Trattati di Roma
I Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), passati alla storia come “Trattati di Roma”, dal nome della capitale italiana in cui furono firmati il 25 marzo 1957, designano l’atto di nascita del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea), nonché l’inizio di un nuovo corso dell’integrazione continentale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).
Con tale evento trovava infatti compimento il cosiddetto rilancio europeo, seguito al fallimento della Comunità europea di difesa (CED) e della Comunità politica europea (CPE) che aveva compromesso il cammino comune. Abbandonate le aspirazioni più propriamente politiche, i leader dei sei paesi “fondatori” – Francia, Repubblica Federale Tedesca (v. Germania), Italia, Benelux – ripartivano dal terreno economico e da un Funzionalismo che, pur improntato alla lezione monnetiana, privilegiava un’integrazione dei mercati non più settoriale, ma di carattere generale. Sul piano istituzionale, i governi ottenevano poteri ben maggiori rispetto alla funzione sovranazionale riconosciuta all’Alta autorità dal Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, (CECA) (v. Trattato di Parigi), nata nel 1951. Furono questi, in sostanza, i criteri adottati per dar vita alla CEE, designata a incarnare l’essenza della Comunità, laddove l’Euratom, destinata a modesta fortuna, rispondeva più fedelmente al settorialismo di Jean Monnet, che ne era stato il promotore.
Premesse
Nell’agosto del 1954, l’Assemblée nationale di Palazzo Borbone, rinviando sine die la ratifica del Trattato della CED – peraltro proposto dal governo parigino stesso e sottoscritto nel maggio del 1952 – pose i governi dei Sei dinanzi a un crocevia: o rinnovare i tentativi di giungere a un’unione di tipo federale (v. Federalismo), come esigeva la maggioranza degli europeisti militanti (v. Movimento federalista europeo; Movimenti europeistici), o ripiegare sul metodo intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa). Insieme al progetto dell’esercito comune tramontava infatti anche la Comunità politica europea (CPE), patrocinata da Alcide De Gasperi, a sua volta interprete delle sollecitazioni di Altiero Spinelli. L’autore del Manifesto di Ventotene, infatti, aveva suggerito al presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano di trasformare l’Assemblea della CED in un organo rappresentativo eletto a suffragio universale, dotato di poteri di controllo politico, nonché di controllo del bilancio. De Gasperi, dopo aver presentato la proposta al Consiglio d’Europa nel dicembre del 1951, riuscì a ottenere dai Cinque l’inserimento nel Trattato CED del comunemente noto art. 38, il quale affidava a un’Assemblea ad hoc, cioè «all’Assemblea della CECA opportunamente integrata», la redazione del progetto di Statuto della Comunità politica europea (CPE), anch’esso destinato a cadere nell’agosto del 1954 (v. Monaco, 1975, p. 10).
In realtà, già nel 1953, con i primi spiragli di distensione tra Est e Ovest, apertisi con la morte di Josif Stalin, e con la cessazione delle ostilità in Corea, il senso di urgenza di un’integrazione militare dell’Europa aveva registrato una sensibile attenuazione. Inoltre, la pesante sconfitta subita dalla Francia in Indocina nel maggio del 1954, prefigurando il crollo dell’impero coloniale francese, induceva il governo del leader radicale Pierre Mendès France, già di per sé poco entusiasta dell’Europa federale, a una certa tiepidezza sul tema della CED. L’accentuazione del carattere nazionale della politica di Parigi finì probabilmente per influire sull’atteggiamento dell’Assemblea nazionale nei confronti della ratifica del Trattato.
Venendo meno l’apporto francese, fino a quel momento motore della costruzione comunitaria, la politica europea tornava su registri più tradizionali. La ripresa del modello “confederale” sembrò confermata il 23 ottobre 1954, allorché i governi dei Sei ripiegarono sulla proposta inglese di un accordo a carattere diplomatico per risolvere il problema della difesa comune, ivi comprese la questione del riarmo tedesco e l’adesione della Germania alla Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico NATO (North Atlantic treaty organization). In pratica, aggiungendo un protocollo al preesistente Trattato di Bruxelles, con il quale, il 17 marzo del 1948, Gran Bretagna, Francia e paesi del Benelux avevano dato vita a un’alleanza militare in funzione antitedesca, veniva creata una nuova organizzazione, l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), che comprendeva anche la Repubblica Federale Tedesca (RFT) e l’Italia.
A prendere l’iniziativa dell’integrazione sovranazionale furono i cosiddetti paesi piccoli, ossia i tre Stati del Benelux, sostenuti dall’Italia, sia pure priva dell’europeista De Gasperi, la cui morte, il 19 agosto del 1954, aveva significativamente anticipato la caduta della CED.
La firma del trattato CECA aveva consentito al Benelux l’ingresso nel nuovo policy making internazionale su un piano di pari dignità rispetto ai grandi Stati europei. E parimenti l’adesione al pool carbosiderurgico aveva proiettato un paese povero, diviso e sconfitto come l’Italia sul palcoscenico europeo e occidentale.
Jean Monnet prese comunque parte attiva alla fase di rilancio. Profondamente amareggiato per l’affossamento del progetto di difesa comune, provocato dal suo stesso governo, il padre del funzionalismo seppe riconoscere in Paul-Henri Charles Spaak, ministro degli Esteri belga e convinto europeista, il candidato ideale ad assumere la responsabilità politica dell’iniziativa.
Difatti il socialista Spaak avrebbe mostrato di avere il carisma necessario a condurre la Comunità fuori dall’impasse. Consapevole dell’efficacia di un’azione congiunta fra i “piccoli”, egli convocò immediatamente i due ministri degli Esteri olandese e lussemburghese, Johan Willem Beyen e Joseph Bech, con i quali condivideva una sostanziale conformità di vedute e un’esperienza di concertazione sulle questioni di politica europea, invitandoli ad elaborare una proposta comune da presentare ai governi della CECA (v. anche Comitato Spaak).
Il Memorandum del Benelux
Il passaggio dalla fase di progettazione alla stesura di un documento definitivo ebbe tempi eccezionalmente brevi: già il 18 maggio 1955 il “Memorandum del Benelux” raggiungeva le cancellerie dei Sei. In linea con i suggerimenti di Jean Monnet, il quale continuava a operare nelle retrovie, il testo individuava nel settore economico l’ambito che fino a quel momento si era rivelato più consono a favorire l’integrazione.
Il Memorandum indicava due strategie parallele per la rinascita della Comunità. La prima mirava a realizzare un’unione economica generale, fondata su un’Unione doganale e su un mercato comune, sotto la guida di «un’Autorità sovranazionale, dotata di propri poteri», secondo il modello della CECA, seppur parzialmente modificato, come già ricordato (v. Fondation Paul-Henri Spaak, 1987, pp. 25-29). La proposta, già avanzata da Beyen durante i negoziati per la CPE, era indirizzata a sostituire l’integrazione settoriale di matrice monnetiana con un approccio ugualmente funzionalistico e gradualistico, ma di tipo orizzontale, ossia aperto all’intero mercato. Inoltre, Beyen, rappresentante di uno tra i paesi che maggiormente aveva sostenuto l’istituzione del Consiglio dei ministri della CECA, era orientato a garantire l’autonomia decisionale dei singoli Stati nel contesto comunitario (v. Rapone, 2005, p. 22).
La seconda strategia, promossa a gran voce da Spaak, ricalcava, di fatto, un’idea di Monnet e rilanciava l’integrazione propriamente settoriale. La proposta consisteva nell’estendere le competenze della CECA al terreno dei trasporti e delle fonti energetiche, con particolare riferimento all’energia atomica. L’utilizzo del nucleare per fini pacifici costituiva infatti uno tra i temi più dibattuti sulla scena mondiale ed era particolarmente caldeggiato dal padre del funzionalismo come polo di attrazione dal quale far ripartire il processo comunitario.
Dopo aver illustrato la struttura e i riferimenti metodologici dei due piani di intervento, il Memorandum indicava il primo passo da compiere in direzione del rilancio europeo. Si raccomandava infatti di convocare una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) – aperta alla partecipazione, oltre che dei paesi della CECA, anche dei membri dell’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE) e dei paesi associati alla Comunità – incaricata di provvedere alla stesura dei testi dei Trattati, nonché alla compilazione di un calendario dettagliato per il completamento dell’Unione doganale – che il ministro olandese Beyen aveva indicato quale premessa imprescindibile per avviare la ricordata integrazione economica generale (v. Griffiths, 1990, p. 178). La Conferenza avrebbe peraltro stilato un profilo delle politiche da adottare in comune sul terreno sociale, dei trasporti e dell’energia nucleare.
Il Memorandum del Benelux fu accolto con estremo favore dai governi italiano e tedesco, interessati a salvaguardare il processo di integrazione, sia per ragioni politiche, sia per assicurare la rapida crescita economica dei rispettivi paesi. Inoltre essi ritenevano che un’organizzazione europea per lo sfruttamento dell’energia atomica per scopi pacifici, con il suo ingente potenziale di sviluppo, inducesse la Francia a sciogliere le perplessità e ad aderire al progetto di integrazione economica generale.
A Parigi, peraltro, cresceva progressivamente uno stato d’animo di favore nei confronti di un funzionalismo “prosciugato” degli elementi più lesivi della sovranità nazionale, come suggerito dall’infaticabile Monnet.
Di fatto, le previsioni ottimistiche del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino si rivelarono ampiamente fondate. Alla fine di maggio 1955, infatti, il Quai d’Orsay, pur tra le decise rimostranze dei gollisti, approvò il Memorandum in tutte le sue parti.
La Conferenza di Messina
Di lì a pochi giorni, il 1° giugno, si apriva la Conferenza di Messina, convocata dal ministro Martino e divenuta presto un simbolo del rilancio europeo. La città siciliana, infatti, ospitò la prima riunione dei ministri degli Affari esteri dei Sei e di esperti indipendenti interamente dedicata alla progettazione di una nuova Comunità. Pur adottando le linee guida del Memorandum del Benelux, il consesso si mosse con estrema cautela sui contenuti, ma anche con pragmatismo e tempestività. Il risultato forse più importante fu la decisione di istituire subito un comitato preparatorio, con sede a Bruxelles, presieduto da Spaak e incaricato di studiare le possibilità di realizzazione sia della futura integrazione parziale – estesa cioè ai «trasporti, alle fonti di energia e, in particolare all’energia atomica» (v. Fondation Paul-Henri Spaak, 1987, pp. 25-29) – sia del mercato comune.
Il carisma del ministro belga plasmò la struttura e le operazioni del Comitato, messosi all’opera già il 9 luglio successivo. Al termine dei lavori, conclusi il 21 aprile 1956, Spaak era in grado di presentare un rapporto sulla fusione progressiva dei mercati europei e l’istituzione di una comunità dell’energia atomica. Il testo, concordato con i capi delegazione, conteneva un’analisi precisa della situazione economica mondiale e una serie di proposte dettagliate, miranti a rendere competitiva la produzione europea in campo internazionale.
Il Rapporto Spaak – così denominato per sottolineare il ruolo centrale assunto dal presidente del Comitato – avrebbe così costituito l’architettura programmatica delle successive conferenze intergovernative fra i Sei, che ebbero luogo rispettivamente a Venezia (29 e 30 maggio 1956) e a Bruxelles (26 giugno 1956).
In prima battuta, i negoziatori ritennero che la proposta di una nuova Comunità dedicata all’energia nucleare fosse, tra le due, quella destinata ad avere maggior successo. Non soltanto perché appariva più rapida da attuare rispetto al completamento del MEC, ma anche e soprattutto perché la crisi di Suez (scoppiata nel luglio del 1956) aveva improvvisamente modificato l’agenda politica mondiale, ponendo ai primi posti la questione della sicurezza delle fonti energetiche. Tanto più che a osteggiare la creazione del mercato comune concorreva la diffusa mentalità protezionista dei governi e dei gruppi economici europei, contro la quale si era già infranto il progetto di unione doganale lanciato nel 1952 da Beyen (v. Rapone, 2005, p. 23).
Tuttavia, a mettere fuori causa le più tenaci resistenze all’integrazione economica generale furono i successivi rivolgimenti del contesto internazionale. Nella fattispecie, l’intervento dell’URSS in Ungheria, nel novembre del 1956, esigeva un rapido rafforzamento della Comunità dei Sei, anche come modello alternativo all’imperialismo sovietico. Risultava evidente infatti che la sola CECA, come già prospettato dai tre governi del Benelux nel Memorandum, non era adeguata a «mantenere all’Europa il posto che occupa nel mondo, ad esercitare la sua influenza e ad accrescere progressivamente il livello di vita della sua popolazione» (v. Fondation Paul-Henri Spaak, 1987, pp. 25-29).
A Roma
Sarebbe stata la sala degli Orazi e dei Curiazi del Palazzo dei Conservatori, sulla collina del Campidoglio, ad accogliere il celebre incontro dei rappresentanti dei Sei, avvenuto a Roma il 25 marzo del 1957. Nella solenne occasione vennero firmati i Trattati istituitivi delle due nuove Comunità, la CEE e l’Euratom, che entrarono in vigore il 1° gennaio 1958.
Di fatto, con i Trattati di Roma si consacrava la volontà politica dell’Europa di superare le resistenze nazionali e di dare sostanza all’integrazione.
Individuato nello sviluppo economico il motore del consenso e del comune interesse, la Comunità si accingeva finalmente a compiere passi concreti in tema di generale liberalizzazione degli scambi commerciali, di coordinamento della produzione, di politiche comuni (per lo meno alcune) nonché, in prospettiva funzionalistica, di istituzioni condivise.
A siglare i Trattati di Roma furono due rappresentanti per ciascuno dei Sei. Nel dettaglio, il ministro degli Affari esteri Paul-Henri Spaak e il capo delegazione, nonché segretario generale del ministero degli Affari economici Jean Charles Snoy et d’Oppuers per il Belgio; il cancelliere Konrad Adenauer e il segretario di Stato agli Affari esteri Walter Hallstein per la Repubblica federale tedesca; il ministro degli Affari esteri Christian Pineau e il sottosegretario di Stato agli Affari esteri Edgar Faure per la Francia; il presidente del Consiglio Antonio Segni e il ministro degli Affari esteri Gaetano Martino per l’Italia; il primo ministro e ministro degli Affari esteri Joseph Bech e il capo delegazione Lambert Schaus per il Lussemburgo; il ministro degli Affari esteri Joseph Luns e il capo delegazione Johannes Linthorst Homan per i Paesi Bassi.
Nel preambolo del Trattato CEE, i firmatari dichiaravano la propria determinazione a «porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta fra i popoli europei», da realizzare attraverso l’eliminazione, sia delle barriere economico-commerciali tra gli Stati membri, sia delle disparità esistenti a livello politico-sociale, in un quadro di promozione dello sviluppo equilibrato (“armonioso”) delle attività economiche, nonché di crescita solidale degli standard di vita delle popolazioni.
Nell’ottica di Spaak, e non solo, Roma segnava un passaggio fondamentale della storia europea, l’inizio di un’epoca in cui le trasformazioni radicali nei rapporti tra gli Stati non avrebbero implicato l’uso della forza, ma avrebbero fatto leva su una pratica consolidata di concertazioni pacifiche e solidali.
Articolazione e contenuto dei Trattati di Roma
I Trattati CEE ed Euratom, composti rispettivamente da 240 e 225 articoli, erano entrambi suddivisi in sei parti distinte – denominate “titoli” nel Trattato Euratom – precedute da un preambolo. Inoltre, ambedue i trattati comprendevano rispettivamente quattro e cinque allegati e dodici e due protocolli. Simili nella struttura, i due testi presentavano specifiche caratterizzazioni sotto i profili contenutistico e tecnico-economico.
Le sei parti che componevano il Trattato CEE concernevano essenzialmente i principi e i fondamenti della Comunità (prima e seconda parte); le politiche (terza parte); l’associazione dei paesi e territori d’oltremare (quarta parte) (v. Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea); le Istituzioni comunitarie (quinta parte); le disposizioni generali e finali (sesta parte).
Per quanto riguarda i principi fondanti e gli obiettivi generali, illustrati rispettivamente nella parte prima del Trattato CEE, essi richiamavano essenzialmente il concetto di mercato comune, nel quale confluivano le nozioni di comunità tariffaria, comunità doganale, unione doganale e unione economica. Quest’ultima, in particolare, contemplava l’eliminazione degli ostacoli alla Libera circolazione delle persone, alla Libera circolazione delle merci, alla Libera circolazione dei capitali e alla Libera circolazione dei servizi, cioè le quattro libertà fondamentali, elemento costitutivo e imprescindibile della costruzione comunitaria. (v. Monaco, 1975, p. 290).
Tra gli obiettivi comunitari di maggior rilievo, occupava un posto di primo piano la creazione di un regime di salvaguardia della libera concorrenza (v. anche Politica europea della concorrenza), disciplinata nella parte terza, titolo I. Il Trattato CEE, in particolare, sanciva l’abolizione dei monopoli, dei cartelli, delle intese e di tutte le pratiche miranti alla prevenzione, alla restrizione o alla distorsione della concorrenza nel quadro del Mercato comune (v. Publishing services of the European communities Luxembourg, s.d., pp. 5-183).
Con riferimento alle politiche, tema affrontato nella parte seconda e nella parte terza del Trattato CEE, l’attività di coordinamento veniva avviata in due grandi campi: quello dell’agricoltura (v. Politica agricola comune) (parte seconda, titolo II, artt. 38-47) e quello dei trasporti (v. Politica comune dei trasporti) (parte seconda, titolo IV, artt. 74-85). Meno precisata, per quanto esplicitamente menzionata nel testo, la politica commerciale comune.
Nel primo settore, elemento basilare dell’economia degli Stati membri e per il cui funzionamento e sviluppo si rendeva necessario instaurare una «politica agricola comune» (ibid.), si provvedeva a introdurre una disciplina uniforme in materia di produzione e di utilizzo del fattore lavoro. Gli obiettivi principali erano: assicurare adeguati standard di vita per la popolazione agricola; stabilizzare i mercati; garantire regolari approvvigionamenti e prezzi ragionevoli per i consumatori.
Relativamente ai trasporti, terreno destinato ad assumere un’incidenza progressivamente più significativa nell’ambito del MEC, il Trattato predisponeva regole comuni «applicabili ai trasporti internazionali effettuati da o verso uno o più Stati membri» (ibid.). Va precisato che nel testo venivano considerati esclusivamente i settori ferroviario, stradale e le vie navigabili, mentre erano assenti i riferimenti ai trasporti aerei e marittimi.
Nella parte terza, capitolo III, artt. 110-116, veniva quindi inaugurata una politica commerciale comune, volta a disciplinare la materia degli scambi tra gli Stati membri e tra questi e i paesi terzi, con l’obiettivo di intensificare lo sviluppo armonioso del commercio internazionale (ibid.).
Per quanto attiene all’associazione con i Paesi e territori d’oltremare (PTOM), obiettivo reclamato a gran voce dalla Francia nella fase preparatoria dei Trattati di Roma, essi comprendevano quei paesi che avevano speciali relazioni con Belgio, Francia, Italia e Olanda, cioè, in breve, i possedimenti coloniali dei quattro Stati membri. Nell’intento di promuovere lo sviluppo economico e sociale di questi territori e di intensificare le relazioni commerciali tra gli stessi territori e la Comunità, il Trattato, in estrema sintesi, stabiliva che gli scambi commerciali e i rapporti economici reciproci sarebbero stati regolati da norme identiche a quelle applicate nell’ambito della Comunità.
Infine, nella parte quinta, capitolo III, titolo II, artt. 199-209, il Trattato concerneva le questioni finanziarie e di bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), prevedendo che, dopo un periodo di transizione durante il quale la Comunità si sarebbe finanziata mediante i contributi dei singoli Stati membri, sarebbe entrato in funzione un sistema di Risorse proprie. A tal fine, il Trattato incaricava la Commissione europea di studiare una proposta da sottoporre all’approvazione del Consiglio dei ministri. A segnare definitivamente il passaggio dai contributi nazionali al finanziamento autonomo della Comunità fu la decisione del Consiglio del 21 aprile 1970.
Decisamente meno complessa l’architettura del Trattato Euratom, la quale, come accennato, constava di sei titoli, rispettivamente dedicati alle sette missioni, ovverosia agli obiettivi principali della Comunità; al tema del progresso nel campo dell’energia nucleare; alle istituzioni; alle disposizioni finali e alle disposizioni per il periodo iniziale.
Per lo più inerente a questioni di carattere tecnico, il Trattato Euratom sostanzialmente intendeva promuovere l’integrazione delle industrie nucleari degli Stati membri della Comunità. Nel dettaglio, il fine era quello di realizzare programmi comuni di sviluppo e ricerca nel settore dell’energia nucleare, con particolare riferimento al miglioramento delle conoscenze tecniche, delle norme di sicurezza e di tutela della salute della popolazione e dei lavoratori, nonché agli investimenti, alla costruzione di impianti di produzione e alla garanzia degli approvvigionamenti delle risorse.
Struttura istituzionale della CEE e dell’Euratom
Come accennato, il profilo istituzionale delle due Comunità create a Roma, delineato rispettivamente nella parte V del Trattato CEE e nel titolo III del Trattato Euratom, ricalcava essenzialmente il modello della CECA.
In primo luogo, si istituiva un’Assemblea parlamentare unica (v. Parlamento europeo), con sede a Strasburgo (v. anche Sedi istituzionali), rappresentata dai delegati dei parlamenti nazionali e preposta a esercitare funzioni prevalentemente consultive e di controllo. In particolare, ciascuno Stato membro avrebbe avuto un numero prefissato di rappresentanti in seno all’Assemblea, calcolato sulla base delle dimensioni del singolo Stato: 14 per Belgio e Olanda; 36 per Francia, Germania e Italia; 6 per il Lussemburgo.
Secondo talune interpretazioni, su questa istituzione si rifletteva chiaramente l’impostazione funzionalistica sottesa ai Trattati di Roma. Almeno in un punto, infatti, quello della facoltà di votare la censura alla Commissione, oltre che nella definizione di “rappresentanti dei popoli”, emergeva la potenzialità di un rapporto legislativo-esecutivo, proprio dei governi parlamentari e delle istituzioni democratiche vigenti negli Stati sovrani, il quale avrebbe potuto attribuire nel tempo a tale organismo ben altro peso rispetto a quello attribuito all’assemblea del Consiglio d’Europa, destinata a rimanere per sempre consultiva e composta di membri non eletti. Di fatto, l’evoluzione delle competenze, dei poteri e della legittimazione democratica di questo organismo – si prevedeva espressamente l’elezione a suffragio universale diretto dei suoi membri (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) – veniva rimessa dal Trattato a un futuro non precisato.
Tutt’altro peso veniva attribuito a un organo intergovernativo, il Consiglio dei ministri, i cui componenti erano designati direttamente dai governi nazionali, uno per Stato membro, e si riunivano in diverse formazioni, a seconda degli argomenti oggetto della seduta. Al Consiglio si conferiva il potere di decisione in merito alla normazione comunitaria, nonché la funzione di assicurare il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Le deliberazioni del Consiglio si presentavano in forme differenti: i regolamenti, immediatamente esecutivi in tutti gli Stati membri; le direttive (v. Direttiva), per le cui modalità di attuazione veniva lasciata autonomia decisionale al singolo governo nazionale; le decisioni (v. Decisione), riguardanti soltanto uno o più Stati membri. Peraltro, la votazione a Maggioranza qualificata, prevista per le decisioni di tale organismo, comportava il superamento del principio dell’unanimità (v. Voto all’unanimità) e del diritto di veto, con il risultato di inserire il Consiglio in un Processo decisionale con aspetti di sovranazionalità, quale quello comunitario, che risultava innovativo, ovvero sui generis, rispetto a ogni consesso internazionale sperimentato nel passato. A riprova, il venir meno del diritto di veto sarebbe stato di lì a poco contestato dalla Francia gollista, che finì per imporre il cosiddetto Compromesso di Lussemburgo.
Creazione del tutto originale dei Trattati di Roma era la Commissione, cui veniva formalmente riconosciuta l’esclusività dell’iniziativa legislativa, nonché il compito di assicurare l’esecuzione della legislazione e l’applicazione delle disposizioni dei Trattati. Inizialmente suddivisa in tre diversi organismi – Commissione CEE, a nove membri, Commissione Euratom, a cinque, e Alta autorità della CECA – la Commissione sarebbe stata raccolta in un unico consesso nel 1967 (fusione degli esecutivi). Organismo a carattere collegiale e composto da membri indipendenti, nominati congiuntamente (e in modo irrevocabile) dai governi per una durata di quattro anni, questo organo rappresentava – e rappresenta a tutt’oggi – il momento sovranazionale della Comunità. La Commissione emergeva, in altre parole, come il “motore dell’integrazione”, operante sotto la guida del suo presidente. Il primo, molto autorevole e destinato a scontrarsi con il generale Charles de Gaulle, sarebbe stato il tedesco Walter Hallstein, ex segretario di Stato assai vicino ad Adenauer.
Infine, sempre in analogia con il complesso istituzionale del Trattato CECA, a una Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), formata da sette giudici «di incontestabile indipendenza» assistiti da due avvocati generali, spettava il compito di garantire l’osservanza delle normative e la corretta interpretazione ed applicazione dei trattati (v. anche Diritto comunitario, applicazione del). Grazie al suo ruolo di tutela dei trattati e mediante le sue sentenze, la Corte avrebbe finito per imporre la superiorità del Diritto comunitario su quello nazionale. Un processo favorito dal fatto che i Trattati di Roma, diversamente da quello della CECA, non prevedevano una scadenza alle due Comunità, le quali risultavano pertanto irreversibili.
Del tutto inedite, accanto agli organismi principali e al Comitato economico e sociale, con status consultivo, si profilavano le strutture create per favorire la graduale riduzione delle disparità economiche tra i Sei, rendendo più agile lo sviluppo e il funzionamento delle due Comunità: il Fondo sociale europeo, la Banca europea per gli investimenti.
Con la firma dei Trattati di Roma, la struttura comunitaria, inizialmente formata dalla sola CECA, si dotava di due nuove Comunità, la CEE e l’Euratom, ognuna con proprie caratteristiche e con propri ambiti di intervento ben differenziati.
Conclusioni
L’analisi dell’impalcatura istituzionale progettata dai Trattati CEE ed Euratom rivela, con una certa limpidezza, le lacune e le imperfezioni della struttura congegnata dai Sei nel corso di due anni di contrattazioni. In effetti, le due Comunità istituite dai Trattati di Roma riflettevano la faticosa opera di concertazione in cui i delegati si erano impegnati tra il 1955 e il 1957, tentando di concepire l’edificio europeo come insieme coerente e capace di soddisfare esigenze comuni.
La stessa natura costitutiva del Trattato CEE, del resto, cioè quella di “Trattato quadro” – nel quale erano precisati soltanto gli obiettivi finali, senza predisporre tempi di attuazione né contenuti normativi –, fu il risultato di una laboriosa negoziazione. A esclusione di un ben articolato prospetto, comprensivo di regolamentazione e calendario, dell’Unione doganale – indicata, secondo il dettato di Beyen, come primo passo verso la perfetta integrazione economica –, infatti, il testo demandava interamente alle nuove istituzioni la definizione degli adattamenti legislativi necessari alla creazione del mercato comune. E con tale disposizione, peraltro, si delineava quel contesto di negoziato permanente destinato a divenire parte integrante prima della Comunità e, dal 1992, dell’Unione europea.
Trattandosi di una soluzione di compromesso, inoltre, era inevitabile che la nuova architettura scricchiolasse sotto i colpi del nazionalismo gollista, allorché il generale de Gaulle – tornato all’Eliseo a poco più di un anno di distanza dalla firma dei Trattati di Roma – tentò di riorganizzare l’Europa secondo il modello confederale.
Ma fu proprio in quella circostanza che la CEE, pur vacillando a tratti, dimostrò di possedere solide fondamenta, tanto da superare il periodo di de Gaulle mantenendo la sua componente sovranazionale pressoché inalterata. Un’ulteriore conferma, nondimeno, di quanto elevato fosse il valore sostanziale delle iniziative promosse e quanto accorta fosse stata la manovra politico-diplomatica effettuata dagli artefici del rilancio europeo. Per non dire della capacità di questi personaggi – Monnet, Spaak, Beyen e Martino – di aver saputo intravedere, in una Comunità europea apparentemente destinata alla dissoluzione, l’embrione di una struttura sensibilmente più compatta rispetto al passato. E a ragione, visto che, a partire dalla sua entrata in funzione, la CEE seppe imporre progressivamente la sua presenza nel contesto bipolare, presentandosi nella veste di fattore determinante di crescita politico-economica per i paesi membri.
Il senno di poi ci induce infatti a riconoscere che fu proprio la Comunità economica europea la chiave di volta del processo di unificazione continentale. Già la realizzazione dell’unione doganale – cioè l’abolizione dei dazi e dei contingentamenti al commercio intereuropeo e l’istituzione di una Tariffa esterna comune – attuata peraltro in anticipo rispetto ai termini prefissati dal Trattato, costituiva un traguardo eccellente. Giungeva infatti a completamento di quel lungo percorso verso la liberalizzazione degli scambi che l’Europa aveva intrapreso fin dall’immediato dopoguerra e, al contempo, proiettava la Comunità verso un’effettiva unità economica, fondata sulle cosiddette “quattro libertà” (libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali) e sull’Armonizzazione delle politiche commerciali degli Stati membri (v. Mammarella, 2000, p. 294). Un risultato che, nondimeno, metteva a tacere le critiche del governo americano sulla reticenza europea ad abbandonare il mercantilismo e avviava una nuova fase, sensibilmente più fluida, del dialogo commerciale euro-statunitense (v. Rapone, 2005, p. 32).
Nel valutare l’effetto dirompente della CEE, tale da segnare una netta cesura nel processo integrativo, è a ogni modo opportuno segnalare che essa fu concepita in un clima generale di espansione produttiva e commerciale. La stessa iniziativa del rilancio europeo, del resto, si iscrive nel contesto di una congiuntura economica internazionale straordinariamente favorevole.
A partire dal 1948, infatti, anno in cui quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale, a eccezione della Germania, avevano ripristinato gli standard di produzione prebellici, il decollo dell’economia europea era proseguito a ritmi inediti. L’industria, in particolare, già nel biennio 1955-56, aveva registrato un incremento del 40-60% rispetto al 1950 e lasciava peraltro prevedere rendimenti crescenti (ivi, p. 296). E a ciò si aggiungeva la raggiunta stabilità monetaria, traguardo conseguito, non senza sforzi, in Italia, Germania e Francia.
Di fatto, date le premesse, il mercato comune poteva quasi sembrare – e questo fu il punto di forza dei suoi ispiratori – il naturale epilogo di una parabola economica volta al rialzo.
Secondo recenti interpretazioni, viceversa, il capitolo del Trattato CEE dedicato alla futura realizzazione di una politica agricola comune rappresenterebbe un risultato di esclusiva pertinenza parigina. In particolare, secondo Bino Olivi, si tratterebbe del «più grande successo diplomatico della Francia dal Congresso di Vienna in poi» (v. Olivi, 1993, p. 48).
In questo contesto di estrema virtualità, era la situazione politica a presentare le maggiori incertezze. Soprattutto all’interno di alcuni paesi, le contraddizioni tra le differenti correnti politiche emersero in tutta la loro entità quando i Trattati di Roma furono sottoposti alla ratifica dei parlamenti. Se, infatti, per la Germania e per gli Stati del Benelux il dibattito parlamentare sulla CEE e sull’Euratom aveva riaffermato con decisione le convinzioni europeistiche e filoatlantiche dei rispettivi establishment di governo, in Italia e in Francia, dove le spaccature interne erano particolarmente segnate, non mancarono episodi di tensione. Nel primo caso, infatti, il partito comunista si dichiarò fermamente contrario all’entrata in vigore delle due Comunità. In Francia, ancor di più, i Trattati vennero ratificati, nel luglio del 1957, con un margine piuttosto esiguo, visto che si contarono ben 235 voti contrari, espressi peraltro da un coro di voci nutrito ed eterogeneo. Oltre ai gollisti e ai comunisti, che avevano sempre manifestato reticenze nei confronti del modello monnetiano di unificazione europea, a respingere il testo intervennero anche i poujadisti e alcuni radicali (v. Mammarella, 2000, p. 297).
In conclusione, vale la pena di illustrare brevemente un altro elemento significativo di questa importante pagina della storia dell’integrazione europea: la posizione della Gran Bretagna (v. Regno Unito). Sebbene formalmente invitato a partecipare alle trattative sul mercato comune e sulla comunità dell’energia atomica, il governo di Londra continuò a mostrare scetticismo nei confronti dell’Europa comunitaria (v. anche Euroscetticismo), ribadendo di voler perseguire la via dell’osservatore esterno – un’alternativa prospettata anni addietro da Winston Churchill. Tradendo le aspettative dei promotori del rilancio e soprattutto deludendo le speranze degli olandesi – per i quali il coinvolgimento britannico nella Comunità rappresentava il fiore all’occhiello dell’unificazione europea –, nel febbraio del 1957 gli inglesi invitavano i paesi membri dell’Organizzazione europea di cooperazione economica a creare una zona di libero scambio come alternativa al Mercato comune. Con questa iniziativa i britannici intendevano procedere alla semplice abolizione dei dazi doganali sulle merci industriali, escludendo quindi i prodotti agricoli e qualsiasi riferimento all’istituzione di un’unica tariffa esterna.
Indipendentemente dagli esiti della proposta di Londra, resta il fatto che essa fosse stata concepita come omologo intergovernativo della CEE, a indicare quanto apparissero irrinunciabili, anche oltremanica, le opportunità di crescita economica prospettate dal mercato comune. Ma lo scoglio da superare, per gli inglesi e non solo, erano le importanti implicazioni sovranazionali, almeno sul piano economico-commerciale, dei Trattati di Roma. E se il Regno Unito dimostrò di non essere ancora disposto ad abbandonare le logiche della diplomazia tradizionale, per cui l’obiettivo ultimo restava comunque la difesa dell’interesse strettamente nazionale, i sei paesi membri della CECA manifestarono di aver riconosciuto nell’opzione comunitaria la sola via percorribile per garantire la propria presenza sullo scacchiere internazionale, nonché per migliorare, ampliandole, le singole prospettive di benessere economico e sociale.
Il risultato raggiunto nel marzo del 1957, in estrema sintesi, prescinde dalle ricadute che ebbero la CEE e l’Euratom sul futuro dell’integrazione europea e possiede, al contrario, un innegabile valore intrinseco. Sottoscrivendo i Trattati di Roma, infatti, i Sei trasformarono irreversibilmente l’idea di unità dell’Europa in un postulato imprescindibile e in un concetto dinamico ed espansivo.
Giulia Vassallo (2009)