Serpente monetario
Antefatti storici: primi tentativi di regolamentazione dei rapporti in campo monetario
Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale si pose agli Stati dell’Europa occidentale il problema di regolare i loro rapporti in campo monetario in modo da evitare da un lato un ritorno alle pratiche di svalutazione competitiva e di restrizioni agli scambi prevalenti negli anni della grande crisi, d’altro lato di attutire gli effetti della liberalizzazione del commercio e dei pagamenti internazionali voluta dagli Stati Uniti. Come è noto, attraverso gli accordi sottoscritti tra 44 paesi a Bretton Woods nel luglio 1944, l’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt mirava a creare per il dopoguerra un sistema di scambi multilaterale, che dal punto di vista monetario avrebbe dovuto poggiare su un sistema di cambi fissi ma aggiustabili centrato sul dollaro, convertibile in oro ad un tasso fisso di 35 dollari per oncia.
Le realtà dei fatti, e in particolar modo la crisi che colpì la sterlina inglese al momento del ritorno alla convertibilità nell’estate 1947, rese ben presto evidente l’incompatibilità del sistema di Bretton Woods col perseguimento da parte degli Stati europei occidentali di una politica che dava priorità alla crescita del benessere dei cittadini in vista di una restaurazione del consenso interno, gravemente incrinato dalla grande crisi e dalla guerra.
Per evitare che il mantenimento dell’inconvertibilità delle valute provocasse un blocco degli scambi, gli Stati aderenti all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), applicando su scala regionale il progetto di clearing union presentato da John Maynard Keynes durante gli anni di guerra, diedero vita nel settembre 1950 all’Unione europea dei pagamenti (UEP); in pratica, una sorta di camera di compensazione valutaria, che consentiva ai paesi partecipanti di bilanciare i propri deficit e surplus con un uso limitato delle riserve e mantenendo le proprie monete inconvertibili.
L’UEP creò le condizioni favorevoli alla ripresa e all’espansione sostenuta degli scambi intereuropei. Essa operò fino alla fine del 1958, quando, in virtù del miglioramento delle loro situazioni finanziarie, i paesi europei decisero che era giunto il momento di aderire al sistema di Bretton Woods.
Sembrava che il sistema dei cambi, che faceva perno sulla supremazia economica, politica e militare statunitense, rappresentasse una garanzia incrollabile di sviluppo ordinato. Non per caso il Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) del 1957 non prevedeva nessuna misura di integrazione in campo monetario. Esso si limitava a fissare i principi generali cui dovevano attenersi gli Stati membri nelle loro politiche monetarie e a regolare il ricorso alle misure necessarie a superare difficoltà nella bilancia dei pagamenti (articoli 104-109).
L’Europa comunitaria di fronte alla crisi del sistema di Bretton Woods
Ma già alla fine degli anni Cinquanta, quando il sistema di Bretton Woods raggiunse il suo apogeo, erano in atto quei processi che nel giro di una decina di anni avrebbero portato al collasso del sistema dei cambi fissi. Non è qui la sede per ricostruire in dettaglio le tappe di questa crisi. Ci limitiamo a ricordarne in estrema sintesi le cause determinanti. Esse facevano capo al determinarsi, fin dalla fine degli anni Cinquanta, di un deficit nella bilancia dei pagamenti statunitense dovuto ai forti esborsi all’estero per gli aiuti agli alleati, per il mantenimento delle basi militari e, in misura crescente, per gli investimenti diretti di imprese e banche. Il costante deflusso di dollari che tale squilibrio implicava, un deflusso che si andò aggravando col rafforzarsi dei centri di potere economico alternativi agli Stati Uniti, rendeva sempre meno credibile l’impegno di convertibilità della valuta americana in oro. D’altra parte la liquidità necessaria a sostenere un sistema di scambi in forte espansione era garantita proprio dal deficit statunitense. Così il disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti lasciava presagire il futuro collasso del sistema, ma d’altro lato era proprio tale disavanzo che ne garantiva il funzionamento.
Era naturalmente una situazione insostenibile, la cui precarietà fu evidenziata dalla crescente instabilità che si manifestò nella seconda metà degli anni Sessanta, a partire dalla svalutazione della sterlina del novembre 1967. Alla crisi della sterlina seguì quella del franco francese, innescata dai movimenti sociali del 1968. Alla fine, nell’agosto 1969, il governo francese, dopo aver impegnato circa 5 miliardi di dollari delle riserve nella difesa del franco, dovette accettare una svalutazione dell’11,1%. In modo speculare, le tensioni sui mercati finanziari costrinsero la Germania federale a rivalutare la propria valuta, nell’ottobre 1969, del 9,29%. Questi movimenti valutari avevano un impatto preoccupante sul neonato mercato comune, marcando la fine del clima di stabilità che ne aveva caratterizzato i primi dieci anni di vita, durante i quali i rapporti di cambio si erano mantenuti (a eccezione della rivalutazione del marco del 1961) entro i limiti di oscillazione (±0,75%) previsti dall’Accordo monetario europeo del 1955. In particolare, venivano messi a rischio i meccanismi di fissazione dei prezzi comuni alla base della Politica agricola comune (PAC).
La PAC, come era venuta definendosi dal 1962, si fondava su un sistema di prezzi comuni espressi in un’Unità di conto europea (ECU) che aveva un valore in pratica equivalente a quello del dollaro. Ogni variazione delle parità di cambio avrebbe dovuto comportare, al fine di mantenere l’uniformità dei prezzi all’interno del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea), che a una svalutazione corrispondesse un istantaneo aumento dei prezzi dei prodotti agricoli nel paese in questione e a una svalutazione una caduta dei prezzi. Si trattava di misure inaccettabili per i costi sociali ed economici che avrebbero comportato. Per ovviare agli scompensi introdotti dall’instabilità valutaria, si decise quindi di ricorrere a misure di compensazione, tasse sulle esportazioni di chi svalutava e sgravi sulle importazioni di chi rivalutava, denominati “importi compensativi monetari” (ICM), misure che avrebbero dovuto essere temporanee, ma che, col persistere dell’instabilità finanziaria internazionale, si tradussero in un complesso sistema di controlli, prelievi e compensazioni sugli scambi agricoli. Un regime evidentemente scarsamente compatibile con l’idea di mercato comune.
Vi erano poi altre ragioni più generali per cui i cambiamenti delle parità non risultavano graditi ai governi degli Stati membri. Per coloro che erano costretti a svalutare, il deprezzamento della propria moneta era considerato un indebolimento sul piano politico; in più, e in misura sempre maggiore con l’avvio della fase della stagflazione nella seconda metà dei Settanta, comportava il pericolo concreto di un aumento dell’inflazione. D’altro lato, chi era costretto a rivalutare lo faceva malvolentieri, perché ciò implicava una perdita di competitività dei suoi prodotti sui mercati mondiali. Vi erano quindi forti ragioni che militavano a favore della creazione di un sistema che isolasse l’economia europea dai rovinosi movimenti valutari determinati dalla crisi del sistema di Bretton Woods.
Il Piano Werner e le prime prospettive di un’unione economico e monetaria
Non a caso alla fine degli anni Sessanta cominciò un proliferare di piani per l’integrazione monetaria dei Sei. Si venne prospettando così un accordo sulla prospettiva di realizzazione di un’unione monetaria in tempi e modi graduali, mentre si delineò un contrasto tra due punti di vista diversi riguardo alle modalità di instaurazione dell’unione monetaria. Da un lato vi erano i cosiddetti “monetaristi”, capeggiati dalla Francia, che propugnavano un percorso caratterizzato fin dalle prime fasi dalla fissazione di margini di oscillazione ristretti e dalla creazione di istituzioni monetarie comuni in grado di fornire assistenza ai paesi in difficoltà. D’altra parte vi era la posizione degli “economisti”, sostenuta in primis dalla Germania, che considerava necessario procedere in primo luogo all’armonizzazione delle politiche economiche e alla riduzione dei differenziali nelle variabili macroeconomiche, in primo luogo l’inflazione, prima di passare all’instaurazione di tassi di cambio fissi. Alla base della posizione sostenuta dalla Francia vi era l’esigenza di un paese a valuta debole di ottenere in tempi brevi un sostegno da parte dei partner insieme alla volontà di mettere al riparo la PAC dalle conseguenze dell’instabilità monetaria. Da parte tedesca, invece, vi era una ovvia reticenza a sopportare l’onere del sostegno delle valute di paesi ad alta inflazione. Ma vi erano anche solide ragioni che spingevano la Germania verso una posizione favorevole all’integrazione monetaria. La stella polare della politica economica tedesca era infatti il mantenimento di un largo avanzo commerciale, grazie sia alla qualità di suoi manufatti sia a una politica monetaria volta a mantenere un tasso di cambio reale favorevole. La prospettiva di un continuo apprezzamento del marco era perciò quanto mai sgradita ai tedeschi, i quali, ostili anche al mantenimento del sistema dei cambi fissi che li costringeva a comportamenti inflazionistici, vedevano nell’instaurazione di un meccanismo europeo di fluttuazione congiunta un modo per limitare i danni.
I due punti di vista, espressi all’inizio del 1970 nel secondo Piano Barre e nel Piano Schiller, trovarono un punto di conciliazione nel piano elaborato da un Comitato presieduto dal primo ministro del Lussemburgo Pierre Werner sulla base del mandato ricevuto dalla Conferenza dell’Aia del dicembre 1969. Presentato nel giugno 1970 al Consiglio dei ministri, il piano prevedeva l’instaurazione di un’Unione economica e monetaria entro dieci anni, attraverso un percorso in tre tappe in cui si sarebbero conciliate le opposte visioni dei monetaristi e degli economisti, rispettando uno stretto parallelismo tra la realizzazione della convergenza macroeconomica e l’intensificazione della cooperazione monetaria. In due riunioni tra il febbraio e il marzo 1971 il Consiglio adottò le indicazioni contenute nel Rapporto Werner: nel giro di dieci anni i paesi della Comunità economica europea (CEE) avrebbero dovuto istituire tra loro un’unione economica e monetaria. In questa ottica, come primo passo concreto, nella risoluzione finale della riunione del 22 marzo si invitarono le Banche centrali degli Stati membri a limitare i margini di oscillazione fra le monete europee. In aprile, i governatori delle Banche centrali si accordarono per ridurre detti margini al ±0,6%.
Tali progetti furono travolti dall’aggravarsi della crisi del sistema finanziario internazionale. Pochi mesi dopo le decisioni del Consiglio, nell’agosto 1971, la decisione unilateralmente presa dall’amministrazione Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro segnò l’avvio dell’agonia finale del sistema di Bretton Woods. Gli accordi raggiunti allo Smithsonian institute di Washington il 18 dicembre 1971 consentirono una temporanea e parziale ripresa del sistema dei cambi fissi. Ma il nuovo margine di oscillazione rispetto al dollaro, fissato al ±2,25% (dal ±1% stabilito nel 1944) non era sostenibile per i paesi europei: in tal modo le loro monete avrebbero potuto fluttuare tra loro del ±4,5% e, nel caso del movimento nel tempo di due valute tra i due estremi della banda, la fluttuazione poteva raggiungere il 9%, una situazione che metteva a rischio la sopravvivenza stessa del MEC e in palese contraddizione con i progetti di unione monetaria. Così nel febbraio 1972 la Commissione europea presentò una serie di proposte miranti alla costituzione di un sistema che permettesse la riduzione dei margini di oscillazione valutaria e l’istituzione di un Fondo monetario di cooperazione. Nello stesso senso si mossero i governatori delle Banche centrali che incaricarono un gruppo di esperti, sotto la presidenza di Marcel Théron della Banca di Francia, di esaminare gli aspetti tecnici di un regime di fluttuazione ristretta. Sulla base di questi lavori, il Consiglio si riunì il 21 marzo 1972. Nella risoluzione finale si richiese alle Banche centrali di ridurre il margine di fluttuazione tra le monete comunitarie al ±2,25% (cioè di dimezzare l’oscillazione permessa dagli Smithsonian agreements).
Dal “Serpente monetario” al Sistema monetario europeo (SME)
Dopo che le Banche centrali ebbero definito le modalità operative del nuovo sistema (accordo di Basilea del 10 aprile 1972), il 24 aprile il sistema diventò operativo. Nasceva così il “Serpente monetario”, un regime di fluttuazione congiunta delle valute comunitarie che si muoveva all’interno del “tunnel” rappresentato dai margini di oscillazione rispetto al dollaro. La posizione del Serpente all’interno del tunnel era determinata dalla situazione della bilancia dei pagamenti della CEE verso i paesi terzi: quando questa era in surplus il Serpente “strisciava” verso l’estremità superiore del tunnel e viceversa in caso di deficit. I rapporti valutari intracomunitari determinavano la larghezza del “corpo” del Serpente, esso comunque non poteva superare i limiti del ±1,125% attorno alla parità centrale col dollaro. Dopo la fine definitiva del sistema dei cambi fissi, sancita dalla crisi del febbraio-marzo 1973, il tunnel scomparve e il Serpente si trasformò in un meccanismo di fluttuazione congiunta. L’accordo di Basilea prevedeva che l’onere del sostegno alle valute in difficoltà fosse ripartito tra i paesi a valuta debole e quelli a valuta forte, contemplando l’intervento di questi ultimi in difesa di una moneta in difficoltà e istituendo un sistema di finanziamenti a brevissimo termine tra Banche centrali. Nella pratica però il sistema fu lontano dal funzionare in maniera simmetrica e la maggior parte del peso della difesa delle valute ricadde sui paesi a valuta debole.
Al Serpente monetario aderirono, oltre ai Sei, anche i paesi candidati all’adesione, Regno Unito, Danimarca, Irlanda, e Norvegia che si associò poco dopo. L’adesione al Serpente monetario fu oggetto di una lunga serie di variazioni, a partire dall’uscita di Regno Unito e Irlanda appena due mesi dopo l’avvio del sistema. La causa di questo travagliato andirivieni va imputata alle diverse condizioni economiche degli Stati partecipanti e, soprattutto, alle divergenti politiche economiche seguite da ciascun governo in risposta alla crisi economica scoppiata in tutta la sua virulenza dopo lo shock petrolifero della fine del 1973. Mentre un gruppo di paesi, con la Germania in testa, rispose alla crisi con politiche di restrizione monetaria e controllo dell’inflazione interna, altri adottarono politiche di sostegno della domanda che, causando un aumento dell’inflazione, generavano sul tasso di cambio tensioni che impedivano la permanenza nelle bande ristrette. Così il Serpente monetario si andò gradualmente trasformando in una sorta di “zona del marco”, essendovi rimasti agganciati i paesi più dipendenti dalle esportazioni sul mercato tedesco. Tale sviluppo divenne evidente dopo la definitiva uscita della Francia dal sistema nel marzo 1976, in seguito all’adozione da parte del governo guidato da Jacques Chirac, di una politica economica espansiva. A questo punto tre dei maggiori paesi della Comunità, Regno Unito, Italia e Francia, si trovavano fuori dal regime di fluttuazione congiunta, con monete soggette a una continua svalutazione, mentre del Serpente monetario facevano parte Stati non membri della CEE. Come osservava sconsolatamente Robert Marjolin in un rapporto presentato alla Commissione nel marzo 1975: «L’Europa non è più vicina all’Unione economica e monetaria di quanto lo fosse nel 1969. In effetti, se vi è stato un qualche movimento esso è stato all’indietro. L’Europa degli anni Sessanta rappresentava un’entità economica e monetaria relativamente armoniosa che è stata smantellata nel corso degli ultimi anni; le politiche economiche e monetarie nazionali non sono state in 25 anni più discordanti, più divergenti di quanto lo siano oggi» (v. Ungerer, 1997, p. 131).
In retrospettiva, oggi si può dire che l’esperienza del Serpente monetario, pur fallendo negli obiettivi immediati per cui il sistema era stato costituito, rappresentò comunque un momento importante nella costruzione di un’identità monetaria europea. Fu un esperimento che permise ai paesi coinvolti di sperimentare meccanismi inediti di cooperazione monetaria in un mondo che abbandonava i cambi fissi ed entrava nei territori, sconosciuti nel secondo dopoguerra, dei cambi fluttuanti. L’esperienza risultò utile al momento di istituire il Sistema monetario europeo.
Tabella I. Cronologia del Serpente monetario: 1972-1979.
1972 | |
24 aprile | L’accordo sui margini ristretti (±1,125%) di fluttuazione entra in vigore fra Benelux, Francia, Germania e Italia. Tra i paesi del Benelux vige una banda più ristretta del ±0,75% (c.d. “Verme”) |
1° maggio | Adesione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca. |
23 maggio | La Norvegia si associa. |
23 giugno | Escono Regno Unito e Irlanda. |
27 giugno | Esce la Danimarca. |
10 ottobre | La Danimarca rientra. |
1973 | |
13 febbraio | L’Italia esce dal Serpente monetario. |
19 marzo | Inizia la fluttuazione congiunta, scompare il tunnel rispetto al dollaro.
Il marco tedesco si rivaluta del 3%. Si associa la Svezia. |
29 giugno | Il marco tedesco si rivaluta del 5,5%. |
17 settembre | Il fiorino olandese si rivaluta del 5%. |
16 novembre | La corona norvegese si rivaluta del 5%. |
1974 | |
19 gennaio | La Francia esce. |
1975 | |
10 luglio | La Francia rientra. |
1976 | |
15 marzo | La Francia esce per la seconda volta. |
16 marzo | Scompare la banda di oscillazione più ristretta (il “Verme”) tra i paesi del Benelux. |
17 ottobre | Il marco tedesco si rivaluta del 2%.
La corona danese si svaluta del 4%. La corona norvegese si svaluta dell’1%. La corona svedese si svaluta dell’1%. |
1977 | |
1° aprile | La corona svedese si svaluta del 6%.
La corona danese si svaluta del 3%. La corona norvegese si svaluta del 3%. |
28 agosto | Esce la Svezia.
La corona danese si svaluta del 5%. |
1978 | |
13 febbraio | La corona norvegese si svaluta dell’8% |
17 ottobre | Il marco tedesco si rivaluta del 4%.
Il fiorino olandese si rivaluta del 2%. Il franco belga-lussemburghese si rivaluta del 2%. |
12 dicembre | Esce la Norvegia |
1979 | |
13 marzo | Entra in vigore lo SME |
Fonte: Ungerer, 1997, p. 129; Fauri, 2001, p. 159.
Francesco Petrini (2010)