Solana Madariaga, Francisco Javier
Uomo politico e accademico spagnolo, S. (Madrid 1942), nipote di Salvador de Madariaga, figlio di un cattedratico di chimica, fratello minore di Luis (deputato socialista in varie legislature e figura di spicco della grande imprenditoria spagnola), si laureò in Fisica all’Università Complutense di Madrid nel 1965. Assistente alla cattedra di Salvador Velayos, borsista del Consejo superior de investigaciones científicas (CSIS) tra il 1964 e il 1966, borsista Fulbright in alcuni atenei statunitensi (1966-1968), ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università della Virginia (1968-1971), S. divenne professore aggregato nel Dipartimento di Fisica dell’Università autonoma di Madrid nel 1971 e cattedratico di Fisica dello stato solido alla Complutense nel 1975. È autore di oltre trenta pubblicazioni in materia. Entrò in politica nel 1964, nelle file delle Juventudes socialistas. Si iscrisse alla Federación de trabajadores de la enseñanza – Union general de trabajadores de España (UGT) e alla Agrupación socialista di Madrid, nella quale ricoprì la carica di segretario per le relazioni politiche (1971). Rappresentò il Partido socialista obrero español (PSOE) nella Coordinación democrática di Madrid e fu membro dal 1974 al 1976 del Comitato provinciale del partito nella capitale. Dopo il Congresso di Suresnes, tenuto in Francia nell’ottobre 1974, che portò Felipe Màrquez González alla segreteria del partito, S. contribuì a introdurlo nei circoli politici ed economici di Madrid, creando una durevole relazione di fiducia reciproca, che gli valse l’assegnazione di una serie di incarichi prestigiosi: membro del Comitato esecutivo federale del PSOE a partire dal 1976, segretario della Commissione per i rapporti con la stampa (1976-1979), segretario federale nel settore Estudios y Programas (1979-1981), segretario esecutivo (1981-1984) e di nuovo membro del Comitato esecutivo dal marzo 1994. Deputato del PSOE per Madrid nelle legislature costituenti (1977-1979), S. rimase senza interruzioni in Parlamento durante le prime quattro legislature (1979-1993) e nella quinta (1993-96) fino al 1995.
Ministro della Cultura e, dal luglio 1985, anche portavoce del primo governo presieduto da González (1982-1986), ancora ministro della Cultura e portavoce dal 1986 al 1988, quindi successore di José María Maravall Herrero al ministero dell’Istruzione e della scienza (1988-1989) nel secondo gabinetto González (1986-1989), di nuovo ministro dell’Istruzione e della Scienza, fino al giugno 1992, quindi ministro degli Esteri, in sostituzione di Francisco Fernández Ordóñez (che aveva ricoperto la carica dal luglio 1985), nel terzo governo González (1989-1993), S. restò agli Esteri, nell’ultimo gabinetto González (1993-1996), fino al dicembre 1995, quando assunse la carica di segretario generale dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), che conservò fino all’ottobre 1999. Il 18 di quel mese, in anticipo rispetto alla scadenza del mandato, divenne segretario generale del Consiglio dei ministri dell’Unione europea e Alto rappresentante dell’Unione per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), nonché, dal 25 novembre, segretario generale del Consiglio dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), a seguito della decisione assunta dieci giorni prima a Bruxelles, nel corso del primo incontro congiunto dei ministri degli Esteri e della Difesa. Le cariche gli furono rinnovate per un secondo mandato quinquennale nel luglio 2004, quando S. divenne anche capo dell’Agenzia europea per la difesa. Nella stessa riunione del Consiglio europeo, tenuta il 29 giugno, si stabilì che l’eventuale entrata in vigore della Costituzione europea conducesse alla sua nomina come ministro degli Esteri dell’Unione. Presidente della Fondazione europea “Madariaga”, nel maggio 2007 è stato insignito del premio internazionale “Carlo Magno” ad Aquisgrana.
Tra gli altri obiettivi conseguiti come ministro della Cultura, S. si adoperò per la privatizzazione delle aziende editoriali di Stato, contribuì alla stesura della legge sul patrimonio storico e sulla proprietà intellettuale e della legge sulle emittenze televisive private, trasformò in istituzioni autonome le Direzioni generali di Cinema, Musica e Teatro, concesse l’autonomia anche al Museo del Prado e strutturò le direzioni generali delle Belle arti e dei Libri e biblioteche. Come ministro dell’Educazione e scienza, riuscì ad attenuare alcune tensioni nelle relazioni con gli studenti e contribuì ad articolare la legge generale per la riforma del sistema educativo e la legge per la riforma del sistema educativo non universitario.
Alla guida degli Esteri, cui approdò proprio nell’anno delle Olimpiadi di Barcellona e dell’Esposizione universale di Siviglia, alla fine di un quinquennio di notevoli successi ottenuti dalla diplomazia di Madrid, S. continuò a sviluppare con efficacia la normalizzazione delle relazioni tra la democrazia spagnola e la comunità internazionale, perseguendo gli obiettivi tradizionali legati all’interesse nazionale del paese e, nel contempo, perseverando nelle linee dettate dall’integrazione con i partner europei (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), prima e dopo l’approvazione parlamentare del Trattato di Maastricht, nell’ottobre 1992 (con 314 voti a favore, 3 contrari e 8 astensioni), sebbene l’opposizione conservatrice e di sinistra tendesse a osteggiare per ragioni interne, negli anni dell’ultimo gabinetto González, la continuità dell’impegno assunto dai governi socialisti in quel settore. I contenuti del Trattato, in linea generale favorevoli agli obiettivi spagnoli, costituivano infatti anche una forte sfida per il paese, soprattutto nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria. Il governo seppe comunque negoziare adeguate contropartite allo sforzo richiesto, S. riuscì a conservare l’influenza di voto della Spagna durante i difficili negoziati sfociati nel Compromesso di Ioanina del 1994 e il paese divenne il principale beneficiario del Fondo di coesione, che contribuì a mantenerne la crescita economica nella fascia alta della media europea, nonostante il ciclo di crisi che si aprì proprio nel 1992 e provocò quattro svalutazioni della peseta (l’ultima delle quali, pari al 7%, fu annunciata dal governo nel marzo 1995). La presenza e l’iniziativa spagnola, sotto la guida di S., si segnalarono anche nei processi continentali di elaborazione della Nuova agenda transatlantica, di riforma del Trattato istitutivo dell’Unione, di creazione della moneta comune, di Allargamento ai paesi dell’Est e di attenzione ai paesi del Mediterraneo. Sul piano dei rapporti bilaterali con i partner comunitari, tra gli altri risultati conseguiti, S. riuscì a sbloccare nel 1993 i negoziati per Gibilterra con il Regno Unito, interrotti due anni prima, e a raggiungere un accordo con il ministro degli Esteri Douglas Hurd, nell’incontro tenuto a Londra nel dicembre 1994, per l’avvio di un meccanismo di consultazione e cooperazione.
Nei confronti dei paesi del Maghreb, S. proseguì l’operato del suo predecessore, Fernández Ordóñez, per rafforzare i rapporti con il Marocco, nonostante il perdurare di alcune divergenze bilaterali (tra le altre, la questione del Sahara occidentale, la pesca e gli statuti di autonomia di Ceuta e Melilla), nelle linee del trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione firmato nel gennaio 1991, approfittando anche delle eccellenti relazioni tra re Juan Carlos e Hassan II. S. continuò a sostenere l’Unione del mondo arabo come strumento di stabilizzazione regionale e intensificò le pressioni sugli Stati membri dell’Unione europea per dar seguito e sostanza alla politica di attenzione verso il Mediterraneo, formalizzata nel 1991, con l’organizzazione della conferenza di Barcellona nel novembre 1995, proprio nel semestre di presidenza spagnola dell’Unione (v. Presidenza dell’Unione europea). Il Partenariato euromediterraneo, nonostante le ovvie difficoltà legate sia al conflitto arabo-israeliano sia alle caratteristiche istituzionali di molti regimi al potere sulla riva meridionale del Mediterraneo, avrebbe poi proseguito il suo cammino negli anni, puntando alla stabilità e prosperità economica degli Stati coinvolti, al rafforzamento della democrazia e alla garanzia del rispetto dei Diritti dell’uomo.
S. si impegnò con particolare attenzione anche per il consolidamento della Comunità iberoamericana delle nazioni, nella scia del Vertice dei capi di Stato e di governo organizzato per celebrare il quinto centenario del viaggio di Cristoforo Colombo. La riunione tenuta l’anno precedente a Guadalajara, in Messico, aveva inaugurato un foro multilaterale di periodicità annuale come spazio di dialogo politico istituzionalizzato tra i paesi iberici e latinoamericani intenzionati a confermare una comune identità intercontinentale. L’azione di S. puntò dunque ad articolare e rafforzare quella linea di politica estera che, sostenuta dalla creazione, nel 1985, della Segreteria di Stato per la Cooperación internacional y iberoamérica e, nel 1988, dell’Agencia española de cooperación internacional, aveva costituito per la Spagna un tentativo ben riuscito di rovesciare l’immagine e il ruolo di riferimento per le dittature di destra che il franchismo si era attribuito oltre Atlantico, trasformandone la tradizionale retorica iberoamericana in una concreta diplomazia di cooperazione al rafforzamento politico ed economico, ben riflessa nel 1991 dall’ingresso del paese nel Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. anche Organizzazione europea per la cooperazione economica). Anche sotto la gestione di S., come negli anni precedenti, il governo di Madrid appoggiò i processi di democratizzazione e di ritorno alla garanzia e difesa dei diritti umani in atto in vari paesi latinoamericani, continuando a porsi come esempio prestigioso di transizione dalla dittatura a un nuovo regime istituzionale, apprezzato dalla comunità internazionale. Nell’America centrale, dove le buone relazioni mantenute con Cuba non riuscirono peraltro a ottenere aperture democratiche di rilievo, anche per le nuove difficoltà incontrate dal regime castrista dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la politica estera spagnola continuò a segnalarsi per la collaborazione con i progetti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e per la partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace, di disarmo e di verifica degli accordi raggiunti in vari paesi dopo lunghi anni di guerra civile.
Nei quattro anni trascorsi alla testa della NATO, a partire dal 5 dicembre 1995 – quando i sedici ministri degli Esteri, dopo le dimissioni in ottobre di Willy Claes, lo chiamarono alla carica di segretario generale, il nono dalla fondazione, bruciate le candidature dell’olandese Franciscus Marie (Ruud) Lubbers (sostenuto dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Germania, ma avversato dagli Stati Uniti) e del danese Uffe Ellemann-Jensen (appoggiato da Washington ma respinto da Parigi) – S. guidò e coordinò le iniziative degli Stati membri attraverso una serie di prove e trasformazioni radicali. L’organizzazione, che nei quattro anni trascorsi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica aveva dovuto reinventare e adeguare il proprio ruolo alle fondamentali trasformazioni subite dal sistema internazionale alla fine della Guerra fredda, aveva allora appena avviato lo schieramento delle proprie truppe per i compiti di peacekeeping previsti dagli accordi firmati a Dayton, a conclusione della guerra nella Bosnia-Erzegovina. Si stava sperimentando il secondo anno del programma “Partnership for peace” per le relazioni con la Federazione russa e si discuteva del possibile allargamento della NATO verso Est, osteggiato da Mosca. Quattro anni più tardi, nell’ottobre 1999, al momento del passaggio delle consegne al successore britannico di S., George Robertson, l’organizzazione si era ormai aperta ai paesi dell’Europa orientale, aveva confermato con successo la partnership con la Federazione russa, stava elaborando un progetto per la creazione di una identità europea per la difesa compatibile con le esigenze delle relazioni strategiche con gli Stati Uniti ed era intervenuta militarmente nella crisi del Kosovo.
Il fatto che S., nel 1982, si fosse pronunciato a sfavore dell’Adesione della Spagna alla NATO e della permanenza delle basi statunitensi nel paese, criticando tanto il ruolo dell’organizzazione quanto certi atteggiamenti allora assunti dal presidente Ronald Reagan nei confronti della minaccia sovietica, non mancò di destare iniziali manifestazioni di opposizione, nel 1995, da parte di alcuni senatori repubblicani, che criticarono la scelta finale compiuta dall’amministrazione guidata da Bill Clinton a favore di S. come segretario generale della NATO. Tali espressioni negative, comunque, terminarono al momento della sua assunzione formale della carica, il 19 dicembre, e, nel corso del biennio successivo, S. riuscì a guadagnarsi la piena fiducia degli Stati membri, tanto nordamericani quanto europei, soprattutto grazie all’efficacia delle sue iniziative diplomatiche nel coordinare l’allargamento verso Est dell’organizzazione, fino alla tappa decisiva segnata dal vertice di Madrid nel luglio 1997, con i difficili negoziati tra la NATO e la Russia, sfociati il 27 maggio nel Founding act per le relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza, nel quale Mosca rinunciò a opporsi all’espansione atlantica nell’Europa centro orientale. Firmato a Parigi da Boris Eltsin e dai sedici capi di governo alleati, l’Atto istituì un foro permanente di dialogo tra gli ex nemici della guerra fredda in tema di peacekeeping, gestione delle crisi, prevenzione e risoluzione dei conflitti, tramite la creazione di un Consiglio presieduto su base congiunta dal segretario generale, da un rappresentante a rotazione di uno Stato membro della NATO e da un rappresentante russo. Nel corso delle trattative, che durarono sei mesi e culminarono nell’incontro a Mosca del 14 maggio tra S. e il ministro degli Esteri russo, Evgenij Primakov, particolare rilevanza assunse la mediazione di S. fra le esigenze esposte dalla diplomazia russa e quelle convogliate per conto degli Stati Uniti da Strobe Talbott, allora vicesegretario di Stato.
Quanto ai rapporti interni all’alleanza, S. espose al senatore repubblicano William Roth e a Robert Hunter, ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO, lo scetticismo e i timori di molti alleati europei riguardo alle possibili ripercussioni dell’allargamento a Est sulle relazioni con Mosca, e consigliò che una pubblica espressione da parte americana a favore dell’operazione venisse preceduta da una serie di consultazioni tra il segretario generale e i singoli ambasciatori degli Stati membri. La diplomazia del “confessionale”, dispiegata da S. in vista del Vertice di Madrid, mise in evidenza divergenze anche in merito ai possibili nuovi partner orientali da ammettere nella prima ondata: se la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria erano accettabili per tutti, mancava infatti l’accordo sulle repubbliche baltiche, sulla Romania e sulla Slovenia. A S. fu dunque affidato il compito di formulare nel modo più adeguato la bozza del comunicato finale, estendendo l’invito formale ai primi tre paesi e segnalando in modo specifico gli altri cinque come forti candidati a una futura adesione. Il documento venne poi approvato da tutti gli alleati, confermando la sua abilità e la sua funzione chiave nel comporre i punti di vista degli Stati membri attorno a un nucleo negoziale accettabile da parte di una larga maggioranza, fino a ottenere soluzioni soddisfacenti per consenso. A prescindere dal Founding act, Primakov protestò, dichiarando che la Russia continuava a ritenere l’espansione atlantica a Est come l’errore più grave compiuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il 9 luglio, tuttavia, la NATO concluse anche un patto di sicurezza con l’Ucraina, che le assicurava il diritto di chiedere consultazioni con l’Alleanza se si fosse sentita esposta a minacce.
Forte della fiducia guadagnata nel primo biennio in carica e della sua riconosciuta capacità di resistere a routine di lavoro defatiganti senza alterare la gradualità dello stile negoziale e lo “smalto” dell’iniziativa politico-diplomatica, S. assunse una leadership ancor più marcata quando, a partire dal marzo 1998, la NATO dovette fronteggiare la crisi del Kosovo. I dati disponibili inducono a ritenere – nell’attesa, beninteso, di future interpretazioni fondate su una documentazione più ampia e specifica – che S. seppe gestire quella crisi e l’operazione “Allied Force”, dispiegata nel 1999 dall’organizzazione per risolverla, in modo tale da promuovere l’unità transatlantica in condizioni di particolare difficoltà e da catalizzare al momento più opportuno il consenso di tutti gli Stati membri rispetto alla necessità di avversare ed eliminare la minaccia rappresentata dalla Iugoslavia di Slobodan Milošević per la stabilità dei Balcani. Sebbene la tendenza a ritagliarsi una funzione di guida più accentuata si fosse in parte già manifestata con i suoi predecessori più vicini nel tempo, Manfred Wörner e Willy Claes, l’azione diplomatica dispiegata da S. nel secondo biennio del mandato diede dunque risalto ancor maggiore a tale trasformazione, accentuando l’importanza operativa del Segretario generale nel coordinare e influenzare l’iniziativa dell’alleanza alla fine del XX secolo: in un momento che coincise in modo simbolico con il cinquantennio dalla fondazione e che, senza dubbio, segnò una svolta per la ridefinizione dei compiti assegnati alla NATO e del suo possibile contributo all’equilibrio internazionale, anche nei termini molto delicati del rapporto tra tutela dei diritti umani e rispetto della sovranità nazionale da parte delle organizzazioni internazionali.
Durante la crisi del Kosovo, contribuirono al successo dell’azione di S. in seno al Consiglio nordatlantico vari altri fattori. Tra questi, la fitta rete di amicizie e contatti con l’élite decisionale europea in materia di politica estera costruita negli anni di governo, l’appoggio costante garantito alle sue iniziative dall’amministrazione Clinton e la disponibilità a un intervento militare espressa con determinazione dal segretario di Stato Madeleine Albright e dal segretario alla Difesa William Cohen (in netto contrasto con le indecisioni che avevano caratterizzato l’atteggiamento statunitense tra il 1993 e il 1995, nel caso della crisi bosniaca). Un ruolo importante ebbe anche la maturazione graduale negli Stati membri di un clima generale sia di disapprovazione e impazienza rispetto alle politiche brutali perseguite ai danni degli albanesi del Kosovo dal governo di Milošević, già complice delle atrocità perpetrate dai serbo-bosniaci in Croazia e in Bosnia Erzegovina, sia di sfiducia rispetto alle scarse capacità di peacekeeping dimostrate dall’ONU nei Balcani nella prima metà degli anni Novanta. La riluttanza del Consiglio di sicurezza ad approvare l’uso della forza contro la Iugoslavia nell’estate del 1998, dovuta in particolare all’opposizione russa e cinese, spostò il baricentro diplomatico a Bruxelles e aprì ampi spazi di manovra a S. Sino all’approvazione della risoluzione 1199 che, il 23 settembre, su iniziativa soprattutto dei governi statunitense e britannico, espresse una forte condanna delle azioni militari serbe e chiese la cessazione delle violenze, ma non autorizzò l’uso della forza per neutralizzarle, rinviando a un secondo momento l’esame di eventuali misure volte a mantenere o ripristinare la stabilità regionale, S. si mosse infatti con cautela e, senza criticare in pubblico l’operato e le decisioni degli Stati membri della NATO, cercò di modificarne e influenzarne l’atteggiamento mediante incontri privati con i rispettivi rappresentanti presso l’organizzazione. Da quel momento in poi, invece, chiarite le profonde divergenze in seno all’ONU, usò una tattica molto più scoperta e aggressiva per ottenere che la decisione multilaterale di impedire ulteriori atrocità nel Kosovo partisse direttamente da Bruxelles, utilizzando a fondo la disponibilità di Washington e di Londra a muoversi in tale direzione, nella scia della precedente decisione, approvata dalla NATO già in giugno, di effettuare missioni di sorvolo dei confini serbi per indurre il governo di Belgrado a modificare il suo atteggiamento nel Kosovo. Non mancavano, nell’alleanza, forti perplessità rispetto all’uso della forza in mancanza di un’esplicita autorizzazione da parte dell’ONU: soprattutto il Belgio, la Germania, la Grecia, l’Italia, la Spagna e, in minor misura, la Francia manifestarono preoccupazioni che S. riuscì, tuttavia, a contenere negli argini di un dibattito costruttivo nel Consiglio nordatlantico, organizzando una fitta trama di consultazioni all’interno e all’esterno dell’alleanza, senza trascurare i contatti con il Segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, fino a ottenere a metà ottobre il consenso generale su un activation order che, constatata l’esistenza di «sufficiente base legale» per la pianificazione militare da parte della NATO (una formulazione ambigua, che lasciava ai singoli governi un buon margine di elasticità per presentare la decisione in patria), autorizzava il segretario generale ad avviare una serie graduale di attacchi aerei, qualora la situazione in Kosovo non trovasse soluzione per via diplomatica.
Nei mesi successivi, S. mantenne un saldo controllo delle decisioni, in stretta collaborazione con il comandante supremo dell’Alleanza in Europa, il generale Wesley K. Clark. Questi, che condivideva la sua propensione a bloccare la minaccia iugoslava, venne poi criticato insieme a lui sia per aver sottovalutato la determinazione del governo di Belgrado nella crisi kosovara sia, di conseguenza, per aver convogliato con scarsa efficacia a Milošević la minaccia di una reazione atlantica, ritenendo a torto di poterlo poi piegare con un minimo ricorso alla forza militare. Alla vigilia dei colloqui di Rambouillet tra i rappresentanti delle parti kosovara e iugoslava, il 30 gennaio 1999, S. ottenne che il Consiglio nordatlantico gli confermasse il potere discrezionale sul lancio eventuale degli attacchi aerei, in contrasto con le formulazioni più restrittive, rispetto alla funzione del segretario generale, usate in circostanze analoghe cinque anni prima. Avviate poi le operazioni militari il 24 marzo, quando si trattò di passare, al nono giorno di guerra, alla terza – e decisiva – fase degli attacchi (contro obiettivi dislocati a Belgrado e dintorni, con un margine di rischio più forte quanto a uccisione di civili), fondamentale fu il ruolo di S. nell’interpretare il consenso del Consiglio, tacito più che esplicito, per comunicare l’ordine formale a Clark. In maggio, ricorrendo a una procedura che ampliava il suo spazio di manovra e, nel contempo, contribuiva ad agevolare l’azione dei governi degli Stati membri più interessati, per ragioni di consenso interno, e ad accentuare la sua figura come ultimo anello del processo decisionale, S. annunciò l’invio addizionale di 20.000 soldati nel teatro operativo, definendo aperta anche la possibilità di un loro intervento nel conflitto, e menzionò il fatto che questa sua dichiarazione si sarebbe ritenuta approvata in modo automatico da parte del Consiglio a meno che uno Stato membro esplicitasse il proprio dissenso formale entro un tempo stabilito. Importante a tal proposito, sebbene le decisioni finali sui bombardamenti fossero nelle mani delle potenze alleate, in primis degli Stati Uniti (le cui forze aeree e navali, nei 78 giorni del conflitto, lanciarono o sganciarono oltre l’80% del munizionamento utilizzato), fu anche la funzione mediatrice di S. sia nel contenere, durante la crisi, la propensione di Clark a premere per il ricorso a truppe terrestri – una decisione che avrebbe messo a dura prova la coesione dell’alleanza – sia nel porre il veto, sempre per sensibilità diplomatica agli equilibri atlantici, all’attacco ad alcuni obiettivi proposti dal Comandante supremo. La collaborazione tra i due fu dunque eccellente, prospettando una sorta di relazione tra eguali, ben diversa da quella spesso vissuta in precedenza dall’organizzazione.
Le capacità dimostrate alla guida del Consiglio nordatlantico posero in naturale evidenza la candidatura di S. per un nuovo incarico internazionale di prestigio, al cuore del dialogo tra Europa e Stati Uniti, subito dopo la guerra. Designato dal Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno come segretario generale del Consiglio dell’Unione europea e Alto rappresentante dell’Unione per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), dall’ottobre 1999 S. ha coperto per primo quella carica (associata alle funzioni di Segretario generale del Consiglio della UEO e, nel secondo mandato, di capo dell’Agenzia europea per la difesa) con generosità e dinamismo, nonostante l’inadeguatezza dei poteri formali e delle risorse materiali a fronte degli obiettivi ambiziosi assegnati, svolgendo le mansioni previste dal trattato di Amsterdam (che istituì la carica nel 1997, nel tentativo di animare la PESC, visti gli scarsi risultati raggiunti a partire dal 1993, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht) e via via aprendo la strada, o reagendo in modo appropriato, alle progressive formulazioni della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD), già abbozzate a Colonia, precisate dal Consiglio europeo di Helsinki in dicembre, da quello di Santa Maria di Feira del giugno 2000 e dalla Conferenza di impegno delle capacità, tenuta dai ministri della Difesa a Bruxelles in novembre, e infine inquadrate in modo formale dal Trattato di Nizza nel febbraio 2001. Alla ricerca di una soluzione di compromesso tra le esigenze di autonomia manifestate dagli europei, in particolare dalla Francia, e le preoccupazioni statunitensi riguardo alle loro intenzioni, il nuovo documento, entrato in vigore nel febbraio 2003, ribadì sia la funzione fondamentale della NATO per la difesa del continente sia il principio che l’Unione dovesse provvedere a pianificare e controllare le proprie operazioni militari, e definì di conseguenza il quadro istituzionale della PESD in riferimento, tra gli altri organi, al Comitato politico e di sicurezza, formato da un ambasciatore per ogni Stato membro e presieduto dall’Alto rappresentante, al Comitato militare e allo Stato maggiore.
Assunte le nuove funzioni, S. riuscì subito a guadagnarsi la fiducia dei ministri degli Esteri dell’Unione e, avviata un’ottima collaborazione con il Commissario britannico Chris Patten, responsabile per le relazioni esterne, cominciò ad affermare per gradi la propria autorità, confermando doti eccellenti di mediazione nei rapporti, non sempre facili, con la Commissione europea e con il Consiglio. Nei primi diciotto mesi in carica, non mancarono in particolare difficoltà relazionali con la presidenza a rotazione, poco incline a lasciargli adeguato spazio di manovra. Il Consiglio prese poi a incoraggiare sempre più la sua azione nei Balcani, dove S. si adoperò con Patten in un progetto di assistenza politica all’opposizione democratica al regime di Milošević e assunse la leadership nelle crisi macedone e montenegrina. Nell’autunno del 2000, sotto la presidenza francese, su invito diretto del presidente egiziano Hosni Mubarak, fu inviato come unico rappresentante dell’Unione al vertice di Sharm el-Sheikh, destinato nelle intenzioni degli organizzatori a rilanciare il processo di pace nel Medio Oriente. Fu un momento importante di visibilità per la carica e per S., che seppe poi dare continuità negli anni al suo impegno in quello scacchiere, nonostante la tentazione ricorrente della presidenza a rotazione di porsi in primo piano. Il Vertice dei capi di governo dell’Unione tenuto a Stoccolma nel marzo 2001 lo incaricò di stilare una serie di proposte per un intervento costruttivo nella crisi israelo-palestinese. In novembre, due mesi dopo gli attacchi terroristici subiti dagli Stati Uniti l’11 settembre, S. fu invitato da Annan a partecipare con il segretario di Stato americano Colin Powell e con il ministro degli Esteri russo Igor Ivanov al “Quartetto”, una struttura incaricata di manifestare la costante attenzione della comunità internazionale verso le complessità della crisi mediorientale. Collaborando con grande operosità alle iniziative diplomatiche elaborate in quella sede, mentre l’amministrazione statunitense di George W. Bush reagiva con forza e impeto unilaterale agli eventi di settembre, dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, S. seppe approfittare anche di questa occasione, così come della gestione delle crisi balcaniche, per mantenere una relazione pragmatica di contatto e collaborazione prima con Powell, poi con Condoleezza Rice e, in generale, con i centri elaborativi e decisionali della politica estera statunitense, consapevoli dei limiti istituzionali del suo ruolo ma, nondimeno, attenti alle – o, a seconda dei casi, preoccupati dalle – prospettive aperte dalle sue ambizioni di interpretarlo per rendere più concreta la proiezione politico-diplomatica e militare dell’Unione sul piano internazionale.
Svolgendo un ruolo chiave di mediazione nei rapporti con la NATO, grazie al prestigio acquisito come segretario generale, S. promosse infatti importanti progressi della PESD (dichiarata operativa dal Consiglio europeo di Laeken nel dicembre 2001) nel biennio successivo agli attacchi dell’11 settembre, quando la comunità internazionale fu costretta a uno sforzo di comprensione e definizione delle nuove minacce alla sicurezza globale, alla ricerca di soluzioni adeguate. La tendenza dell’amministrazione Bush a prendere le distanze dalle questioni balcaniche gli consentì di accentuare l’impegno dell’Unione nel mantenimento della pace in quello scacchiere: nel gennaio 2003 fu avviata un’operazione di polizia in Bosnia Erzegovina (Eupm BiH, poi riformulata per il biennio 2006-2007) e in marzo, in applicazione degli accordi relativi alla cessione all’Unione di capacità e strutture della NATO (con l’entrata in vigore del pacchetto di procedure “Berlin plus”, tramite lo scambio di lettere tra S. e il segretario generale della NATO, George Robertson), partì l’operazione militare Concordia nell’ex Repubblica iugoslava di Macedonia. In giugno, grazie all’auspicio della Francia di attribuire una portata multilaterale al proprio intervento d’appoggio alle Nazioni Unite nella protezione delle popolazioni civili nella provincia congolese dell’Ituri, S. poté mettere la PESD alla prova anche nell’operazione militare Artemis, la prima condotta fuori dell’Europa e in modo indipendente dalla NATO, al comando del generale francese Jean-Paul Thonier, sotto la direzione strategica del Comitato politico e di sicurezza.
Dopo la spaccatura tra i governi europei che, tra il gennaio e il marzo 2003, accompagnò la vigilia della guerra in Iraq e manifestò un grave fallimento della PESC, S. fu incaricato di preparare la bozza di una strategia europea in materia di sicurezza. Il rapporto, presentato in giugno sotto il titolo “A secure Europe in a better world” al Consiglio europeo di Salonicco, fu esaminato in alcuni seminari organizzati in autunno e infine adottato, in forma rielaborata, dal Consiglio europeo di Bruxelles il 12 dicembre. Vi si affermava, tra l’altro, la necessità che l’Europa assumesse «la sua parte di responsabilità nella sicurezza globale e nella costruzione di un mondo migliore», al servizio del multilateralismo e delle Nazioni Unite, nella conferma della relazione atlantica: «Agendo insieme, l’Europa e gli Stati Uniti possono costituire una forza formidabile al servizio del bene nel mondo». Poco prima, in novembre, era stata presa la decisione di costituire un’Agenzia europea degli armamenti, sotto l’autorità del Consiglio, aperta alla partecipazione di tutti gli Stati membri. Nel luglio 2004 S. divenne capo dell’Agenzia europea per la difesa, investita di quattro funzioni correlate alla PESD: sviluppo delle capacità di difesa; cooperazione nel settore degli armamenti; base industriale e tecnologica della difesa europea e mercato dei materiali per la difesa; ricerca e tecnologia.
Nell’ottobre 2002, mentre la Convenzione europea lavorava sulla possibilità di affidare all’Alto rappresentante un doppio mandato, incaricandolo anche della responsabilità delle relazioni esterne in seno alla Commissione, S. non aveva nascosto le proprie perplessità. Rivolgendosi il 15 ottobre ai membri del settimo Gruppo di lavoro, impegnato a discutere le questioni relative all’azione esterna dell’Unione sotto la presidenza del belga Jean-Luc Dehaene, affermò che la concentrazione delle responsabilità avrebbe prodotto «più confusione che sinergia», mentre la stretta collaborazione con Patten aveva dimostrato quali ottimi risultati si potessero ottenere con un’azione di partnership. Quando la Costituzione europea, nell’ottobre 2004, delineò gli ampi poteri destinati al ministro degli Affari esteri dell’Unione (in particolare negli artt. I-28, I-40, I-41, III-294 e ss.), S. fu comunque pronto a riconoscere le potenzialità aperte dalla nuova soluzione elaborata dalla Convenzione, anche nel settore della PESD (a opera dell’ottavo gruppo di lavoro, presieduto dal francese Michel Barnier), e collaborò con il presidente della nuova Commissione a venticinque, il portoghese José Manuel Durão Barroso, per stilare un documento congiunto, presentato nel marzo 2005, in merito all’istituzione e organizzazione del Servizio europeo per l’azione esterna, cioè di un potenziale “ministero degli Esteri” europeo.
Nella prima metà del secondo mandato, dal 2004 al 2006, mentre l’approvazione della Costituzione si arenava nell’esito negativo dei referendum francese e olandese, S. ha continuato a interpretare il suo compito istituzionale con le due indispensabili caratteristiche personali che, di conserva con gli adempimenti formali previsti dal processo di formazione e applicazione della PESC e della PESD, potevano contribuire al tentativo di rendere l’Unione un attore internazionale efficace, cioè riconosciuto come serio, affidabile e abbastanza forte da influenzare in modo sensibile la gestione e la risoluzione delle crisi di portata globale. Nell’attuale quadro normativo, occorre a tal fine che l’Alto rappresentante abbia sia il desiderio sia la capacità di animare in modo sostanziale la PESC, mantenendosi a stretto contatto con gli interlocutori fondamentali – a seconda dei casi, quindi, gli esponenti di spicco delle principali organizzazioni internazionali e i rappresentanti di specifici Stati all’interno e all’esterno dell’Unione – e godendo di un relativo margine di autonomia da Bruxelles, salvo render conto ogni mese al Consiglio, per prendere l’iniziativa e perseguire con coerenza uno schema d’azione concordato con gli altri attori chiave.
Attento a cogliere con approccio pragmatico ogni occasione in cui l’Europa e gli Stati Uniti potessero agire di concerto, nel riferimento costante alla cornice multilaterale della NATO e delle Nazioni Unite, S. ha portato la sua capacità negoziale in primo piano in numerose occasioni, quali la collaborazione con il nuovo Coordinatore dell’Unione per le misure antiterrorismo, l’olandese Gijs de Vries, nominato nel marzo 2004; lo sforzo diplomatico compiuto per contribuire a risolvere la crisi ucraina nel novembre-dicembre 2004; nei Balcani, la promozione nel luglio 2004 dell’operazione militare dell’Unione in Bosnia Erzegovina (Eufor-Althea, lanciata in dicembre), le pressioni esercitate sulla Repubblica di Serbia e Montenegro, nel gennaio 2005, per indurla alla cooperazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, la partecipazione ai negoziati sullo status del Kosovo e, in seguito, la preparazione di un ruolo più forte dell’Unione nella regione (EU planning team in Kosovo); l’impegno speso per la promozione, nel febbraio 2005, della prima missione di polizia organizzata in Africa dall’Unione, nella Repubblica democratica del Congo (Eupol-Kinshasa, proseguita nel 2007 con la missione Eupol Rd Congo), in giugno di una missione di assistenza alle autorità congolesi per la riforma della sicurezza (Eusec Rd Congo) e in luglio di un’azione di sostegno militare e civile dell’Unione nel Darfur sudanese, al fianco dell’Unione africana (EU Supporting Action To Amis II); nell’aprile 2005, i colloqui di Vilnius con il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, volti a sostenere la risoluzione di condanna del governo bielorusso adottata dalla Commissione dell’ONU per i diritti umani e la dichiarazione dei ministri degli Esteri dell’Unione, che aveva posto in rilievo la deriva del Paese verso la dittatura; in dicembre, l’avvio della missione di assistenza dell’Unione al confine tra Moldavia e Ucraina, su richiesta dei due governi (EU border assistance mission to Moldova and Ukraine).
Di particolare rilevanza, soprattutto tra il 2006 e il 2007, va considerata l’attività diplomatica svolta da S. in relazione al programma nucleare dell’Iran, in riferimento coerente alla Strategia contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa adottata, come la Strategia europea in materia di sicurezza, dal Consiglio europeo di Bruxelles il 12 dicembre 2003. Dopo la sua visita al paese, nel gennaio 2004, e le missioni a Bruxelles dei ministri degli Esteri Kamal Kharrazi, in maggio, e Manuchehr Motaki, nel febbraio 2006, S. presentò un pacchetto negoziale di incentivi, approvato dai ministri degli Esteri dell’Unione in un incontro tenuto a Bruxelles il 15 maggio, per indurre l’Iran a fermare il suo programma di arricchimento dell’uranio e a utilizzare la tecnologia sofisticata offerta dall’Unione per la produzione di energia, ma il progetto fu subito respinto dal presidente Mahmoud Ahmadinejad. In giugno, S. partecipò a Vienna al vertice dei “P5+1”, cioè dei ministri degli Esteri della Germania e dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, e ne fu incaricato di offrire un nuovo pacchetto negoziale, che presentò a Teheran ad Alì Larijani, segretario del Consiglio supremo nazionale per la sicurezza e capo negoziatore dell’Iran per le questioni nucleari. Dopo che il Consiglio di sicurezza dell’ONU, alla fine di luglio, ebbe approvato la risoluzione 1696, che imponeva all’Iran di fermare tutte le attività di arricchimento dell’uranio, minacciando sanzioni in caso di inadempienza, alcuni progressi vennero compiuti nei colloqui tra Larijani e S. tenuti in settembre a Vienna e a Berlino. Gli sforzi di S. per mantenere aperto il dialogo con Teheran, che ha continuato a ignorare la prima e le successive risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, sono proseguiti negli incontri con Larijani ad Ankara, nell’aprile 2007, a Madrid in maggio e a Lisbona in giugno. Nel frattempo, S. ha stimolato anche l’impegno dell’Unione verso l’Afghanistan, con la preparazione di una missione di polizia triennale (Eupol Afghanistan).
Nel Medio Oriente, S. fu il primo leader internazionale a visitare il neoeletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, nel gennaio 2005. In giugno partecipò alla delegazione dell’Unione in visita in Iraq, per la prima volta dall’inizio della guerra, e stimolò l’avvio nel paese della prima integrated rule of law mission svolta sotto gli auspici della Pesd (Eujust Lex). Quando, in novembre, i ministri degli Esteri dell’Unione decisero di inviare nei Territori palestinesi, dal 1° gennaio 2006, una missione triennale per l’addestramento degli ufficiali di polizia (Eupol Copps) e una di monitoraggio del posto di confine di Rafah (EU border assistance mission at Rafah), S. le definì «la più importante presenza di sicurezza nel Medio Oriente mai intrapresa dall’Unione europea», nell’ambito di un più ampio processo di pacificazione della regione. Durante l’offensiva militare lanciata da Israele in Libano contro le milizie di Hezbollah dal 12 luglio al 14 agosto, S. partecipò alla conferenza internazionale organizzata a Roma il 26 luglio, sostenendo con energia la necessità di richiedere il cessate il fuoco immediato. L’opposizione statunitense permise di formulare solo l’esortazione a raggiungere quell’obiettivo con la massima urgenza e l’appello all’ONU per l’organizzazione di una forza internazionale di sostegno all’esercito libanese. S. dovette poi mediare tra le diverse posizioni degli Stati membri dell’Unione perché i ministri degli Esteri, riuniti in sessione d’emergenza a Bruxelles il 1° agosto, chiedessero la cessazione immediata delle ostilità, seguita da un cessate il fuoco sostenibile: i francesi dichiararono che il testo del comunicato finale era stato annacquato e smussato in tal senso su pressione britannica, tedesca, olandese e polacca. Una nuova sessione straordinaria dei ministri degli Esteri, riuniti a fine mese a Bruxelles, confermò la forte partecipazione italiana e francese allo schieramento di una forza United Nations interim force in Lebanon (UNIFIL) allargata, cui avrebbero contribuito con contingenti di minore entità anche la Spagna, la Polonia, il Belgio e la Finlandia, per un totale di 7000 unità, sotto comando francese e poi italiano. Nel 2007 S. ha continuato a impegnarsi nel processo di pace su scala regionale – ricambiato dagli interlocutori con costanti manifestazioni di interesse, serietà e rispetto – visitando l’Arabia Saudita, il Libano e la Siria in marzo, tornando in maggio a Beirut, in altre capitali mediorientali, in Israele e a Gaza, collaborando con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, incaricato dal Quartetto di contribuire alla costruzione delle istituzioni palestinesi e a una soluzione della crisi su base bistatuale, e confermando, in vista di una nuova missione in luglio in Israele e nei Territori, il consenso raggiunto in seno all’Unione, nonostante le perplessità statunitensi, sulla necessità di fornire aiuto economico e umanitario ai palestinesi e di renderne sostenibile uno Stato, passando da una politica di gestione della crisi a una di risoluzione del conflitto regionale.
Coadiuvato dai suoi rappresentanti personali (nel 2007: per la non proliferazione delle armi di distruzione di massa, per i diritti umani, per gli affari parlamentari) e dai rappresentanti speciali dell’Unione per particolari regioni del globo (nel 2007: Afghanistan, Asia centrale, Bosnia Erzegovina, Caucaso meridionale, regione dei Grandi Laghi, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, processo di pace nel Medio Oriente, Moldavia, Sudan), negli anni che ha trascorso alla guida della PESC e della PESD S. ha manifestato a più riprese, in una mole notevole di dichiarazioni, rapporti, interviste, articoli e altri contributi editoriali, la convinzione che l’Unione si stia dotando, e debba dotarsi sempre più, di una solida proiezione internazionale, ben sostenuta da adeguati mezzi militari, per contribuire in modo responsabile al funzionamento di un sistema multipolare e alla protezione della sicurezza globale, tramite un approccio flessibile e multilaterale. Nonostante le ovvie difficoltà poste dalla natura di processo negoziale intergovernativo propria della PESC, così come dal meccanismo poco efficiente di rotazione semestrale della presidenza nazionale dell’Unione, che ha ingenerato nei governi degli Stati membri la tentazione di sfruttare il proprio turno, nonostante la sua brevità, per iniziative di politica estera comune a volte effimere e improvvisate, S. ha cercato di dare continuità, coerenza e visibilità a tale politica, mantenendosi entro i limiti del mandato istituzionale e, a tratti, anche forzandone le caratteristiche per conservare la propria libertà di manovra in competizione con gli Stati membri, esercitando così una funzione di leadership e costruzione del consenso europeo a dispetto (in quei casi), più che all’interno, dei meccanismi formali previsti dai trattati e dagli accordi raggiunti.
Persuaso dell’esistenza in Europa di un grado sufficiente di disponibilità alla costruzione di una proiezione esterna dell’Unione, S. – che, nei suoi interventi pubblici, tende a datare al 1999, e dunque alla guerra del Kosovo, l’avvio effettivo di quella proiezione, evitando di commentarne gli sviluppi formali e sostanziali nella seconda metà del Novecento – non ha finora ritenuto opportuno esporre in modo sistematico la sua concezione della politica estera europea e, sulle questioni controverse, ha conservato perlopiù un atteggiamento riservato nei confronti dei mass media e dell’opinione pubblica. Tipica, in tal senso, l’assenza di critiche ai governi degli Stati membri nel corso della spaccatura sulla guerra in Iraq e la capacità pragmatica di approfittarne per elaborare in modo vincente, subito dopo, una strategia europea in materia di sicurezza dalle forti potenzialità. Coltivando con energia instancabile la rete delle relazioni personali e professionali con gli interlocutori che contano, preparando ogni missione diplomatica mediante numerosi contatti anticipati con ciascuno di loro, sfruttando la sua capacità di ascoltare tutte le parti in causa per risolvere i conflitti, avvalendosi della preziosa collaborazione del suo staff e del contributo di analisi, ricerca e dibattito fornito a sostegno della PESC dall’European union Institute for security studies (EUISS), S. ha interpretato il ruolo di Alto rappresentante, così come prima quello di segretario generale della NATO, soprattutto nei termini di una costruzione paziente del consenso tra gli attori rilevanti della politica estera europea, anche in risposta – come ha spesso sottolineato – alla “domanda”, ineludibile ed evidente, espressa dal sistema internazionale. La comunicazione in tema di politica estera che egli ha prodotto negli anni è stata sempre orientata all’azione, cioè alla sua possibilità di realizzazione per via negoziale, sfruttando la pressione che la globalizzazione ha esercitato via via sugli Stati dell’Unione per diminuire la loro resistenza all’integrazione o, quanto meno, a forme di cooperazione più profonde e accentuate. Significativo di questo orientamento pragmatico è il fatto che egli non abbia mai proposto in termini di compromesso o di ricerca del male minore il rapporto tra valori e interessi nella costruzione della proiezione esterna dell’Unione ma, semmai, abbia sottolineato e dimostrato nei fatti, proprio con l’alterna efficacia del suo operato nelle diverse situazioni, come gli ostacoli alla costruzione di una reale influenza dell’Europa sulla politica mondiale si collochino al suo interno, molto più che all’esterno.
In un bilancio sintetico pubblicato nel febbraio 2007 sulla rivista spagnola “Política exterior”, S. ha definito la costruzione europea un’«avventura appassionante», «un progetto ambizioso» che ha creato «uno spazio di pace, stabilità e prosperità in Europa, con la vocazione a proiettare nel mondo i nostri principi, valori e interessi». Il mondo chiede all’Europa «presenza e protagonismo», perché la considera «un attore globale necessario e decisivo per la prevenzione dei conflitti, la gestione delle crisi, il mantenimento della pace, la protezione dei diritti umani, la promozione della democrazia o la ricostruzione dei paesi». La strategia europea in materia di sicurezza approvata nel 2003, secondo S., è nel contempo una dichiarazione di principi e una concreta agenda di lavoro per l’Unione, strutturata per priorità, poiché individua le minacce da fronteggiare (il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, i conflitti regionali, il fallimento dello Stato, il crimine organizzato) e indica le risposte adeguate: «L’azione multilaterale volta a rafforzare le istituzioni internazionali, e in particolare le Nazioni Unite, come ambito di un ordine mondiale basato sul rispetto del diritto internazionale, l’azione diplomatica e di aiuto per fronteggiare le cause ultime dei conflitti regionali, l’appoggio al sistema internazionale di non proliferazione e il rafforzamento della capacità istituzionale degli Stati deboli». L’Unione si è dotata di uno specifico schema istituzionale («complesso, forse troppo complesso, ma è un prezzo da pagare») per garantire le diverse tappe del processo decisionale e della sua esecuzione: Alto rappresentante della PESC, Comitato politico e di sicurezza, Comitato militare, Stato maggiore, Comitato incaricato degli aspetti civili della gestione delle crisi (Civcom), Cellula civile-militare e Centro situazioni (Sitcen); ha dispiegato capacità militari e civili: l’obiettivo globale del 2010, i 13 gruppi tattici di combattimento, il meccanismo di sviluppo delle capacità, l’Agenzia europea per la difesa, il piano d’azione per lo sviluppo di capacità civili, l’obiettivo civile del 2008; e soprattutto ha accumulato esperienza operativa nella prevenzione e gestione dei conflitti, con le 14 operazioni dispiegate in tre continenti (nell’intera gamma attuabile dall’Unione: militari in collaborazione con la NATO nell’ambito degli accordi “Berlin plus”, militari autonome, costituite da componenti civili e militari, puramente civili), dove ha «esportato stabilità, gestito crisi, accompagnato processi di pace e collaborato a ricostruire paesi»: il tutto «in poco più di sei anni e con limitate risorse umane e finanziarie».
La corrente crisi costituzionale dell’Europa, ritiene S., impedisce di applicare «le necessarie riforme della PESC e della PESD», ma «i cittadini europei esigono con chiarezza un’Europa che agisca con una sola voce e una strategia risoluta nell’arena internazionale. All’esterno e all’interno delle nostre frontiere si domanda più Europa, non meno. Lungi dal cedere alla tentazione dell’autocompiacimento o dei dubbi paralizzanti, dobbiamo mantenere i nostri obiettivi e aumentare le nostre capacità di azione internazionale. Il tempo non è neutrale». Questa esortazione, animata da un ottimismo monnetiano cui l’articolo fa riferimento esplicito in chiusura («L’integrazione europea, secondo me, è il progetto più ambizioso e razionale che abbia conosciuto il nostro continente […] è sopravvissuto a numerose crisi e sempre ne è uscito rinnovato e rafforzato»), riassume lo spirito che ha animato l’eccezionale impegno di S. e la sua azione brillante, generosa e paziente come leader europeo.
Massimiliano Guderzo (2007)