Rougemont, Denis de
Il percorso di R. (Neuchâtel, 1906-Ginevra, 1985) fu quello delle fedeltà: al suo paese, del quale fece un modello di organizzazione politica che sperò di trasferire su scala europea; al suo impegno filosofico, che lo condusse dal personalismo al Federalismo; alla sua opera di militante europeo, incarnata tra l’altro dalla creazione del Centro europeo della cultura, ai cui destini presiedette dal 1950 alla sua morte.
R. nacque in una famiglia protestante (suo padre era pastore della Chiesa riformata) a Couvet, presso Neuchâtel, l’8 settembre 1906. L’ambiente di notabili locali dal quale proveniva gli diede la possibilità di viaggiare e di seguire i corsi delle università di Neuchâtel, di Ginevra e di Vienna per conseguire la laurea in lettere. È in quel periodo che cominciò la carriera di scrittore, inviando articoli letterari e filosofici a riviste elvetiche.
Giunto a Parigi nel 1930, lavorò in una piccola casa editrice protestante, Je Sers, e divenne uno dei componenti della costellazione dei non conformisti degli anni Trenta. Fu uno dei principali animatori della corrente personalista: amico di Emmanuel Mounier, partecipò, nel 1932, alla fondazione di riviste come “Esprit” e “L’Ordre nouveau” di Robert Aron e Arnaud Dandieu. Sognava in questo periodo una «rivoluzione necessaria» per lottare contro il «disordine stabilito». Nello stesso tempo, in un’attività intellettuale impressionante, collaborò a “La Nouvelle revue française” (NRF) e diventò il fulcro della rivista protestante “Hic et nunc”, ispirata dalle riflessioni teologiche di Karl Barth, teologo svizzero di lingua tedesca che influenzò numerosi giovani protestanti del periodo tra le due guerre alla ricerca di una rivoluzione spirituale che condannasse il materialismo della civiltà borghese. Sulla scia delle idee di Pierre-Joseph Proudhon, di Søren Kierkegaard e di Karl Barth, R. si pronunciò dunque a favore di una morale fondata sul personalismo. Prolungò il suo impegno in un saggio intitolato Une véritable politique de la personne (1934) e in Penser avec les mains (1936). Ma la sua opera di maggior successo fu L’amour et l’Occident (1939), nella quale lo scrittore si fece moralista e storico dei miti.
Fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, R. ribadì le sue posizioni contro la Germania nazista che aveva potuto analizzare durante un soggiorno compiuto come lettore all’università di Francoforte nel 1935; allora aveva affidato le sue riflessioni al “Journal d’Allemagne” (1938) e si era schierato contro ogni totalitarismo. Fu negli Stati Uniti che R. trascorse tutta la fase della guerra e vi rimase, tranne che per un breve periodo, fino al 1947: lì incontrò Saint-John Perse e André Breton, che diventarono suoi amici, e fu una delle voci di “l’Amérique parle aux français” mentre era professore alla Scuola libera degli alti studi di New York. Alla fine del conflitto, sempre più convinto del fallimento dei nazionalismi e dei sistemi centralizzati, si pronunciò per un federalismo che spezzasse ogni Stato nazione.
Di ritorno dagli Stati Uniti, R. pubblicò nel 1948 due opere, Son journal des deux mondes e L’Europe en jeu, in cui insisteva sulla necessità di costruire l’Europa secondo il modello elvetico, diventando uno dei più convinti sostenitori del federalismo europeo, il solo capace di rispettare i diritti della persona umana.
Si impegnò, allora, come militante europeo attivo e svolse un ruolo importante nei congressi a favore dell’Europa: dai primi incontri internazionali di Ginevra (settembre 1946) al Congresso dell’Aia (7-11 maggio 1948), nel quale fu l’autore della risoluzione finale, il “Messaggio agli europei”. Deluso per l’assenza di decisioni immediate e per gli arretramenti dei federalisti davanti agli unionisti, manifestò la sua perplessità di fronte alle iniziative successive, come la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che giudicava troppo parziali.
R. applicò inoltre l’idea attribuita così spesso, a torto, a Jean Monnet: «Se si dovesse ricominciare, farei l’Europa attraverso la cultura». Costruttore di una Europa concepita come una comunità di valori, operò per promuovere l’identità culturale europea partecipando alla creazione del Centro europeo della cultura (1950), alla Fondazione europea della cultura (1954), all’Istituto universitario di studi europei di Ginevra (1963), dove insegnò fino alla morte, e all’Associazione europea di festival musicali. Continuò la sua lotta in Les chances de l’Europe (1962), La lettre ouverte aux Européens (1970) e L’Un et le divers ou la Société européenne (1977).
In seno al Centro europeo della cultura, R. stabilì numerosi legami con intellettuali e artisti su scala continentale e fu alla testa della prima istituzione europea che si attribuiva «la missione generale di dare una voce alla coscienza europea e, come compito immediato […], quello di promuovere il sentimento della comunità europea per mezzo di informazioni e di iniziative […] di offrire un luogo di incontro ai rappresentanti della cultura, perché possano esprimere un punto di vista propriamente europeo sulle grandi questioni, attraverso appelli all’opinione pubblica e ai governi […]» (v. de Puymège, 1993, p. 14). Il bilancio del “metodo Rougemont” si rivelò particolarmente fecondo nell’emergere di reti di élites europee come luogo di incontro e di discussione, ma anche nel tentativo di promuovere un civismo europeo. Negli anni Settanta, le maggiori preoccupazioni di R. furono legate all’Europa delle regioni, solo baluardo, ai suoi occhi, contro i nazionalismi e la guerra; in seguito aderì alla battaglia per l’ecologia, che divenne per lui il principale problema del secolo.
Altre scandiscono iniziative scandirono gli anni Cinquanta e Sessanta: R. fu impegnato nella difesa del mondo libero, differenziandosi dalla maggior parte degli intellettuali francesi dell’epoca, più attratti dal ruolo di compagni di strada del Partito comunista o dalle lotte anticoloniali. A questo fine, R. inviò regolarmente articoli a “Preuves”, rivista pubblicata sotto gli auspici del Congresso per la libertà della cultura, del quale presiedette il comitato esecutivo dal 1950 al 1967. Questo orientamento verso la costituzione di un ambiente intellettuale che denunciasse il totalitarismo comunista non lo pose allora in primo piano sulla scena mediatica, ma gli permise di tessere legami con gli intellettuali dell’altra Europa. Con L’avenir est notre affaire (1977), ritrovò il successo difendendo con caparbietà le sue idee federaliste e la sua critica al materialismo produttivista.
Se Saint-John Perse vedeva in lui una «versione scientifica dell’homo europeanus», in ogni caso questo pessimista attivo, come egli stesso amava definirsi, incarnato incarnò la ricchezza dell’avventura europea. Con la sua infaticabile attività di animatore, di divulgatore, di pensatore e di scrittore, R. agì come portatore di un progetto europeo, ma rivelò anche l’esistenza della dimensione culturale dell’Europa. Al centro di numerose reti di rapporti («la libertà è il diritto di appartenere a più di un club», amava ripetere), a partire dagli anni Trenta manifestò una costante adesione a un corpus di dottrine, che vanno dal personalismo al federalismo, capace di proteggere i diritti della persona umana per i quali lottò sempre (v. anche Diritti dell’uomo), di avvicinare gli uomini più competenti nel loro campo, di riunirli attraverso convergenze europee e di dotare la costruzione europea di una vera dimensione culturale.
Christine Manigand (2010)