Segni, Antonio
S. (Sassari 1891-Roma 1972) è stato uno dei protagonisti della politica italiana tra il 1948 e il 1964 ricoprendo gli incarichi di ministro dell’Agricoltura, dell’Istruzione, degli Esteri e della Difesa. Presidente del Consiglio dal 1955 al 1957 e dal 1959 al 1960, nel maggio del 1962 fu eletto Presidente della Repubblica, carica dalla quale si dimise nel dicembre del 1964 perché colpito da grave infermità.
Dirigente del Partito popolare italiano e tra i fondatori in Sardegna della Democrazia cristiana (DC), S. maturò la sensibilità nel valore dell’unità ideale, culturale, politica ed economica dell’Europa, ispirandosi al pensiero e alle proposte di don Luigi Sturzo, riprese e arricchite nei documenti fondativi della DC da Alcide De Gasperi.
I tratti distintivi dell’europeismo di S. furono lo sforzo di collegare le ragioni ideali, giuridiche, religiose e storiche che imponevano all’Italia di favorire l’unità economica e politica dei paesi liberi del continente, con la consapevolezza che sarebbe stata anche un fattore decisivo per la difesa della libertà nell’Occidente e per lo sviluppo civile e sociale del paese. I documenti che li evidenziano sono tanti. Ne ricorderemo alcuni dei più significativi, tratti dai suoi interventi in Parlamento, in congressi e consigli nazionali della DC (importanti per il peso che in quegli anni esercitavano gli indirizzi del partito di maggioranza relativa sui governi “monocolori” DC e su quelli di coalizione) e in altre circostanze di spicco.
Sono tratti evidenti nel discorso programmatico di presentazione del suo primo governo in Parlamento il 13 luglio 1955, come risulta dagli Atti parlamentari della Camera di quella data.
«Il rilancio europeistico – dice il presidente del Consiglio designato – che attraverso le Conferenze di Messina e di Bruxelles ha assunto un aspetto più concreto, testimonia che l’ideale di una Europa unita non è tramontato. […] Gli attuali tentativi per la creazione di un mercato comune costituiscono un passo decisivo su questa via. Ma siamo sempre convinti, oggi come ieri, che la unificazione politica, oltre quella economica dell’Europa rimane una imperiosa necessità […]. Se l’Europa occidentale vuole riacquistare l’influenza che tradizionalmente e moralmente ebbe, ed essere in grado di dare un contributo alla politica mondiale pari alla sua importanza storica ed a questa sua grandiosa tradizione, essa deve unirsi perché soltanto attraverso l’unificazione riacquisterà una effettiva forza e quella indipendenza economica che ne è la necessaria premessa».
Il 19 agosto 1955 – parlando a Trento nel primo anniversario della morte di Alcide De Gasperi – S. pone l’accento sul valore che avrebbe anche per la difesa della pace nel continente e nel mondo la realizzazione di quella Comunità europea di difesa (CED) per la quale, con appassionata determinazione ma senza successo, lo statista trentino si era battuto negli ultimi anni. Dopo aver detto – citiamo dal testo del discorso pubblicato il 20 agosto dal quotidiano della DC “Il Popolo” – che già la costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) realizza una organizzazione che rafforza la pace nel continente, S. afferma: «Accanto ad essa abbiamo avuto la CED in cui si è visto un nuovo avvenire per l’Europa. Essa non è riuscita ad affermarsi, e non per volontà nostra, ma successivi sviluppi internazionali ci portano a ritenere indispensabile la solidarietà internazionale per la difesa della civiltà attraverso una serie di ordinamenti semplici […]. Con questa nuova organizzazione internazionale che fu la passione del nostro maestro in tutta la sua vita, e che lo accompagnò sino all’ultimo, potrà finalmente realizzarsi quella tranquillità alla quale aspirano i popoli».
Al Consiglio nazionale della DC del 4-5 febbraio 1957, nella veste di presidente del Consiglio, S. prende la parola e pone l’accento sul valore che l’imminente firma dei trattati istitutivi del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea) avrà per lo sviluppo economico e sociale del continente, per il rafforzamento della comunità atlantica e per i vantaggi che apporterà alle zone depresse del Mezzogiorno d’Italia.
Con ciò – precisa – «non si vuol dire che si debba assumere una posizione di terza forza, tutt’altro. Anzi l’unità europea deve essere concepita come un rafforzamento della NATO [North Atlantic treaty organization, v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico]. Il problema dello sviluppo economico è decisivo anche per le sorti delle guerre che si vincono per la superiorità delle attrezzature industriali, rafforzando l’Europa si porta un contributo validissimo al trattato del Nord Atlantico, al quale non si intende assolutamente rinunziare. Da parte di taluno è stato detto che trattandosi di una Unione esclusivamente economica, scarso ne sarebbe il valore; si dimentica così che non esistono problemi politici distinti da quelli economici. Ed è evidente che un passo così ardito come il Mercato comune non può non essere che un grande atto politico inquadrantesi nella politica seguita da dieci anni a questa parte. Iniziando dal porre delle basi economiche, e quindi sociali e politiche, noi intendiamo stringere ancora più i vincoli con gli altri paesi atlantici». Ricordato infine che vi è chi afferma che l’impegno del MEC oltremare potrebbe nuocere a quello dello Stato nel Mezzogiorno, S. replica: «Non vedo l’esistenza di un simile pericolo, tanto più che è stato istituito un apposito fondo europeo destinato esclusivamente alle zone depresse dei sei Paesi contraenti, zone che si trovano prevalentemente in Italia».
Il tono e i contenuti della dichiarazione fatta dal presidente del Consiglio il 25 marzo 1957 dopo la firma dei Trattati di Roma (integralmente riportata da “Il Popolo” del 26 marzo 1957) sono adeguati al valore dell’avvenimento.
S. esordisce affermando: «Non è senza un significato profondo che i trattati che segnano il primo passo verso una nuova unità dell’Europa sono firmati in Roma, in Campidoglio». Dopo aver ricordato che venti secoli prima Roma era diventata la capitale politica del mondo «per la forza del suo ordinamento statale e giuridico più che per quella delle armi»; che «millenovecento anni or sono questa civiltà, per disegno provvidenziale divenne universale: lo spirito cristiano permeò e fece sua la civiltà romana»; che quella civiltà mantenne per secoli «l’ispirazione e l’idea dell’unità europea» da Augusto a Carlo Magno e a Dante, S. osserva: «Questa unità parve infranta per sempre per le lotte fra popoli. […] Ma oggi si è ripresa coscienza della fondamentale unità e dei comuni destini. La strada che oggi si inizia con i trattati firmati, non è solo quella di una espansione di scambi commerciali, di un progresso economico, di una cooperazione, di mezzi e di tecnici, per la ricerca delle nuove fonti di energia. […] I cittadini dei sei Stati saranno i cittadini dell’Europa. Il sistema si costruirà e si perfezionerà giorno per giorno: oggi si è iniziata una strada che richiede coraggio e fiducia».
Incaricato di formare il suo secondo governo dopo le dimissioni di quello presieduto da Amintore Fanfani, S. dedica incisivi passi nel discorso programmatico in Parlamento al valore politico ed economico generale e agli effetti positivi per l’Italia del processo di integrazione europea iniziato coi Trattati di Roma. «In politica estera – dice – non possiamo che continuare nella strada che l’Italia ha scelto liberamente dieci anni or sono. […] Con questa pregiudiziale la nostra attività si rivolgerà in primo luogo all’Europa», al rafforzamento e alla estensione della sua unità, perché «noi riteniamo che questo sia il modo più idoneo per rafforzare, nel più vasto quadro delle Nazioni Unite, la solidarietà occidentale: sotto il duplice aspetto dell’Alleanza atlantica e dell’integrazione europea, sulle quali poggia ormai solidamente da anni tutta la nostra politica estera». Dopo aver affermato che il governo si sarebbe impegnato a realizzare tutte le riforme di struttura, gli ammodernamenti e gli adattamenti legislativi e fiscali necessari a favorire i maggiori successi possibili per l’economia e per il lavoro italiano nell’ambito del MEC, il presidente del Consiglio concludeva affermando che, oltre al rafforzamento della Comunità a sei, il governo era favorevole alla realizzazione in Europa «di una associazione multilaterale tra la Comunità a Sei e gli altri undici paesi dell’OECE [Organizzazione europea per la cooperazione economica]» e a far sì che il MEC, «lungi dal rappresentare un ostacolo, costituisca un valido strumento per la intensificazione degli scambi con i restanti paesi del mondo».
Replicando alla Camera ai deputati intervenuti nel dibattito sulla fiducia al governo, S. contestava la tesi dei comunisti e dei socialisti che il MEC avrebbe ostacolato lo sviluppo economico e sociale dell’Italia. «L’attuazione del Mercato comune è stata presentata da parte social-comunista come la causa di una certa recessione e di disagio nel settore dell’agricoltura e dell’industria. Questo non è vero. Il Mercato comune entrato in vigore con una piccolissima riduzione delle tariffe doganali non ha potuto produrre alcun effetto dannoso per l’economia italiana. La verità è un’altra: che la opposizione social-comunista è una opposizione di natura politica e ideologica. Essi non vogliono che le potenze occidentali e cristiane si uniscano per resistere al comunismo. Perciò difendere il Mercato comune vuol dire anche difendere la civiltà occidentale».
Parlando da ministro degli Esteri al Congresso Nazionale della DC nel gennaio del 1962 (le cui conclusioni rappresentarono una svolta storica per la politica italiana, perché crearono le condizioni del ritorno dei socialisti al governo dal quale erano stati esclusi nella primavera del 1947) S. dedicò la parte centrale del suo intervento – pubblicato in Atti dell’VIII Congresso nazionale della Democrazia cristiana a cura della SPES (Servizio propaganda e stampa) – a un realistico, e positivo, bilancio del progredire dell’integrazione economica dei paesi del MEC, e alle eccezionali prospettive, a livello mondiale, aperte dal processo (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). «Quali sono stati e quali saranno i capisaldi della politica estera italiana? – si chiedeva S., che rispondeva – Lo sviluppo delle due Comunità, la Comunità atlantica e quella europea, […] il consiglio della quale ha approvato una serie di decisioni e di regolamenti di natura economica, sociale e politica, decidendo il passaggio alla seconda tappa della Comunità economica […] che è già un passo gigantesco nella storia del progresso dei popoli europei, ma un passo ancora secondario in confronto alla importanza politica della decisione di mettere in movimento quell’organizzazione sovranazionale funzionante a maggioranza che costituisce l’essenza stessa dei Trattati di Roma. […] I sei paesi della Comunità hanno realizzato infatti, nei primi quattro anni della sua esistenza, uno sviluppo industriale superiore a qualunque altro raggruppamento mondiale: i Sei, con l’Inghilterra ad esempio, superano per la produzione siderurgica sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti d’America, e in molti altri settori si avvicinano già notevolmente alla produzione di queste due potenze economiche. […] E questa Comunità – concludeva S. – si rivolge ora ai paesi nuovi. Ben sedici paesi credono in questa forma di progresso derivante da libere associazioni di popoli; altri Stati chiedono di essere associati a questa espansione della Comunità economica, di cui l’Italia è parte essenziale».
L’appassionata fiducia nell’unità economica e politica dell’Europa di S., e la sua tenace e intelligente azione per favorirla, svolta nelle vesti di ministro degli Esteri e di presidente del Consiglio, ispirarono passi essenziali del messaggio rivolto alla nazione nella veste di capo dello Stato, dopo il solenne giuramento di fedeltà alla Costituzione fatto davanti al Parlamento l’11 maggio 1962. «L’Italia – affermava S. – ha dato, e a mio avviso continuerà a dare la sua opera efficace al proseguimento di una unità europea effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono contenuti nei Trattati di Roma […]. È in questa direzione che si svolge la storia e progredisce l’umanità: i nuovi legami che si stanno per contrarre in Europa significheranno il superamento definitivo di antichi, sterili antagonismi, e un concreto efficace contributo alla pace, aspirazione suprema di tutti i popoli e alla loro libertà. […] L’unità dell’Europa ha infatti una sua vigorosa capacità di espansione proprio perché animata da una volontà sempre più accentuata di superare le divisioni ed i contrasti attraverso i sistemi della libera discussione, prima, e dei liberi accordi poi. Questa Comunità – concludeva il capo dello Stato – potrà anche più efficacemente adempiere ad un altro dovere del nostro tempo che impegna particolarmente le nazioni più progredite: portare il necessario aiuto alle nuove nazioni che assurgono a libertà, e ciò al solo scopo di consolidarne insieme con l’indipendenza, il progresso materiale e spirituale».
Le enunciazioni, gli auspici, i giudizi e i bilanci di S. relativi al processo di sviluppo dell’unità economica e politica dell’Europa, hanno avuto un rigoroso riscontro pratico in sede nazionale e in tutte le sedi internazionali, comunitarie in particolare, nelle quali fu chiamato a operare nelle vesti di ministro degli Esteri, di presidente del Consiglio e di capo dello Stato. Per S., infatti, l’unità politica ed economica dell’Europa non fu solo un elemento, come tanti altri, derivante dalle situazioni interne e internazionali che condizionavano la vita dell’Italia nei primi anni del dopoguerra. Fu soprattutto il portato di valori ideali, culturali, giuridici, religiosi e politici che avevano radice profonda nella tradizione del cattolicesimo liberale, democratico e sociale del nostro paese; e che la DC si impegnò a tradurre in decisioni politiche di governo e parlamentari.
Nicola Guiso (2010)