica mise subito in atto misure di aiuto e di regolamentazione per l’agricoltura e l’industria, non senza incontrare peraltro l’opposizione della Corte suprema, su pressione di ambienti imprenditoriali ostili a questo attivismo statale.
Di fronte alle persistenti difficili condizioni delle classi più povere, nel 1935 R. promosse una nuova serie di riforme dal più marcato carattere sociale, tra cui un sistema pensionistico e una forma di assistenza per i disoccupati. L’anno seguente venne così rieletto grazie all’ampio consenso conquistato tra gli strati popolari. Tuttavia il New Deal non era riuscito a mettere effettivamente fine alla crisi; un’autentica ripresa economica giunse in realtà solo con la partecipazione degli Stati Uniti alla Seconda guerra mondiale.
Fino al 1938-1939, nonostante il wilsonismo in politica interna, la linea isolazionista parve indiscutibile in politica estera. R. continuò a ripetere per tutto il corso del decennio che l’America non si sarebbe fatta coinvolgere negli affari europei, pur osservando con preoccupazione l’ascesa della Germania nazista. Solo gli eventi del 1940, a partire ovviamente dal crollo della Francia, modificarono l’orientamento dell’opinione pubblica statunitense e spinsero il presidente (primo nella storia americana a essere eletto per la terza volta) a varare una politica di aiuti nei confronti degli inglesi (culminata nel 1941 nella c.d. “Legge affitti e prestiti”) e a sottoscrivere con il premier britannico Winston Churchill la Carta atlantica, con cui gli Stati Uniti si impegnavano alla cooperazione con il Regno Unito per costruire un mondo pacifico dopo la sconfitta del nazismo. In tale prospettiva, la Carta poneva altresì le premesse per la realizzazione delle Nazioni Unite, organizzazione internazionale che avrebbe raccolto l’eredità della Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, secondo R., erano nazioni “sorelle”, con il compito di diffondere il “vangelo della democrazia”: anche sul piano della politica estera era stato così ripreso il wilsonismo, con il suo idealismo democratico impregnato di umanismo religioso.
Nei confronti dell’Europa R. condivise con i “wilsoniani” presenti nella sua amministrazione, tra i quali il segretario di Stato Cordell Hull, l’ideale del disarmo globale, la convinzione che le esportazioni fossero essenziali per il programma di ricostruzione economica nazionale e l’ostilità nei confronti dell’imperialismo europeo. Su quest’ultimo punto le opinioni del presidente si conciliavano altresì con i forti sentimenti “euro fobici” di esponenti del Dipartimento di Stato come Sumner Welles e Adolf Berle. Di fronte alla “russofobia” di diversi intellettuali del Partito democratico, invece, R. dimostrò di non considerare del tutto attendibile la rappresentazione della Russia quale maggior minaccia alla futura stabilità mondiale, tanto meno l’allarmismo circa un’eventuale diffusione del comunismo in America. Prevalevano nella sua visione i fattori di convergenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica: erano entrambi paesi continentali, federali, essenzialmente non europei; i loro popoli avevano inoltre una marcata attitudine sperimentale e una spiccata inclinazione religiosa. R. si accostava in tal modo alle posizioni della fazione progressista, in primis rappresentata nell’amministrazione dal vicepresidente Henry A. Wallace, deciso fautore di una collaborazione statunitense con la Russia sul piano internazionale. Lo stesso R. si convinse di questa possibilità, soprattutto ovviamente con la svolta causata dall’invasione tedesca dell’URSS il 22 giugno 1941 e con l’attacco giapponese di Pearl Harbor il 7 dicembre.
Nella visione rooseveltiana del dopoguerra, il grande obiettivo americano in Europa doveva essenzialmente consistere in una sistemazione che mettesse fine ai conflitti del passato. In tale prospettiva R. intendeva dunque ridurre radicalmente il peso dell’Europa, portandola a un sostanziale ritiro dalla scena internazionale. Nei suoi piani, abbozzati già nell’estate del 1941, la pace sul vecchio continente sarebbe derivata innanzitutto dal disarmo e dalla riconfigurazione europea in Stati di piccole dimensioni. Sarebbero rimaste due sole potenze, la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica, con una equilibrata relazione, a garantire la stabilità.
In generale, dunque, la concezione rooseveltiana dello scenario europeo postbellico era assai lontana dall’ideale federalista (v. Federalismo): il presidente statunitense temeva infatti che dall’unificazione del vecchio continente potesse risorgere un’egemonia tedesca. Il suo obiettivo principale era, in ultima analisi, salvare il mondo dall’Europa, e in tale prospettiva egli non riteneva desiderabile l’integrazione, bensì la frammentazione. Un esimio promotore dell’idea dell’unità europea come il conte austriaco Richard Coudenhove-Kalergi fu ascoltato da esponenti dell’amministrazione R. come Berle, Welles e Hull, ma le sue idee alla fine non incontrarono il consenso della Casa Bianca, più fortemente preoccupata di evitare una nuova minaccia proveniente dalla Germania.
Rieletto nel 1944 per la quarta volta, R. morì poche settimane prima della fine della guerra. Gli succedette il vicepresidente Harry Truman, il quale, nel mutato scenario internazionale della Guerra fredda, avrebbe invece avviato una politica di sostegno all’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).
Giovanni Borgognone (2012)