Saragat, Giuseppe
S. (Torino 1898-Roma 1988), giovane Ufficiale di artiglieria nella Prima guerra mondiale, aderì al movimento socialista italiano iscrivendosi, nel 1922, al Partito socialista unitario di Filippo Turati e Claudio Treves.
In seguito all’avvento del fascismo, trascorso un triennio in Austria, ove conobbe Otto Bauer e l’austromarxismo, S. proseguì l’esilio in Francia partecipando al dibattito fra i compagni socialisti sul futuro dell’Europa e sulle prospettive di ricostruzione per il vecchio continente: dal Federalismo europeista di Carlo Rosselli alla proposta di una “Costituente europea per la pace” lanciata da Giuseppe Emanuele Modigliani, all’europeismo di Angelo Tasca. La firma del “Patto di non aggressione” fra Germania e Unione Sovietica portò S. a considerare lo scontro bellico come la guerra degli Stati totalitari contro i popoli liberi e a sostenere che il socialismo europeo avrebbe dovuto richiamare costantemente i popoli ai valori dei regimi democratici esistenti in Occidente. È nel quadro di queste argomentazioni che S. si allontanò dall’idea di una unione di Stati europei e socialisti e iniziò a discutere di una federazione degli Stati europei ispirati ai valori democratici occidentali. La rinascita del socialismo europeo, quindi, doveva essere accompagnata da un forte rinnovamento ideologico, che implicava necessariamente la rinuncia al mito dell’Unione Sovietica, sostituito da un nuovo ideale: la Federazione europea.
La valenza di questa prospettiva per S. si rafforzò ulteriormente a seguito della sua nomina ad ambasciatore italiano in Francia, nell’aprile 1945. Ritornato a Parigi il neo ambasciatore entrò in contatto con i rappresentanti diplomatici delle principali potenze mondiali, dibattendo sulle spinose questioni relative al trattato di pace. Determinanti per la successiva decisione di dare vita, con la scissione di palazzo Barberini, al Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI), furono la costante frequentazione di Léon Blum e dei socialisti francesi, come anche alcuni incontri con l’ambasciatore sovietico Aleksander Bogomolov, nel corso dei quali si consolidò in S. la convinzione che l’antica avversione comunista nei confronti delle socialdemocrazie europee, messa da parte dopo la “svolta” staliniana sancita nel settimo congresso dell’Internazionale comunista, avrebbe nuovamente preso vigore nel secondo dopoguerra. Per questa ragione, il movimento socialista poteva avere, a livello nazionale ed europeo, una parte importante rispetto alla nascente contrapposizione fra le due grandi potenze e nella creazione di un’Europa “terza forza” indipendente. Nel marzo 1946, S. concludeva la sua breve ma intensa esperienza di ambasciatore denunciando sia l’avversione dei comunisti verso le “terze forze” socialiste e democratiche, che facevano saltare la dialettica manichea dei loro ragionamenti, che la conseguente politica antieuropeista dell’Unione Sovietica, volta a “disintegrare” gli elementi unificatori che germinavano nell’Occidente europeo.
In seguito alla scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947, la riflessione socialista sul federalismo europeista rimase in buona parte circoscritta alle correnti che facevano capo alle riviste “Critica Sociale” e “Iniziativa Socialista”, e che confluirono nel neonato PSLI. Il momento discriminante di questa riflessione fu l’annuncio del Piano Marshall, nel giugno 1947. L’iniziativa americana, secondo S., ridiede vigore all’antica idea socialista di creazione di una federazione degli Stati europei (gli Stati Uniti d’Europa) e ben si sarebbe coniugata con la strategia di ripresa economica, nazionale e continentale, sostenuta dal suo partito e fondata sul concetto di pianificazione della spesa pubblica e di sfruttamento razionale e coordinato dei finanziamenti americani che in tal modo sarebbero stati sottratti alle grandi speculazioni del capitalismo europeo. La pratica applicazione di un piano economico in Europa assumeva in tal modo un ruolo pacificatore eliminando ogni discriminazione tra vincitori e vinti attraverso un’opera lenta di penetrazione, mediante il progressivo accentuarsi del comune interesse economico. S., ad esempio, era sicuro del fatto che una volta risolta la questione della Germania e rilanciato il suo ruolo economico in Europa, molti problemi dell’economia italiana sarebbero stati risolti. L’utilità storica del Piano Marshall, secondo il leader del PSLI, era legata, in definitiva, ai seguenti principi: parità di diritti tra gli Stati aderenti; porta aperta all’Unione Sovietica e alle nazioni dell’Europa orientale; coordinamento dei piani di ricostruzione nazionali con quelli degli altri paesi europei.
Nell’autunno del 1947 i socialisti democratici avviarono la stagione della collaborazione governativa. S. ricoprì incarichi nella prima e seconda legislatura. Fu vicepresidente del Consiglio nel quarto e quinto governo di Alcide De Gasperi, nel governo di Mario Scelba e nel primo governo di Antonio Segni.
Convinto della necessità di dover mantenere saldi i rapporti con gli Stati Uniti e le altre democrazie dell’Europa occidentale, dal 1948 in poi S. fu un attivo sostenitore del processo di integrazione economica e militare dell’Europa occidentale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). La politica “espansionistica” staliniana e i colpi di stato del 1948 portarono S. a considerare con realismo la nuova fase dei rapporti internazionali, determinando un suo progressivo allontanamento dall’ipotesi di un’Europa “terza forza”. Egli fu tra i primi a porre termine alla parabola “terzaforzista” del suo partito, tracciando un bilancio definitivo dell’esperienza sovietica e raffrontando l’azione del regime staliniano a quella dei paesi dell’Occidente capitalista dove, a suo dire, la presenza della democrazia politica avrebbe rafforzato il movimento socialista democratico. Avendo raggiunto la convinzione che le forme d’evoluzione del comunismo sovietico portavano verso un sistema antidemocratico e totalitario, S. si schierò, quindi, a favore dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico e (NATO) salutò con entusiasmo la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), della Comunità economica europea (CEE), della Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM).
All’inizio della quarta legislatura, dopo una breve esperienza alla presidenza della commissione Affari esteri della Camera dei deputati, nel dicembre 1963 S. fu nominato ministro degli Esteri nel primo (e poi nel secondo) governo di Aldo Moro. In quella fase la politica estera del governo italiano puntava alla riconferma dell’alleanza militare con gli Stati Uniti, impegnati dall’intervento in Vietnam, e al rafforzamento delle Istituzioni comunitarie. Era necessario assecondare la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica sulla limitazione degli armamenti atomici, accentuando il carattere difensivo del Patto atlantico. Sul piano della politica europea S. si distinse per un notevole attivismo (di stampo antigollista e filobritannico): nel novembre 1964, il ministro degli Esteri italiano presentò un progetto di Dichiarazione per un nuovo trattato volto a “istituzionalizzare” il processo d’integrazione europeo anche sul piano politico, progetto che fallì per l’opposizione francese. È interessante, comunque, ricordare che la Dichiarazione proponeva per il triennio di preparazione del nuovo trattato, l’avvio di una cooperazione politica sistematica tra gli Stati, l’approfondimento di politiche comuni, l’apertura all’Adesione del Regno Unito, l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo con un rafforzamento dei suoi poteri (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo), e la fusione delle tre Comunità europee. Per la fase transitoria, S. configurò anche possibili linee generali per una politica estera comune, nonché gli strumenti per attuarla: una commissione politica intergovernativa e un segretariato permanente indipendente con potere d’iniziativa. Infine egli propose l’avvio di un “colloquio annuale” dei governi nazionali con il Parlamento europeo in materia politica.
Più in generale la linea di politica estera filoatlantica ed europeista del ministro degli Esteri S. e del suo governo fu perseguita anche in occasione della crisi di Cipro, del rifiuto opposto all’entrata della Spagna franchista nel Mercato europeo comune (MEC) (v. Comunità economica europea) e durante le tensioni indipendentiste in Alto Adige nell’estate del 1964.
Dopo l’elezione, nel dicembre 1964, alla presidenza della Repubblica italiana, S. proseguì con tenacia a sostenere l’unità europea esaltandone il processo d’integrazione economica, come avvenne, ad esempio, durante l’incontro con il presidente francese Charles de Gaulle in occasione dell’inaugurazione del traforo del Monte Bianco. Nel corso del colloquio S. cercò di ammorbidire la posizione francese sul futuro delle istituzioni europee: il presidente francese aveva posto il veto per l’ingresso della Gran Bretagna nel MEC, S. invece l’aveva caldeggiato. Se de Gaulle mirava a un asse franco-tedesco, S. sosteneva la necessità di un maggiore coordinamento tra Europa e Stati Uniti e insisteva sull’inevitabilità di un’integrazione europea non solo economica ma anche politica; de Gaulle auspicava, invece, “l’Europa delle patrie”.
Nel corso dei suoi viaggi all’estero e in Italia, il presidente S. non perse occasione per ricordare le difficoltà nel processo d’integrazione europea, sottolineando il dovere per i governanti di richiamarsi sempre all’idea europeista con una decisa condanna del nazionalismo, e per valorizzare quelle strategie internazionali volte a rendere l’Europa unita e alleata, su basi paritarie, agli Stati Uniti. Divenuto senatore a vita nel 1972 e abbandonati gli incarichi governativi, S. ritornò alla vita politica attiva dedicandosi interamente al partito.
Michele Donno (2010)