Spagna
L’ingresso della Spagna nelle Comunità europee, avvenuto ufficialmente il 1° gennaio 1986, da un lato ha rappresentato il punto d’arrivo di un lungo e tortuoso processo di avvicinamento iniziato a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, cioè in pieno regime franchista, e dall’altro ha costituito l’agognato traguardo di un europeismo democratico le cui radici affondano nel cuore del XIX secolo.
Sin dai primi decenni dell’Ottocento, infatti, non solo i liberali spagnoli avevano guardato all’Europa, intesa come l’insieme degli Stati più avanzati del continente, come a un modello di riferimento per modernizzare il paese, ma anche tanti repubblicani e socialisti utopisti avevano addirittura indicato negli Stati uniti d’Europa un obiettivo programmatico di politica estera, a completamento dei progetti di Unione iberica con il Portogallo e di Unione latina con Francia e Italia.
Questo, ad esempio, era il caso di intellettuali quali il saint-simoniano Francisco Díaz de Morales Bernuy (1792-1850), e del socialista Fernando Garrido y Tortosa (1821-1883), autore nel 1855 del celebre saggio intitolato La República democrática, federal universal. Nociones elementales de los principios democráticos, nel quale si auspicava una rivoluzione che avrebbe rovesciato il sistema monarchico in Europa e dato vita a una federazione continentale. Ma anche il fourieriano Sixto Sáenz de la Cámara (1825-1859), o il democratico José María Orense Milá de Aragón (1803-1880), e lo stesso Emilio Castelar y Ripoll (1832-1899), almeno negli anni compresi tra la caduta di Isabella II e la Prima repubblica, o perfino Francisco Pi y Margall (1824-1901), il massimo pensatore federalista spagnolo della seconda metà dell’Ottocento, con particolare riferimento al volume su Las nacionalidades del 1876, fecero propri i valori dell’unità europea, anche se con toni e accenti spesso differenti.
Trattandosi poi non soltanto di intellettuali, ma anche di personaggi di primo piano della vita politica spagnola, le loro idee europeiste finirono per segnare profondamente la sinistra repubblicana spagnola del XIX secolo, sino a trasformarsi in programma d’azione nell’ambito di quel Partido republicano federal español che avrebbe svolto un ruolo da protagonista durante il Sessennio rivoluzionario (1868-1874). Poco importa se il loro europeismo fosse in gran parte di derivazione mazziniana, anche perché nelle loro riflessioni non mancò mai un significativo apporto teorico originale, così come non vale la pena soffermarsi troppo sul carattere utopistico di una proposta politica destinata necessariamente a essere troppo in anticipo sui tempi della storia; il dato sorprendente, l’elemento che merita invece di essere sottolineato, consiste nel fatto che la Spagna di quegli anni fu l’unico paese europeo in cui il Federalismo infranazionale e sopranazionale arrivò ad avere un seguito realmente popolare, quasi da ideologia di massa.
L’europeismo spagnolo del XIX secolo ebbe però vita breve, dato che la guerra franco-prussiana del 1870 e, più in generale, la degenerazione dei nazionalismi nella cosiddetta età dell’imperialismo misero presto la parola fine su qualsiasi progetto di unificazione continentale. Solo al momento della proclamazione della Repubblica nel 1873 venne rispolverata la prospettiva dell’unità europea, ma si trattava ormai soltanto di discorsi di rito, pronunciati senza più alcuna convinzione.
Di conseguenza, nell’ultimo quarto dell’Ottocento furono semmai l’internazionalismo marxista e quello anarchico a contrapporsi alla nuova ondata nazionalista. Solo il disastro del 1898, cioè l’umiliante sconfitta nella guerra contro gli Stati Uniti e la conseguente perdita della ricca colonia cubana, fecero sì che in Spagna si tornasse in qualche modo a parlare d’Europa, almeno nei termini indicati dal rigenerazionista Joaquín Costa y Martínez (1846-1911), il quale aveva indicato nell’europeizzazione del paese l’unica possibile via d’uscita da una crisi e da un declino altrimenti irreversibili.
Non fu pertanto casuale il fatto che molti intellettuali della cosiddetta generazione del 1898 abbiano sviluppato un notevole interesse per l’Europa, anche se è vero che forse solo José Ortega y Gasset (1883-1955), pur tra qualche incertezza e contraddizione, arrivò a parlare esplicitamente di unificazione europea. Questi orientamenti non furono però fatti propri dai governanti, che tuttavia nei primi due decenni del Novecento ebbero il merito di aver fatto uscire la Spagna dall’isolamento internazionale e di non averla trascinata nella tragedia della Prima guerra mondiale. Forte di questo risultato la Spagna negli anni successivi avrebbe addirittura rivendicato un seggio permanente nel Consiglio della Società delle Nazioni.
Con la dittatura di Primo de Rivera si accentuò ulteriormente l’impostazione nazionalista della politica estera spagnola, che subì una svolta solo durante la Seconda repubblica. Nei pochi anni che precedettero la guerra civile, il paese infatti si distinse nel sostegno attivo alle politiche della Società delle Nazioni, oltre che per una nuova impostazione internazionale rigorosamente neutralista e pacifista. Ma l’instabilità politica che caratterizzò la storia della Seconda repubblica e la conseguente successione di governi impedì di fatto al paese di svolgere sotto questo aspetto un’azione realmente incisiva.
Con la guerra civile la situazione tuttavia mutò radicalmente, dato che il conflitto superò subito i confini della dimensione nazionale per internazionalizzarsi in un confronto più generale tra fascismo e antifascismo, dittatura versus democrazia. A questo proposito sono noti gli aiuti forniti ai militari franchisti da Germania, Italia e Portogallo, così come l’inerzia di Francia e Regno Unito, cioè dell’Europa democratica, nei confronti del governo legittimo, che pur ricevette un concreto sostegno dall’URSS e dal Messico, oltre che dalle migliaia di combattenti per la libertà inquadrati nelle Brigate internazionali.
Francia e Gran Bretagna, insomma, tradirono le aspettative di Azaña e dei repubblicani spagnoli, che si sentivano europei e che nell’Europa democratica avevano al contrario riposto fiducia. Da parte sua il franchismo pretendeva invece di incarnare l’identità nazionale, e pur avendo osservato la neutralità durante la Seconda guerra mondiale – con l’eccezione della partecipazione della divisione Azul all’operazione Barbarossa –, non smise mai di simpatizzare per i paesi dell’Asse, con i quali aveva del resto firmato il patto anti Comintern il 6 aprile 1939, né di condividere il progetto hitleriano per l’instaurazione di un nuovo ordine europeo e mondiale.
Queste scelte di politica estera, motivate indubbiamente anche da affinità ideologiche con i fascismi, avrebbero condotto il paese nel dopoguerra all’isolamento internazionale. Nel dicembre 1946 l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), infatti, dichiarò di non riconoscere il governo di Franco come rappresentante della nazione spagnola, e invitò i suoi membri a rompere le relazioni diplomatiche con Madrid (gli unici a non adeguarsi furono il Portogallo, la Svizzera e il Vaticano, anche se molti paesi continuarono ad avere rapporti commerciali con la Spagna, a cominciare proprio dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna). A parte il Portogallo di António de Oliveira Salazar, solo l’Argentina del generale Juan Perón si schierò apertamente al suo fianco, tanto da concludere nel 1947 un importante accordo economico che di fatto salvò il paese dalla carestia.
In generale, l’Europa si mostrò poi particolarmente ostile verso la Spagna, e anche per questa ragione la bandiera dell’europeismo entrò a far parte ancor più chiaramente del bagaglio culturale degli esuli politici. Non deve perciò stupire che al Congresso dell’Aia del 1948 avessero partecipato illustri personalità dell’esilio spagnolo come il saggista Salvador de Madariaga, il socialista Indalecio Prieto, il chirurgo Josep Trueba e il leader nazionalista basco José Antonio Aguirre. Così come rientra nella logica delle condanne espresse verso ogni tipo di dittatura la ferma presa di posizione del Consiglio d’Europa – uno dei primi organismi europei – nei confronti del regime franchista, approvata dall’Assemblea consultiva il 10 agosto 1950.
Nell’immediato dopoguerra, e per tutta la seconda metà degli anni Quaranta, la Spagna franchista percepì l’Europa come una minaccia, essendo stata completamente emarginata dalla vita politica del continente e dall’avvio del processo d’integrazione (v. Integrazione, metodo della). Particolarmente ostile nei suoi confronti risultava poi la Francia, che nel 1947 chiese esplicitamente agli Usa di escludere la Spagna dai finanziamenti del Piano Marshall. Era comunque evidente che i valori di fondo che ispiravano il processo d’integrazione europea erano proprio quei valori liberali, democratici e forse perfino socialdemocratici contro cui Franco e gli altri generali insorti nel 1936 avevano combattuto durante la guerra civile (v. Integrazione, teorie della).
In quel nuovo contesto internazionale la Spagna si mosse respingendo da un lato le accuse che le erano state rivolte, ma dall’altro mostrando qualche timido segnale di apertura, sopprimendo ad esempio il saluto fascista, assegnando incarichi di governo a esponenti della Asociación católica nacional de propagandistas (ACNP) e mitigando attraverso riforme costituzionali di facciata il carattere totalitario del regime. Non furono però certo questi piccoli cambiamenti a modificare l’immagine internazionale della Spagna, bensì il clima più favorevole che si venne instaurando grazie all’avvio della Guerra fredda.
In questa logica l’anticomunismo di Franco diventava paradossalmente un titolo di merito, tanto da far passare in secondo piano i suoi crimini. Così nell’autunno del 1947 gli USA decisero di normalizzare i rapporti con la Spagna, considerandola un possibile interlocutore nel confronto planetario con l’URSS, e nel febbraio 1948 anche la Francia lanciò un segnale in questa direzione riaprendo le frontiere con il paese iberico. Il primo successo della diplomazia spagnola si verificò tuttavia solo nel febbraio dell’anno successivo, con la concessione di un prestito di 25 milioni di dollari dalle banche americane, cui fece seguito nel novembre 1950 il voto favorevole dell’Onu al ritorno degli ambasciatori a Madrid e all’ammissione del paese nella Food and agricolture organization (FAO).
Nei primi anni Cinquanta vennero compiuti altri passi decisivi per l’accettazione della Spagna nel consesso internazionale: nel 1952 essa diventò infatti membro dell’United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO), nel 1953 siglò in agosto un concordato con il Vaticano e in settembre stipulò un accordo di mutua assistenza con gli USA che gli avrebbe fruttato nuovi crediti, mentre nel 1955 venne ammessa come membro a pieno titolo nell’ONU. In quel periodo praticamente solo i paesi del blocco sovietico sostennero la linea dell’intransigenza nei confronti di Franco, mentre aperture nei suoi confronti provenivano oltre che dagli Stati Uniti da quasi tutti i paesi latino-americani, a eccezione del Messico, e dai paesi arabi. I paesi europei, viceversa, continuano a mostrarsi ostili verso il dittatore, dato che l’opinione pubblica non aveva certamente dimenticato i recenti crimini del fascismo.
Tuttavia, sin dal 1953, furono avviati contatti con l’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE), che alla fine la accettò tra i suoi membri nel 1955. Di conseguenza la Spagna venne inserita in alcuni progetti di cooperazione sopranazionale che, per la loro natura strettamente economica, non implicavano alcuna pregiudiziale di tipo politico. Questi primi risultati costituirono un importante successo per Franco che, antieuropeista per ragioni ideologiche, si era però via via convinto che nel caso in cui si fosse realizzata in Europa un’area di libero scambio, la Spagna non avrebbe potuto restarne fuori.
L’interesse per l’Europa, intesa nel suo significato storico-politico, nella Spagna franchista risaliva almeno alla fine degli anni Quaranta, quando venne realizzata una serie di iniziative tese a conoscere meglio la realtà europea promosse dall’Ateneo di Madrid, da varie università, da enti culturali come ad esempio la reale Accademia di scienze morali e politiche o l’Istituto di studi politici. Se tuttavia per Franco l’Europa rappresentava soprattutto un’occasione, o tutt’al più una sgradevole necessità, in Spagna si svilupparono invece in quegli anni convincimenti più sinceramente europeisti, come nel caso dei cattolici della ACNP, o anche di alcuni gruppi dell’opposizione interna. Resta però fuori dubbio che l’autentico europeismo era per lo più appannaggio della Spagna dell’esilio, dove operavano il già menzionato Salvador de Madariaga, che nel 1952 pubblicò a Londra il volume Europe, a unit of human culture ed Enrique Adroher “Gironella”, allora dirigente del Movimento europeo e del Movimento socialista per gli Stati uniti d’Europa; inoltre, dopo qualche anno sarebbe stato costretto all’esilio anche Enrique Tierno Galván, già docente all’Università di Salamanca ed eminente studioso delle tematiche europee.
Del resto, per tutti i primi anni Cinquanta, la politica estera spagnola guardava più agli USA e all’atlantismo che non all’Europa. Franco tuttavia riteneva che la Spagna avrebbe dovuto svolgere una sorta di missione in Europa, recuperando quei valori tradizionali e quelle radici cristiane che la cultura laica, materialista e financo marxista aveva a suo avviso rimosso. Ma egli era al contempo consapevole dell’impossibilità oggettiva della sua proposta, lontana anni-luce dai progetti di Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman e Paul-Henri Spaak.
Ma a fine anni Cinquanta, di fronte al rilancio comunitario rappresentato dalla Comunità economica europea (CEE) e dalla Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), anche la Spagna accrebbe il suo interesse per l’Europa. Nonostante il fatto che nel biennio 1956-1957 fossero usciti di scena sia il ministro della Pubblica istruzione Joaquín Ruíz-Giménez, sia il ministro degli Esteri Alberto Martín Artajo, due cattolici ritenuti troppo liberali, la prospettiva europea non venne però messa in discussione. Anzi, con il rimpasto governativo del 25 febbraio 1957, e l’arrivo al governo di un gruppo di tecnocrati vicini all’Opus Dei come il ministro del Commercio Alberto Ullastres e quello delle Finanze Mariano Navarro Rubio, tale prospettiva finì addirittura per rafforzarsi.
Così, a fronte della firma dei Trattati di Roma, venne istituita in Spagna, nel luglio del 1957, la Commissione interministeriale per lo studio delle Comunità economica e atomica europee (CICE), con il compito di studiare il loro funzionamento e valutare se esse avessero condotto alla creazione di un’area di libero scambio. Ma soprattutto è importante ricordare che nel 1959, proprio i nuovi ministri economici Ullastres e Navarro Rubio lanciarono quel Piano di stabilizzazione economica che introduceva in Spagna cospicui elementi di liberalismo e avvicinava di fatto il paese al resto dell’Europa.
Di conseguenza, crebbero considerevolmente i vincoli economici con i paesi della CEE, mentre anche sul piano politico vennero compiuti passi in questa direzione dal nuovo ministro degli Esteri Fernando María Castiella. Tuttavia, non tutti gli economisti spagnoli, e ancora meno gli uomini politici, erano convinti che questa fosse l’unica strada possibile per rilanciare l’economia del paese, una sorta di percorso obbligato. Non era infatti così scontato il buon funzionamento della CEE, e un’alternativa appetibile era offerta dall’Associazione europea di libero scambio (EFTA), che era stata creata proprio nel 1959 dalla Gran Bretagna in concorrenza con le Comunità europee.
Anche nel nuovo contesto gli europeisti più convinti continuarono però a essere gli antifranchisti, poiché a nessuno sfuggivano le implicazioni politiche, in termini di democrazia, dell’ingresso della Spagna in Europa. Nel frattempo, anche sul piano delle relazioni internazionali, si registrarono netti miglioramenti nei rapporti con la Francia e con la Germania, così come si verificò l’ammissione dell’ambasciatore spagnolo a Bruxelles, cioè presso la CEE, alla fine del 1960. Ma un ruolo decisivo giocò soprattutto la constatazione nei primi anni Sessanta dei buoni risultati conseguiti dalla CEE, che costituivano una delle ragioni principali del boom economico dei suoi Stati membri.
Di conseguenza anche la Spagna, sulla scia di altri paesi, si apprestava a chiedere l’apertura di un negoziato di Associazione alla CEE. Una complicazione non di poco conto derivava però dal fatto che il 31 dicembre 1961 il Parlamento europeo avesse approvato un decreto, presentato dal socialdemocratico tedesco Willy Bilkerbach, che stabiliva la pregiudiziale democratica come presupposto a ogni richiesta di adesione.
In ogni caso, l’istanza spagnola venne ufficialmente inoltrata il 9 febbraio 1962 da Castiella a Maurice Couve de Murville, ministro francese e presidente della CEE. Nel paese questa richiesta incontrò larghi consensi, anche se l’opposizione interna non perse l’occasione per ribadire la necessità di accelerare parallelamente il processo di democratizzazione; viceversa, l’opposizione in esilio invitava la CEE a rifiutare senza indugio la proposta di Franco.
Adesso spettava alla Comunità europea dare una risposta. Era evidente che vi erano sia dei pro che dei contro, e si trattava pertanto di valutare nei vari aspetti l’intera faccenda. Walter Hallstein, il primo Presidente della Commissione europea, non era in realtà mal disposto, ma di tutt’altro avviso era la componente socialista nel Parlamento europeo. Intanto, il 6 marzo, arrivò a Castiella una lettera interlocutoria da parte di Couve de Mourville, nella quale il mittente dichiarava di aver ricevuto l’istanza spagnola e di averla quindi girata al Consiglio dei ministri competente.
Mentre il governo era in attesa di una risposta ufficiale, nel mese di giugno si svolse a Monaco di Baviera un congresso del Movimento europeo che avrebbe segnato profondamente la storia dell’europeismo spagnolo. Per il paese iberico parteciparono al Congresso tutte le componenti dell’opposizione sia interna che in esilio, a eccezione dei comunisti, che tuttavia inviarono due osservatori. In questa occasione il Congresso approvò un ordine del giorno teso a sottolineare l’inderogabilità della pregiudiziale democratica nell’integrazione europea, facendo peraltro esplicito riferimento alla situazione spagnola e suscitando di conseguenza le ire del regime, che dapprima denigrò il congresso definendolo “contubernio di Monaco” e poi fece addirittura arrestare gli spagnoli che vi avevano partecipato al momento del ritorno in patria.
Naturalmente questo comportamento di Franco non passò inosservato, procurando un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica europea e giocando di conseguenza a sfavore della Spagna nella vicenda dell’associazione alla CEE. Tra i sei paesi membri, quello che esprimeva le più forti riserve in proposito era sicuramente l’Italia, mentre Francia e Germania erano sostanzialmente favorevoli e i paesi del Benelux apparivano indecisi. L’Italia chiarì però la sua posizione solo più avanti, quando cioè il 4 maggio 1964 presentò al Consiglio dei ministri il memorandum di Giuseppe Saragat, con il quale veniva esclusa ogni ipotesi di adesione per paesi il cui regime politico interno non risultasse conforme a quello dei sei paesi fondatori.
In generale però possiamo dire che un po’ in tutto l’ambiente comunitario la richiesta spagnola venne accolta con freddezza. In realtà nel dicembre del 1962 e poi ancora nel gennaio del 1963 il Consiglio dei ministri della CEE affrontò la questione, ma non venne presa nessuna iniziativa, dato che prevalse la tesi di quei paesi che sostenevano la necessità di un’ulteriore riflessione. Contro la Spagna giocò indirettamente pure il veto di Charles de Gaulle alla Gran Bretagna, che dimostrava come anche il veto di un solo paese potesse bloccare le procedure di adesione alle Comunità europee. In quel contesto la Spagna, che sino a quel momento non aveva ricevuto alcuna risposta ufficiale da Bruxelles, il 14 febbraio 1964 decise di presentare una nuova richiesta, questa volta non sollecitando però l’associazione alla CEE, ma soltanto l’apertura di un processo negoziale.
Questa volta Bruxelles non poteva ignorare la nuova istanza, e pertanto già il successivo 25 marzo riunì il Consiglio dei ministri per dare una risposta. Anche in questa occasione l’Italia espresse un parere negativo, ma questa volta il gruppo dei paesi favorevoli prevalse. Così il 6 giugno 1964 il Consiglio, tramite Spaak, rispose finalmente a Madrid autorizzando la Commissione europea ad avviare incontri esplorativi; il primo incontro tra la delegazione spagnola e quella della Commissione si svolse a Bruxelles il 9 dicembre successivo.
Le prime riunioni non diedero grandi risultati, ma nel corso di esse le parti esposero i punti base del negoziato. Un ruolo importante in questa fase giocò in particolare Ullastres, che dall’estate del 1965 era l’ambasciatore spagnolo presso la Comunità europea. Nel luglio del 1966 si concluse questa prima fase del negoziato, e a questo proposito in novembre la Commissione presentò al Consiglio dei ministri una relazione riassuntiva contenente anche alcune ipotesi di lavoro per il prosieguo delle trattative. Il 7 luglio 1967 il Consiglio pertanto diede il via libera all’apertura del negoziato vero e proprio, sulla base della formula dell’Accordo preferenziale, regolato dall’articolo 113 del Trattato CEE, anziché dell’associazione.
Di conseguenza ebbe presto inizio una nuova fase negoziale, che risultò più complessa del previsto anche per la crescente avversione dell’opinione pubblica internazionale verso Franco. Negli anni Sessanta infatti il regime utilizzò in più di un’occasione sistemi repressivi contro i suoi oppositori, come nel già citato caso dell’arresto dei partecipanti al Congresso di Monaco o nella proclamazione dello stato di emergenza durante le manifestazioni studentesche del 1968. In ogni caso, nonostante tali critiche, il 17 ottobre 1969 il Consiglio CEE approvò un secondo mandato negoziale con la Spagna, che prevedeva una riduzione delle tariffe doganali in due fasi successive. Si aprì pertanto la strada a quell’Accordo preferenziale, che venne siglato a Lussemburgo il 29 giugno 1970 dal ministro degli Esteri spagnolo Gregorio Lopez-Bravo, dal presidente del Consiglio della CEE Pierre Harmel e dal presidente della Commissione Jean Rey. Tale accordo entrò in vigore a partire dal 1° ottobre 1970, e tale sarebbe rimasto sino al 31 dicembre 1985.
La firma dell’Accordo preferenziale rappresentò senz’altro un successo per il regime, che a dispetto di quanto riteneva l’opposizione aveva così dimostrato che per la Spagna era possibile integrarsi in Europa, almeno parzialmente, senza dover fare alcuna concessione di natura politica. Tuttavia, l’Accordo preferenziale dovette quasi subito essere rivisto e integrato per via dell’imminente ingresso di Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda nella Comunità europea. Alla luce di questo fatto, il 21 ottobre 1971 Lopez-Bravo inviò pertanto una lettera a tutti i ministri degli Esteri dei paesi CEE e al presidente della Commissione europea per chiedere la riapertura del negoziato al fine di adattare i precedenti accordi alla nuova situazione.
Più precisamente, la Spagna lamentava i danni economici derivanti dall’Allargamento e di conseguenza rivendicava concessioni agricole unilaterali da parte della CEE a titolo di compensazione. Tuttavia, il Consiglio europeo del 29 giugno 1972 non solo oppose un netto rifiuto a tali richieste, ma addirittura negò alla Spagna le agevolazioni di cui beneficiavano i paesi meno sviluppati, dato che negli anni Sessanta il paese iberico si era sviluppato economicamente sino a diventare la nona potenza industriale del mondo. La controproposta della Comunità si riduceva alla ridiscussione della situazione nel quadro di un discorso complessivo sulla politica mediterranea, ma questa ipotesi non poteva certo soddisfare Madrid. Era del resto evidente il fatto che sulla vicenda avevano pesato i timori dell’Italia, ma soprattutto della Francia, nei confronti di prodotti agricoli che in un’ottica di concorrenza avrebbero potuto danneggiare economicamente gli interessi nazionali.
Come già accennato le decisioni assunte dal Consiglio suscitarono reazioni negative in Spagna, tanto che negli ambienti di governo vi fu perfino chi suggerì di abbandonare i negoziati. Prevalse però una linea improntata a una maggiore prudenza, anche se risulta che proprio nell’estate del 1972 la Spagna avesse ripreso i contatti con l’EFTA e che essi furono interrotti solo quando la Norvegia e la Svezia chiesero di nuovo a Madrid adeguate garanzie democratiche. Nel frattempo erano però continuati pure i negoziati con la CEE, che culminarono in una serie di incontri tenutisi tra il novembre e il dicembre del 1972.
Questi incontri non furono comunque infruttuosi, dato che un compromesso venne raggiunto sul Protocollo aggiuntivo che avrebbe dovuto integrare l’Accordo preferenziale. Il Protocollo venne pertanto firmato dalle parti il 29 gennaio 1973, anche se la vicenda era tutt’altro che chiusa, in quanto si trattava di un documento interlocutorio che si limitava a invitare le parti a negoziare un nuovo accordo, che sarebbe entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 1974, e a non modificare sino a quel momento le relazioni commerciali tra la Spagna e i tre nuovi partner comunitari.
Il 26 giugno 1973 il Consiglio dei ministri diede pertanto mandato alla Commissione di negoziare con i paesi mediterranei il progetto di dar vita a una zona di libero commercio per i prodotti industriali. I dazi doganali sarebbero stati soppressi completamente a partire dal 1° luglio 1977, ma alla Spagna venivano concesse eccezioni per alcuni prodotti sino al 1° gennaio 1980. Per quanto concerne l’agricoltura si rimandava invece la questione a nuovi negoziati.
Ai negoziati, svoltisi a Bruxelles, prese parte anche il nuovo ministro degli Esteri, il tecnocrate Laureano López-Rodó, personalità estremamente gradita agli ambienti comunitari. In quell’occasione la Spagna presentò una controproposta, che consisteva nell’inclusione nell’area di libero commercio anche dei prodotti agricoli. Seguirono quindi parecchi incontri dei gruppi di lavoro, che si svolsero in un clima collaborativo, tanto da indurre a credere di poter arrivare a un accordo entro la fine dell’anno.
Ma in ottobre le cose si complicarono terribilmente a causa dell’improvviso scoppio della IV guerra arabo-israeliana, la cosiddetta guerra del Kippur. Le conseguenze di questa crisi internazionale furono infatti gravissime sul piano economico, poiché comportarono il rialzo del prezzo del petrolio, l’impennata dell’inflazione e una tempesta valutaria. Di conseguenza problemi gravi e urgenti si imposero all’attenzione delle Istituzioni comunitarie, relegando in secondo piano la questione dei rapporti tra la Spagna e la CEE. Visti tali sviluppi l’ambasciatore Ullastres cercò invano di forzare la situazione inviando una nuova lettera ai rappresentanti dei Nove per indurli ad accelerare i tempi in merito alla riduzione delle tariffe doganali.
Si entrò pertanto in una fase di impasse, causata certo dal particolare contesto internazionale, ma alla quale non furono completamente estranei i comportamenti repressivi contro gli oppositori dell’ultimo franchismo, a cominciare dal processo contro i leader sindacali delle Comisiones obreras (CCOO). Nell’estate del 1974 ripresero comunque i negoziati, ma essi vennero tuttavia nuovamente interrotti il 1° ottobre 1975 a seguito dell’esecuzione da parte del regime di alcuni militanti dell’Euskadi ta askatasuna (ETA) e del Frente revolucionario antifascista y patriota (FRAP). Di lì a poche settimane la situazione sarebbe però nuovamente cambiata, dato che la morte di Franco, avvenuta il 20 novembre 1975, e la successiva transizione democratica avrebbero inaugurato una nuova stagione nei rapporti tra la Spagna e la Comunità europea.
Il percorso che nell’arco di un decennio avrebbe portato alla piena integrazione della Spagna in Europa fu tuttavia più complesso del previsto, dato che una volta risolte le questioni politiche rimanevano però ancora in piedi le controversie economiche. I segnali di questi possibili sviluppi potevano essere colti già nell’estate del 1974, quando si verificò la cosiddetta guerra delle pesche con la Francia, con tanto di assalti da parte degli agricoltori francesi ai camion spagnoli.
In ogni caso la Spagna della transizione democratica guardò subito all’Europa con nuove speranze, peraltro incoraggiate dal Consiglio dei ministri della CEE, che il 20 gennaio 1976 prese ufficialmente atto della nuova situazione politica spagnola e dichiarò decaduti i principali ostacoli per l’avvio del negoziato. In realtà all’inizio del 1976 i problemi politici non erano ancora stati superati, poiché la Spagna non risultava ancora un paese democratico, bensì un paese in via di democratizzazione.
Il capo del governo Arias Navarro era infatti un personaggio troppo compromesso con il passato regime franchista per godere di un’adeguata credibilità. E così, nel tentativo di rassicurare l’Europa, nella primavera del 1976 il ministro degli Esteri José María de Areilza si recò in visita in tutti i nove paesi della Comunità europea (CE) per illustrare la situazione politica spagnola. Questo viaggio rappresentò sicuramente un successo, ma da più parti Areilza si sentì suggerire che per la Spagna sarebbe stato meglio completare la transizione alla democrazia prima di presentare una nuova domanda di adesione.
In realtà su questo punto vi era una sostanziale differenza di vedute all’interno delle istituzioni comunitarie, dato che il Parlamento europeo era più intransigente rispetto al Consiglio e alla Commissione nell’esigere adeguate garanzie. Era questa, del resto, anche la linea dell’opposizione spagnola, che invitava l’Europa alla prudenza nei confronti di Madrid e le chiedeva di esercitare una costante opera di pressione sulla sua classe dirigente. In quest’ottica crebbero notevolmente nel corso del 1976 i contatti tra la Spagna e l’Europa, a dimostrazione dell’interesse con cui Bruxelles e Strasburgo seguivano gli avvenimenti del paese iberico.
La svolta si ebbe nel luglio del 1976 con la formazione di un nuovo governo guidato da Adolfo Suárez. In realtà anche quella di Suárez era una figura alquanto compromessa con Franco, e inoltre sino a quel momento il nuovo premier non aveva mostrato particolare interesse per l’Europa, tuttavia egli seppe smentire con fatti concreti tali perplessità. In pochi mesi Suárez riuscì infatti a far approvare quella legge di riforma politica che poneva fine alla dittatura, a legittimare partiti e sindacati, comunisti compresi, a ristabilire le libertà fondamentali e a indire elezioni democratiche per il giugno 1977.
Per quanto concerne la politica estera egli ebbe inoltre l’intuizione di affidarne la guida a Marcelino Oreja, il quale, forte dell’esperienza maturata a fianco di Areilza, giocò un ruolo importante nell’avvicinamento della Spagna all’Europa. Parimenti si mosse in quella direzione pure Juan Carlos, che sfruttò i suoi contatti personali e, più in generale i contatti con l’aristocrazia europea, per cercare di migliorare l’immagine internazionale del paese. E in effetti gli sforzi di Suárez, Oreja e Juan Carlos servirono non poco a vincere la diffidenza degli ambienti comunitari.
Di conseguenza il 28 luglio 1977 Marcelino Oreja, a nome di Suárez e del governo, presentò a Henry Simonet, presidente del Consiglio dei ministri delle Comunità europee (v. anche Presidenza dell’Unione europea), la richiesta ufficiale di adesione della Spagna. Questa volta le istituzioni comunitarie espressero all’unisono la loro soddisfazione essendo stati superati i problemi politici del passato, tuttavia sulla strada del nuovo allargamento esistevano ancora non pochi problemi di natura tecnica ed economica.
Intanto alcuni mesi dopo, per l’esattezza il 24 novembre 1977, la Spagna diventava il 20° membro del Consiglio d’Europa, nonché il primo paese a essere ammesso in assenza di una costituzione democratica. E nel frattempo la Spagna avviò anche i negoziati con i paesi dell’EFTA, che sarebbero poi sfociati negli accordi del 26 giugno 1979 sul commercio dei prodotti industriali e di alcuni prodotti agricoli, e che entrarono in vigore il 1° luglio 1980. Viceversa la Spagna non sembrava allora interessata all’ingresso nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), anche per evitare pericolose tensioni con i partiti di sinistra.
Il primo ostacolo nei negoziati con le CE era rappresentato dal fatto che la Grecia aveva rinnovato la domanda di adesione già nel 1975, quindi con due anni d’anticipo sulla Spagna, e di conseguenza stava davanti al paese iberico nelle trattative. Poi vi erano i già accennati problemi economici, anche se il Consiglio dei ministri del 20 e 21 settembre 1977, nell’esprimere il proprio assenso all’avvio dei negoziati con la Spagna secondo quanto previsto dagli articoli 98 del Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), 237 del Trattato CEE e 205 del Trattato CEEA, non vi aveva fatto alcun riferimento. A questo punto il Consiglio incaricò la Commissione di stendere un Parere sull’argomento.
Di conseguenza la Commissione elaborò un documento intitolato Considerazioni generali relative ai problemi dell’allargamento, noto come el fresco, che venne reso pubblico nell’aprile del 1978. Esso recepiva tutte le riserve francesi nei confronti dell’allargamento, dato che da un lato riconosceva gli effetti positivi dell’ampliamento dei mercati e delle nuove possibilità che offrivano verso l’America Latina, ma dall’altro non nascondeva le difficoltà e la necessità di misure precauzionali tese a preparare i paesi candidati all’ingresso al fine di rendere più agevole l’integrazione. Questo documento, che faceva riferimento a un periodo transitorio che avrebbe dovuto essere compreso tra un minimo di 5 anni e un massimo di 10, venne trasmesso a fine novembre al Consiglio dei ministri.
Il 5 febbraio 1979 ebbe pertanto luogo a Bruxelles l’apertura ufficiale dei negoziati. In tale occasione Jean François Poncet, presidente di turno del Consiglio dei ministri, precisò che la Spagna per entrare in Europa avrebbe dovuto accettare il contenuto dei Trattati comunitari e di tutte le delibere successivamente approvate, nonché condividere le loro finalità politiche. Per la Spagna prese invece la parola Leopoldo Calvo Sotelo, ministro per le relazioni con le Comunità europee, sostenendo che il suo paese era assolutamente pronto a recepire tali disposizioni.
Questa era però soltanto la cerimonia ufficiale, mentre i negoziati veri e propri sarebbero iniziati nel mese di giugno, non a caso alla fine della presidenza francese e dopo lo svolgimento delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo. Tuttavia, il 10 maggio 1979, il Parlamento uscente era riuscito ad approvare ancora una Risoluzione nella quale esso esprimeva la sua preoccupazione per le serie difficoltà economiche che sarebbero potute derivare dall’allargamento e chiedeva che fossero prese misure adeguate in proposito.
Alla ripresa dei negoziati arrivò anche il rapporto che nel frattempo era stato elaborato dal Comitato economico e sociale (CES) in merito alle domande di adesione di Grecia, Portogallo e Spagna. Questo documento si distingueva dai precedenti in quanto sottolineava soprattutto le conseguenze positive dell’allargamento, considerato come momento di fondamentale importanza nel rafforzamento della democrazia nel Sud del continente. Per quanto concerne le questioni economiche e sociali il Comitato invitava a risolverle in modo equo e in tempi brevi, mentre, su di un piano più generale, esso indicava la necessità di adattare le strutture istituzionali alle nuove dimensioni della Comunità.
I negoziati intanto procedevano con estrema lentezza, anche perché si palesavano via via le riserve espresse dalla Francia di Valéry Giscard d’Estaing. Nonostante la posizione francese non fosse condivisa dai partner comunitari, Parigi continuò a sollevare problemi sino ad assumere posizioni quasi ostruzionistiche. Intanto, nel settembre del 1980, un rimpasto governativo aveva cambiato gli interlocutori spagnoli nelle trattative con Bruxelles: Marcelino Oreja era stato sostituito agli Esteri da José Pedro Peréz Llorca, mentre come nuovo ministro per la Comunità europea era stato scelto Eduardo Punset al posto di Calvo Sotelo.
Nel tentativo di sbloccare la situazione, a partire dal mese di novembre Punset intraprese un viaggio nelle capitali europee. Di grande importanza risultò soprattutto la tappa di Parigi, nella quale egli raccolse dai francesi alcune rassicurazioni, cui però non seguirono fatti concreti. Nei mesi successivi l’attenzione dell’Europa nei confronti della Spagna si spostò tuttavia dai negoziati alle vicende interne del paese. Nel gennaio 1981 Suárez presentò le dimissioni da primo ministro, il 12 febbraio si formò un nuovo governo presieduto da Calvo Sutero e il 23 febbraio alcuni uomini della Guardia civil di Madrid, guidati dal tenente-colonnello Tejero, assaltarono il Parlamento con l’obiettivo di reintrodurre nel paese la dittatura militare. La minaccia fu sventata anche grazie al tempestivo intervento di re Juan Carlos a sostegno delle legittime istituzioni, ma l’episodio mostrava drammaticamente la fragilità della giovane democrazia spagnola.
Questa vicenda ebbe naturalmente alcune ripercussioni sullo stesso andamento del negoziato, perché agli occhi di tutti diventava più che mai urgente inserire la Spagna in Europa per evitare possibili derive autoritarie. Di conseguenza, nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe, la Commissione, il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri si espressero tutti in favore di un’accelerazione delle trattative. Ma ancora una volta la Francia finì per svolgere un ruolo frenante, nonostante il recente passaggio di poteri da Giscard d’Estaing a François Mitterrand.
Viceversa le trattative per l’ingresso del paese nell’Alleanza atlantica, prospettiva questa sostenuta con forza dal premier Calvo Sotelo, procedettero senza intoppi, e così, il 16 febbraio 1982, si registrò l’adesione formale della Spagna all’organizzazione, come suo 16° membro. Tuttavia l’opinione pubblica spagnola risultava estremamente divisa su questo punto, tanto da indurre i socialisti a chiedere un referendum popolare in merito a questo controverso tema.
Frattanto, il 28 dicembre 1982, si svolsero le elezioni politiche e il Partido socialista obrero español (PSOE) ottenne una sonante vittoria. Felipe González fu nominato primo ministro e quindi spettò a lui e al suo governo gestire le tappe finali del negoziato di adesione. Il PSOE vantava una solida tradizione europeista e di conseguenza i ministri economici del nuovo esecutivo, Miguel Boyer e Carlos Solchaga in particolare, presero subito le misure necessarie per adattare la struttura economica della Spagna ai parametri richiesti dalla CEE.
Parimenti, un chiaro orientamento europeista mostrò Fernando Morán, il nuovo titolare del dicastero degli Esteri. Egli intuì che l’unico modo per sbloccare la situazione era quello di intraprendere negoziati diretti con la Francia, scavalcando per certi aspetti le stesse sedi comunitarie. Questa strada non sortì tuttavia gli effetti sperati, dato che alla fine del 1983 erano ancora molti i settori su cui non era stato raggiunto alcun accordo, tanto che nei corridoi cominciò a circolare l’ipotesi del 1° gennaio 1986 come data d’ingresso per Spagna e Portogallo. Nell’estate del 1984 risultò però di grande importanza l’approvazione di un Programma comunitario (v. Programmi comunitari) di aiuti ai settori agricoli più arretrati di Francia, Grecia e Italia: grazie a esso furono vinte le ultime resistenze.
In dicembre fu trovato un accordo sulla produzione vinicola – altro tema delicato – ma all’inizio del 1985, dopo 57 sessioni negoziali, restavano aperti ancora sei capitoli (agricoltura, pesca, affari sociali, risorse proprie, Canarie, relazione Spagna-Portogallo). Ma in quel momento anche da parte comunitaria si avvertiva l’esigenza di chiudere questa estenuante trattativa: e così, con un’improvvisa accelerazione finale, il 29-30 marzo 1985, in concomitanza con il Consiglio europeo di Bruxelles, si arrivò all’accordo definitivo. In questo ultimo sforzo giocò un qualche ruolo positivo anche l’Italia con Giulio Andreotti, allora presidente di turno del Consiglio dei ministri.
L’opinione pubblica spagnola seguì con grande attenzione tutta questa vicenda, essendo in massima parte favorevole all’ingresso del proprio paese in Europa. Le Cortes ratificarono questi accordi all’unanimità e così, il 12 giugno 1985, il Trattato di adesione venne solennemente firmato nel Palazzo reale di Madrid. Nel pomeriggio di quello stesso giorno veniva siglato a Lisbona anche il Trattato di adesione del Portogallo: dal 1° gennaio 1986, data dell’entrata in vigore dei due Trattati, Spagna e Portogallo diventavano così l’undicesimo e il dodicesimo membro delle Comunità europee.
Le prime ripercussioni dell’evento si ebbero sul piano economico. In nome della politica agricola comune furono infatti chiesti alcuni sacrifici ai produttori di latte e vino, agli allevatori di bovini e ai pescatori, mentre a livello industriale l’ingresso in Europa comportò la ristrutturazione, e in certi casi anche la dismissione, delle aziende meno competitive (v. anche Politica agricola comune). I benefici non tardarono però a farsi sentire e furono piuttosto rilevanti, se è vero che grazie al mercato comune e ai fondi di coesione nel giro di pochi anni il paese registrò un forte incremento del PIL, riuscì a richiamare notevoli investimenti stranieri, a stabilizzare la peseta e a migliorare perfino il suo welfare.
Contemporaneamente, sul piano politico, si avviava alla conclusione una stagione caratterizzata dal largo consenso tra i partiti sulle tematiche europee. Se infatti i socialisti continuarono a guardare con fiducia a Bruxelles e Strasburgo, l’opposizione di destra, per voce del suo leader Manuel Fraga, passò invece a criticare il governo per il modo in cui aveva condotto i negoziati di adesione. Le rivelazioni dell’Eurobarometro mostravano inoltre l’incremento del livello di Euroscetticismo nel paese, che pur restava in maggioranza europeista.
L’ingresso in Europa favorì poi una più stretta integrazione della Spagna con il mondo occidentale. Così i socialisti abbandonarono il loro tradizionale neutralismo in favore di posizioni filoatlantiche, tanto da arrivare a sostenere la permanenza del paese nella NATO nel referendum del marzo 1986, a dispetto del voto contrario espresso da altri settori della sinistra spagnola. Questo processo si sarebbe completato nel novembre 1988 quando il paese entrò a far parte anche dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO).
All’interno delle Comunità la Spagna si distinse per il suo impegno europeista, trovando in quegli anni una particolare consonanza con la Germania di Helmut Kohl. I suoi rappresentanti nelle istituzioni europee nel 1986 sostennero infatti l’Atto unico europeo, nel 1988 il raddoppio dei fondi strutturali, nel 1989, anno della prima presidenza spagnola della Comunità, l’approfondimento dell’integrazione e l’avvio di una politica estera unitaria. Il Consiglio europeo di Madrid del giugno 1989, anche per merito della presidenza di turno, prese inoltre importanti decisioni in merito all’unione monetaria (v. anche Unione economica e monetaria).
La presidenza spagnola fu molto apprezzata, tanto che l’abolizione con tre anni e mezzo di anticipo dei dazi sulle esportazioni spagnole verso la Comunità, venne unanimemente interpretata come una sorta di premio per aver svolto fino a quel momento un buon lavoro. Un ulteriore riconoscimento per il paese venne rappresentato dall’elezione del socialista Enrique Barón Crespo alla presidenza dell’europarlamento nel luglio 1989, a poco più di un mese di distanza dall’entrata della peseta nel Sistema monetario europeo (SME).
L’avversione del premier britannico Margaret Thatcher impedì tuttavia il progresso di quell’Europa sociale che costituiva uno dei principali obiettivi di González. Nel frattempo, mentre le divisioni interne e vecchi retaggi culturali rallentavano ancora il processo d’integrazione europea, il mondo intorno stava cambiando rapidamente la sua fisionomia: il crollo del Muro di Berlino diventò l’avvenimento emblematico di tale trasformazione. La Spagna osservò con molta attenzione gli eventi che allora interessavano l’Europa orientale, mostrando un atteggiamento aperto nei confronti della Riunificazione tedesca, ma nel contempo non nascondendo qualche preoccupazione nei confronti di un allargamento a Est della Comunità per il timore di veder ridimensionati i finanziamenti di Bruxelles e perdere gran parte degli investimenti privati stranieri.
Nel 1991 la guerra in Iraq costringeva poi il paese a onorare i suoi impegni internazionali nel quadro dell’Alleanza atlantica, consentendo agli USA di utilizzare le basi aeree spagnole e quindi inviando esso stesso nel Golfo persico una fregata e due corvette. Fu però soprattutto con la guerra in Iugoslavia che la Spagna assunse un significativo ruolo internazionale grazie all’invio di un cospicuo contingente di pace.
Per González, tuttavia, risultava assai più importante la partita che si stava allora giocando nella Comunità. Il 7 febbraio 1992 venne infatti compiuto un importante passo nella costruzione dell’Europa grazie alla firma del Trattato di Maastricht. Il leader spagnolo capì che si trattava di una grande occasione per il suo paese, e non ebbe alcun indugio nell’aderire all’Unione economica e monetaria, nonostante i sacrifici che sarebbero stati richiesti ai cittadini per entrare nell’area dell’Euro. Di qui la fama di leader europeista, tanto che negli ambienti comunitari circolava la voce di una sua possibile successione a Jacques Delors alla guida della Commissione.
Nel giro di pochi mesi tuttavia la situazione cambiò radicalmente. Nell’autunno del 1992 la peseta fu infatti vittima della speculazione finanziaria e rischiò addirittura di dover uscire dallo SME, mentre gli ultimi dati economici non sembravano particolarmente buoni, a cominciare dal tasso di disoccupazione che raggiungeva la quota record del 24%. Di conseguenza l’atteggiamento della Spagna nei confronti dei partner comunitari mutò sensibilmente, rivelando una minore spinta ideale e una crescente attenzione alla difesa degli interessi nazionali. Di fatto tra il 1992 e il 1993 la Spagna puntò più volte i piedi in vari Consigli europei, arrivando a barattare il suo consenso all’allargamento a Nord ed Est col raddoppio dei fondi strutturali e la creazione di un Fondo di coesione, del quale avrebbe ampiamente beneficiato.
Anche l’atteggiamento dell’opinione pubblica spagnola era nel frattempo mutato e si registrava nel paese un’ulteriore crescita dell’euroscetticismo. Non deve perciò trarre in inganno il voto quasi plebiscitario con cui il Parlamento aveva ratificato il Trattato di Maastricht: 314 voti a favore, 3 contrari e 8 astensioni, queste ultime tutte provenienti dai banchi di Izquierda unida. Anche in quell’occasione infatti i distinguo e le precisazioni furono molti, mentre risultarono rari gli interventi ispirati da un sincero spirito europeista.
Nel frattempo scandali e corruzione interessarono sempre più da vicino la classe dirigente al potere. Furono coinvolti in questo tipo di vicende personaggi di spicco del Partito socialista come Alfonso Guerra e Carlos Solchaga, mentre lo stesso presidente González risultò implicato nei fatti del Grupo antiterrorista de liberación (GAL), reo di aver utilizzato metodi gravemente illegali nella lotta contro l’ETA. A dispetto di ciò il PSOE vinse ancora le elezioni politiche del giugno 1993, pur perdendo la maggioranza assoluta in Parlamento ed essendo perciò costretto a formare un governo di coalizione con i nazionalisti baschi e catalani.
Anche l’immagine internazionale della Spagna uscì naturalmente danneggiata da queste vicende politico-giudiziarie, ma ciò non impedì al paese di ospitare alla fine del 1995 due eventi di grande rilevanza. In novembre, infatti, si svolse a Barcellona la Conferenza euromediterranea (v. Processo di Barcellona), nella quale si riunirono i rappresentanti di tutti i paesi europei, africani e asiatici che si affacciavano su questo mare. Vi fu un serrato dibattito tra le delegazioni presenti, furono raggiunte alcune significative intese in materia di sicurezza, immigrazione, droga, democrazia e Università, e prese inoltre corpo un progetto di grande importanza relativo alla formazione di un’area di libero commercio, comprensiva di 800 milioni di abitanti, da realizzarsi entro il 2000. In dicembre si tenne invece a Madrid una riunione del Consiglio d’Europa, nel corso della quale si discussero i problemi relativi al passaggio alla terza fase dell’unione monetaria, la nascita dell’euro e il patto di stabilità. Quasi contemporaneamente la Spagna raccoglieva i frutti dei suoi recenti impegni internazionali grazie alla nomina di Javier Solana, leader storico del PSOE e ministro del governo González, a segretario generale della NATO.
Questi successi di politica estera non furono però sufficienti ai socialisti per risalire la china. Così alle elezioni del marzo 1996 il Partido popular di José María Aznar uscì vincitore, sebbene con un risultato inferiore alle aspettative. Il nuovo governo, presieduto dallo stesso Aznar, da un lato continuò quella politica di risanamento economico e finanziario tesa a riportare il paese entro i parametri di Maastricht, dall’altro portò avanti una diversa idea di Europa fondata sugli Stati nazionali, sul consolidamento dell’Alleanza atlantica e della NATO, sulla cooperazione nella Lotta contro il terrorismo. Quest’ultimo punto diventò uno dei cavalli di battaglia di Aznar, tanto che sin dall’avvio della discussione sulla riforma del Trattato di Maastricht, egli chiese espressamente il divieto di asilo tra i partner comunitari, il rafforzamento dell’Ufficio europeo di polizia (Europol) e il potenziamento dello spazio giudiziario europeo.
Ai popolari spettò quindi il compito di varare un piano economico rigoroso per entrare nell’unione monetaria, evitando peraltro di raccogliere i suggerimenti di coloro che, in patria e all’estero, ventilavano la possibilità di una proroga. Questo impegno diede i suoi frutti, dato che nel gennaio 1997 José María Gil-Robles venne eletto presidente del Parlamento europeo, mentre nel maggio successivo l’ECOFIN approvava il piano di risanamento spagnolo.
La grande sfida europea di quell’anno era soprattutto rappresentata dalla riforma dei Trattati di Maastricht, che si concretizzò in giugno nella firma del nuovo Trattato di Amsterdam. Nella fase finale delle trattative Aznar intervenne più volte sia per scongiurare una riforma istituzionale che reputava dannosa per il suo paese sia per garantire i pieni diritti comunitari alle isole Canarie. Alla fine egli ottenne quanto desiderato in nome dell’interesse nazionale spagnolo, ma la sua linea politica rivelava una carenza di respiro europeo.
Non era casuale che la Spagna avesse trovato in quel frangente un alleato nella Gran Bretagna di Tony Blair, tuttavia in altre occasioni Aznar si trovò praticamente isolato, come quando, nel dicembre 1997, durante il Consiglio europeo di Lussemburgo, si oppose strenuamente alle misure contro la disoccupazione sostenute dal premier francese Lionel Jospin. Ma in quegli anni la questione cruciale per la Spagna era quella dei costi dell’allargamento a Est della Unione europea (UE), dato che a Bruxelles circolava l’ipotesi di reperire parte delle risorse riducendo i fondi di coesione. La Spagna fece allora sapere di non essere disposta a cedere su questo punto, avviando così una lunga fase negoziale che si sarebbe conclusa solo nel marzo 1999 col Consiglio europeo straordinario di Berlino, quando fu raggiunto un accordo che per Madrid risultava migliore del previsto e venne approvato, dopo molte dilazioni, il programma “Agenda 2000”.
In quello stesso anno anche la Spagna fu indirettamente coinvolta negli scandali che interessarono la Commissione guidata da Jacques Santer, poiché il suo commissario González Manuel Marín risultava tra i maggiori indiziati insieme alla francese Édith Cresson. Ciò non impedì però al paese di conseguire due nuovi riconoscimenti a livello comunitario con la nomina di Solana a rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) della UE e poi anche a segretario generale della UEO, e con il conferimento a Barón Crespo della presidenza del gruppo socialista nel Parlamento europeo (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo).
Intanto il paese cresceva a un ritmo sostenuto e nella popolazione si era diffuso un certo ottimismo. Alle elezioni politiche del marzo 2000 i votanti premiarono allora il Partido popular (PP), che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi alle Cortes. Questo successo venne interpretato da Aznar anche come un apprezzamento per la linea di politica estera, invero alquanto nazionalista, portata avanti dal suo governo a livello comunitario, e di conseguenza, al Consiglio europeo di Nizza, egli si scontrò nuovamente con gli altri partner sulla delicata questione del numero dei voti in Consiglio. L’altro punto fondamentale della sua visione internazionale consisteva nel suo dichiarato atlantismo, che portò la Spagna a un crescente allineamento con gli USA sia in occasione della guerra del Kosovo sia nell’impostazione delle relazioni con la Cuba di Fidel Castro: la tragedia dell’11 settembre 2001 a suo avviso costituiva un’indiretta conferma della necessità di stringere un rapporto più solidale con l’alleato americano.
Nel primo semestre del 2002 la Spagna tornò a essere protagonista in Europa grazie alla terza presidenza della UE. Per Aznar il periodo non poteva essere più favorevole, poiché l’entrata in vigore dell’euro aveva suscitato notevole entusiasmo nel vecchio continente. Inoltre la Spagna aveva un ulteriore motivo di soddisfazione, dato che Pedro Solbes era allora il commissario europeo agli affari economici e monetari.
Il governo si presentò quindi all’appuntamento con un programma significativamente intitolato Más Europa, che toccava sia i temi dell’approfondimento del processo di integrazione, a partire dalla necessità di dotarsi di una Costituzione, sia l’irrisolta questione del ruolo internazionale della UE, a cominciare da quella prospettiva euromediterranea che sin dagli anni Novanta era stata portata avanti dalla Spagna (v. Partenariato euromediterraneo). Non potevano inoltre mancare i tradizionali riferimenti alla sicurezza: dalla lotta al terrorismo alla prevenzione dell’immigrazione clandestina, sino alla proposta di una Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) da sviluppare, naturalmente, nell’ambito dell’alleanza atlantica.
Al di là di questi buoni propositi, il 2003 segnò invece un momento di grande difficoltà per la UE proprio in relazione alla politica estera. Il conflitto tra Stati uniti e Iraq rese infatti evidente non solo la mancanza di una politica comune, ma un’autentica spaccatura tra gli Stati membri, con Danimarca, Gran Bretagna, Italia, Portogallo e Spagna, insieme a tre paesi candidati a entrare in Europa come Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, che firmarono un documento di sostegno a George W. Bush a fronte di un atteggiamento assai più prudente mostrato nell’occasione da Francia, Germania e dagli altri paesi dell’Unione. In quest’ambito si distinsero in particolare sia Blair che Aznar, fautori della linea dell’appoggio incondizionato alla Casa Bianca.
Questa spaccatura non poteva naturalmente non avere riflessi sulle altre questioni allora sul tappeto in Europa, a cominciare dalla Costituzione europea. Riguardo alla nuova ripartizione dei voti nel Consiglio dell’Unione, si creò infatti un’inedita alleanza tra Spagna e Polonia – quest’ultimo, paese di prossima adesione – al fine di scongiurare un tipo di rappresentanza rigorosamente proporzionale al numero degli abitanti degli Stati membri. Tale alleanza, rafforzata dal sostegno offerto dalla Gran Bretagna, riuscì a far naufragare il primo tentativo di dotare l’Europa di una Costituzione, nonostante si fosse contrapposta a essa un’ampia maggioranza di paesi che gravitavano intorno all’asse franco-tedesco.
Questa volta Parigi e Berlino non erano però disposte a cedere, tanto da minacciare la Spagna di ritorsioni in campo economico e finanziario. Tuttavia, mentre questa delicata partita era in corso, la situazione cambiò improvvisamente a causa degli attentati terroristici che l’11 marzo 2004, a Madrid, causarono 191 morti e oltre 1500 feriti. Alle elezioni politiche, svoltesi a soli tre giorni di distanza da quella tragedia, i socialisti vinsero infatti inaspettatamente, e il nuovo premier, José Luis Rodríguez Zapatero, impostò subito in modo diverso i rapporti con i partner europei, mostrando un atteggiamento più collaborativo che favorì, nel giugno successivo, la firma del Trattato costituzionale della nuova Europa a Venticinque. Il suo dichiarato europeismo non gli impedì comunque, anche in quella occasione, di portare a casa risultati positivi per il suo paese, che ottenne allora un aumento del numero dei deputati, il riconoscimento dello spagnolo come lingua coufficiale e la conferma di una serie di diritti e garanzie anche per le isole Canarie.
In Europa tutto sembrava procedere allora per il meglio, verso una più stretta integrazione. La Spagna contribuì a questo risultato grazie al dinamismo impresso alla UE in politica estera da Solana, al lavoro svolto dal nuovo presidente del Parlamento europeo José Borell e soprattutto grazie a una celere approvazione, per via referendaria, del Trattato costituzionale. In tale occasione si recarono infatti alle urne il 57,7% degli elettori e il 76,6% dei votanti si espresse favorevolmente. Nulla, insomma, lasciava in quel momento intravvedere all’orizzonte quella crisi che avrebbe di lì a poco sconvolto il panorama europeo con il doppio voto negativo espresso in analoghe consultazioni dai cittadini francesi e olandesi.
Nella seconda metà del 2005 la UE accusò il colpo e la sua attività politica rimase di fatto paralizzata. Tutto sarebbe diventato più difficile: dall’approvazione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) per il periodo 2007-2013 alle trattative in corso con la Turchia e altri paesi aspiranti a entrare nella UE. Nel 2006 il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro belga Guy Verhofstadt, ai quali si associarono poi i rappresentanti di altri paesi a cominciare dall’Italia di Romano Prodi e Giorgio Napolitano, in realtà provarono a rilanciare il processo d’integrazione europea proprio attraverso la ratifica di un Trattato costituzionale, eventualmente emendato nei punti più controversi, ma la strada apparve subito estremamente tortuosa.
Il pericolo era naturalmente quello di un accordo al ribasso, che snaturasse il testo iniziale. In questa vicenda giocò un ruolo importante la Spagna di Zapatero, che nel gennaio 2007 ospitò a Madrid i rappresentanti dei paesi che avevano già ratificato il Trattato costituzionale, proprio per scongiurare una soluzione minimalista. In tal senso si espresse chiaramente il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, che invitò i convenuti a respingere l’ipotesi di approvare solo la parte del testo relativa alle riforme istituzionali, perché a suo avviso «essa non rappresentava da sola la sostanza del Trattato». Questa posizione era del resto condivisa da quasi tutti i paesi europei, tuttavia quando la questione costituzionale venne nuovamente affrontata nel Consiglio europeo di Bruxelles, svoltosi nella capitale belga nel giugno 2007, bastò l’opposizione di soli due Stati membri, cioè la Gran Bretagna di Blair e la Polonia dei gemelli Lech e Jarosław Kaczynski, per affossare ancora una volta il progetto.
Ma si trattava solo di un rinvio. Infatti, com’è noto, il nuovo Trattato venne dapprima approvato in un vertice informale a Lisbona il 18 ottobre 2007, e poi fu firmato dai capi di Stato e di governo, sempre nella capitale portoghese, il 13 dicembre 2007. La Camera e il Senato spagnolo ratificarono quindi il Trattato nell’estate del 2008, quasi all’unanimità, (favorevoli il PSOE, il PP, i catalanisti Convergència i Unió, i baschi del PP e alcune formazioni minori; contrari IU e piccoli partiti regionalisti).
Questo successo rafforzò ulteriormente la leadership di Zapatero, che nel marzo 2008 aveva vinto per la seconda volta consecutiva le elezioni politiche. Ma con la crisi economica, che anche in Spagna mostrava i primi segni proprio in quei mesi, il clima mutò rapidamente. Zapatero fu infatti costretto a una politica dei tagli della spesa pubblica e del walfare che in breve tempo gli alienò il sostegno dei sindacati e della maggioranza dei suoi concittadini: il PSOE fu pertanto sconfitto alle elezioni europee del giugno 2009, vinte dal PP di Jaime Mayor Oreja. La scarsa partecipazione al voto, scesa al minimo storico del 44,9%, evidenziava tuttavia anche una minor sintonia tra gli spagnoli e l’Unione europea.
Le difficoltà economiche indebolirono inoltre l’immagine del Paese a livello internazionale. Così, quando nel primo semestre del 2010 spettò alla Spagna la presidenza di turno dell’UE – seppure in coabitazione con il belga Herman Van Rompuy, presidente permanente del Consiglio europeo – Zapatero non fu sostanzialmente in grado di imporre agli altri Stati membri, e alla Germania in primis, un ambizioso programma d’azione che spaziava dalla piena attuazione delle riforme previste dal Trattato di Lisbona all’adozione di misure straordinarie in risposta alla crisi economica, dall’approvazione della “Strategia 2020” per un nuovo modello di sviluppo a un maggiore dinamismo nella politica estera, da un piano comune contro la violenza alle donne e per l’uguaglianza dei sessi al sostegno all’ingresso della Turchia.
Il peggio doveva tuttavia ancora arrivare. A causa del rischio default, la Spagna venne infatti praticamente commissariata dall’Eurogruppo (i ministri delle Finanze della zona euro). Le misure di austerity adottate non sortirono però gli effetti sperati, e di conseguenze, a fronte dell’aggravarsi della crisi, nell’estate 2011 Zapatero fu costretto a presentare le sue dimissioni da capo del governo e a indire nuove elezioni per l’autunno. Come era facile immaginare dalle urne uscì vincitore il Partido popular di Mariano Rajoy, che ha poi affidato il delicato ministero del Tesoro a Luis de Guindos, ex presidente in Spagna di Lehman Brothers.
In questo contesto − come rilevano alcuni sondaggi − a fronte di una scarsa solidarietà verso Madrid da parte degli altri Paesi dell’Unione, anche in Spagna l’euroscetticismo ha finito per guadagnare terreno.
Guido Levi (2012)