Trattati
Il ruolo dei trattati nella costruzione europea
Il processo di costruzione dell’Unione europea (UE) è iniziato e si è arricchito grazie a una serie di trattati. Sempre attraverso trattati – i trattati di Adesione – si è esteso a nuovi Stati e ha definito le sue relazioni con numerosi partner esterni (accordi commerciali, di cooperazione, di Associazione, ecc.).
Ci occuperemo qui della prima di queste tre categorie di trattati: quelli grazie ai quali l’integrazione europea è nata e si è sviluppata (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Sono trattati di diritto internazionale classici, che gli Stati contraenti – i membri delle Comunità europee, poi dell’Unione europea – hanno ratificato, per via parlamentare o, meno frequentemente, attraverso un referendum perché imposto dalla costituzione nazionale o da ragioni di opportunità politica. I progressi dell’integrazione si sono concretizzati in nuovi trattati, che hanno modificato quelli iniziali o aggiunto nuovi testi. Uno strumento di diritto internazionale ha quindi consentito la creazione di un sistema giuridico autonomo, il sistema giuridico comunitario (v. anche Diritto comunitario), distinto dal diritto internazionale. I trattati costituiscono il nucleo di base (diritto primario) del sistema da essi creato, mentre il diritto secondario, cioè quello emanato dalle Istituzioni comunitarie create dai trattati, rappresenta l’Acquis comunitario.
Per la maggior parte, i trattati in questione costituiscono modifiche del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) (v. Trattati di Roma) del 1957 – divenuto Trattato istitutivo della Comunità europea nel 1993 – e del Trattato sull’Unione europea (v. Trattato di Maastricht), del 1992. I trattati di base e le relative modifiche saranno ulteriormente modificati dal Trattato di Lisbona del 2007, quando questo entrerà in vigore, dopo la conclusione delle procedure di ratifica.
La storia della costruzione europea ci mostra come, a ogni sua tappa importante, vi sia stato uno scontro, più o meno visibile, tra le forze più integrazioniste e quelle più restie al cambiamento. Ogni nuova modifica dei trattati di base ha rappresentato il raggiungimento di un compromesso tra queste due forze. Ne risultano, ogni volta, progressi verso l’unificazione, ma anche problemi irrisolti. Spesso però il trattato comporta un appiglio, un invito, più o meno esplicito, a riprendere i lavori appena possibile per andare oltre e risolvere i punti rimasti in sospeso. L’invito è stato presto o tardi regolarmente accolto, e ciò ha fatto progredire l’unificazione. Così, ad esempio, gli autori del Trattato di Nizza firmato nel 2001, coscienti delle sue insufficienze, avevano previsto in una dichiarazione un vasto dibattito sul futuro dell’Europa in preparazione d’una nuova conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative). Ciò è puntualmente avvenuto e ha condotto al Trattato costituzionale (v. Costituzione europea) del 2004. In seguito alla mancata ratifica di quest’ultimo, è stato concluso un nuovo trattato, il Trattato di Lisbona del 2007, che riprende il 90% delle innovazioni introdotte dal Trattato costituzionale. La storia della costruzione europea appare quindi come una concatenazione fra trattati che, al di là del senso ovviamente giuridico – un trattato che modifica il precedente – dà la misura, in chiave politica, delle attese e dei progressi dell’integrazione.
I principali trattati grazie ai quali la costruzione europea è nata e si è sviluppata sono, in ordine cronologico, i seguenti: il Trattato di Parigi (1952), i Trattati di Roma (1958), il Trattato di Bruxelles sulla fusione degli esecutivi (1967), il Trattato di Lussemburgo (1971), il Trattato di Bruxelles istitutivo di una Corte dei conti (1977), l’Atto unico europeo (1987), il Trattato di Maastricht (1993), il Trattato di Amsterdam (1999), il Trattato di Nizza (2003), il Trattato di Lisbona (firmato nel 2007, in attesa di ratifica).
Il Trattato di Parigi
Il Trattato di Parigi, istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nacque dalle idee di Jean Monnet e dall’iniziativa diplomatica creata dalla Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) del 9 maggio 1950, che proponeva di mettere in comune le produzioni del carbone e dell’acciaio come «prima tappa della federazione europea». Alla proposta francese avevano aderito cinque Stati, ma non il Regno Unito. L’Italia di Alcide De Gasperi, cosa del tutto inattesa perché il paese era dotato, all’epoca, d’una siderurgia poco sviluppata e aveva una produzione di carbone quasi inesistente, fu la prima ad aderire al Piano Schuman per ragioni politiche, vedendo in esso, come la Germania, l’occasione per riacquistare un ruolo in seno all’Europa. Il Trattato fu firmato da Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi l’8 aprile 1951, per una durata di 50 anni. Entrato in vigore il 27 luglio 1952, spirò il 27 luglio 2002, senza essere rinnovato. Le attività della CECA verranno riprese dalla Comunità europea (v. Comunità economica europea).
Il Trattato conferiva istituzioni indipendenti dagli Stati tutti i poteri in tema di carbone e acciaio, secondo regole specificate dettagliatamente nel Trattato stesso. L’istituzione principale era l’Alta autorità (AA), un collegio di nove membri (otto nominati dagli Stati e uno cooptato) totalmente indipendente, vero governo della carbosiderurgia europea, dotato di autonomia finanziaria grazie soprattutto all’imposizione sui prodotti del settore. Accanto a essa, il Consiglio speciale del Consiglio dei ministri, composto di rappresentanti dei governi degli Stati membri, aveva il compito di armonizzare l’azione dei governi e quella dell’AA; doveva dare, tra l’altro, parere conforme su talune decisioni di quest’ultima. Un’Assemblea parlamentare, nominata dai Parlamenti nazionali, aveva prevalenti funzioni di controllo. La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) era incaricata dell’interpretazione del Trattato.
Il bilancio del lavoro dell’Alta autorità fu positivo nei settori in cui disponeva di competenze dirette, come nel campo finanziario e in quello degli investimenti sociali, come pure nelle relazioni esterne, mentre nel campo dei trasporti, in cui i suoi poteri erano meno estesi, i risultati furono meno soddisfacenti. E là dove l’Alta autorità si trovava a confrontarsi direttamente con le imprese e con gli Stati (realizzazione d’una politica dei prezzi, lotta contro i cartelli e le concentrazioni) l’azione fu molto difficile. I limiti dell’Alta autorità e del Trattato, apparvero chiaramente nei casi in cui, per andare avanti, era necessario un parere conforme del Consiglio: durante la crisi carbonifera del 1958-1959, caratterizzata da un improvviso eccesso di stock in Germania e Belgio, essa non riuscì a ottenere il parere conforme del Consiglio sulla proclamazione dello stato di “crisi manifesta”, che le avrebbe permesso di intervenire fissando quote di produzione e diminuendo le importazioni dai paesi terzi. L’Italia non voleva rinunciare alle importazioni americane e Francia e Germania non volevano aumentare i poteri dell’Alta autorità.
Il trattato CECA – in linea con la Dichiarazione Schuman che lo precedette – rappresentava un metodo nuovo: realizzare, grazie all’azione di Istituzioni comunitarie, legami di solidarietà di fatto, nella prospettiva di un’unione sempre più stretta. Questo metodo sarà seguito dai trattati “comunitari” che seguiranno e, in particolare, dal Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea (CEE). Ma, nello stesso tempo, quest’ultimo terrà conto delle lezioni tratte dall’esperienza CECA: soprattutto, delle difficoltà di un “trattato regolamento”, poco adattabile a situazioni impreviste, e di un’istituzione dotata di poteri estesi ma paralizzata di fronte a certe situazioni estreme in cui gli Stati riprendevano le redini. Il trattato CEE sarà un “trattato quadro” piuttosto che un “trattato regolamento”, e il suo sistema decisionale integrerà maggiormente gli Stati membri. Come è stato affermato, il Trattato CECA fu per le nuove Comunità, nello stesso tempo un punto di riferimento e un contro-modello.
I Trattati di Roma
Il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità economica europea (CEE), fu firmato, insieme al trattato Euratom, istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA), il 25 marzo 1957 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1958.
I Trattati di Roma furono firmati solo sei anni dopo il trattato di Parigi, ma questi sei anni furono ricchi di avvenimenti decisivi per il futuro della costruzione europea. Il trattato sulla Comunità europea di difesa (CED), negoziato su proposta della Francia e firmato dai Sei a Parigi il 28 maggio 1951, un po’ più d’un mese dopo il trattato CECA, era caduto davanti all’Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954. Insieme alla CED cadeva il progetto di Comunità politica europea (CPE), elaborato il 10 marzo 1953 dall’Assemblea ad hoc presieduta da Paul-Henri Charles Spaak, che aveva come aggancio istituzionale l’art. 38 del trattato CED. Se, limitatamente agli aspetti militari, un’apparenza di soluzione alla crisi aperta dalla caduta della CED era stata poi trovata con l’estensione a Germania e Italia dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), organizzazione di mutua difesa, con il voto dell’Assemblea nazionale francese falliva il primo vero tentativo diplomatico di dar vita a una struttura federale europea (non è inutile ricordare che l’art. 38 CED, inserito su richiesta italiana, era stato ispirato da Altiero Spinelli, allora consigliere di De Gasperi). Non si era quindi riusciti a passare, senza gradualismi, dal “Funzionalismo” settoriale rappresentato dalla CECA all’integrazione politica.
Il rilancio avvenne con la Conferenza di Messina dei ministri degli Esteri, convocata il 3 giugno 1955 dal ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino, e con la nomina di un Comitato intergovernativo presieduto da Spaak, incaricato di esaminare l’eventualità di una preparazione progressiva di un mercato comune generale (v. Comunità economica europea). Il Rapporto Spaak – che, al di là d’ogni aspettativa, proponeva in modo dettagliato la creazione di una Comunità economica europea e di una Comunità europea dell’energia atomica – fu presentato alla Conferenza di Venezia dei ministri degli Esteri il 29 maggio 1956. Seguì il negoziato di Val Duchesse a Bruxelles, in cui furono redatti i trattati CEE ed Euratom.
Tra i vari elementi che costituivano la Comunità economica europea, il Trattato CEE organizzava in modo molto preciso, secondo un calendario predeterminato, l’attuazione dell’Unione doganale (v. anche Tariffa doganale; tariffa esterna comune), ma sugli altri punti – le quattro libertà di circolazione, la Politica europea di concorrenza, la Politica commerciale comune, la Politica agricola comune, la Politica comune dei trasporti, la cooperazione in tema sociale – esso si limitava a enunciare regole generali e procedure di attuazione affidate alle istituzioni (“trattato quadro” o “trattato di procedure”). Il Trattato precisava invece il sistema istituzionale e la sua evoluzione: il Consiglio, composto di rappresentanti degli Stati, che decideva, la Commissione europea, istituzione indipendente composta di nove membri, che proponeva e che poteva modificare la sua proposta finché il Consiglio non avesse deciso, l’Assemblea parlamentare (v. Parlamento europeo), che aveva un ruolo consultivo, ma che controllava la Commissione, e la Corte di giustizia, erano comuni con la CECA. Sin dalla fine della terza tappa del periodo transitorio, il Consiglio poteva decidere in molte materie a maggioranza (v. Maggioranza qualificata), ma il Voto all’unanimità restava necessario se il Consiglio si discostava dalla proposta della Commissione. La Commissione aveva inoltre poteri esecutivi e di gestione, e vigilava sul rispetto del Trattato e del diritto derivato. L’Assemblea parlamentare e la Corte di giustizia erano comuni alle tre Comunità. Era previsto un Comitato economico e sociale con ruolo consultivo.
Il Trattato CEE rappresentava il funzionalismo esteso all’insieme dell’economia. Costituì, all’epoca, un risultato insperato e avrebbe rivelato, soprattutto grazie al suo sistema decisionale – il cosiddetto metodo comunitario – immense potenzialità (v. anche Processo decisionale). Le riforme importanti intervenute successivamente, a cominciare dall’Atto unico del 1986, fino alle modifiche introdotte dal trattato di Lisbona del 2007 (in attesa di ratifica), non avrebbero intaccato le sue caratteristiche e potenzialità fondamentali.
Obiettivi del Trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica Euratom erano: sviluppare l’industria nucleare, realizzando le installazioni necessarie e incoraggiando la ricerca; assicurare la libera circolazione dei ricercatori, dei capitali e dei materiali; regolarizzare l’approvvigionamento in materie fissili, per le quali essa disponeva d’un monopolio di acquisti e di vendite.
Il sistema istituzionale prevedeva un Consiglio composto dei rappresentanti dei governi, una Commissione di cinque membri, oltre all’Assemblea parlamentare e alla Corte di giustizia, istituzioni comuni alle tre Comunità.
Dei due Trattati di Roma, il Trattato Euratom era quello che sembrava, durante i lavori preliminari, maggiormente destinato al successo. Jean Monnet aveva particolarmente appoggiato questo progetto e la Francia era stata, durante i negoziati del 1955-1956, il paese più favorevole alla conclusione di questo trattato. In realtà, esso incontrò, sin dall’inizio, grandi difficoltà dovute in gran parte alla perdita d’interesse del generale Charles de Gaulle per l’Euratom, che divenne rapidamente forte ostilità. Gli altri Stati membri, che all’inizio contavano sull’Euratom per partecipare allo sviluppo del settore nucleare, si convertirono rapidamente al principio del “giusto ritorno” nazionale, cercando di recuperare, in termini di aiuti o di ordinazioni, l’equivalente del contributo versato. Ognuno tendeva a realizzare i propri progetti piuttosto che partecipare a programmi comuni. La Commissione non riuscì a far prevalere uno spirito comunitario, malgrado i programmi comuni di ricerca ai quali contribuirono i vari stabilimenti del Centro comune di ricerca (CCR). Il Libro bianco (v. Libri bianchi) della Commissione del 1968 non poteva esprimere che un bilancio insoddisfacente. Il Trattato continuerà a esistere e a funzionare, ma con obiettivi sensibilmente ridimensionati.
Il Trattato di Bruxelles sulla fusione degli esecutivi
Il Trattato istitutivo di un Consiglio unico e di una Commissione unica delle Comunità europee (fusione degli esecutivi), firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965 ed entrato in vigore il 1° luglio 1967, prevedeva l’istituzione, per le tre Comunità europee, di un Consiglio unico e di una Commissione unica che avrebbero dovuto rispettare le regole dei Tre trattati. La Commissione unica in un primo tempo era formata da 14 membri, ridotti a nove dopo tre anni di funzionamento. La cooptazione esistente per l’Alta autorità scompariva. Il Trattato istituzionalizzava anche il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER).
Suggerita da Jean Monnet sin dal 1959, con obiettivi tecnici (miglior coordinamento dei campi di azione) e politici (rafforzamento dell’“esecutivo”), la “fusione degli esecutivi” fu accettata da De Gaulle a condizione che la Commissione unica non ereditasse le caratteristiche sopranazionali dell’Alta autorità. Il negoziato iniziò nel 1963 e fu lungo e difficile, con un’Alta autorità che cercava, senza grande successo, di difendere le sue peculiarità, e il governo lussemburghese che si batteva, con migliori risultati, per conservare una presenza comunitaria sostanziale a Lussemburgo. La nuova geografia istituzionale (ancora formalmente “provvisoria”) confermava Bruxelles quale sede della Commissione e del Consiglio (quest’ultimo però, avrebbe dovuto tenere le sessioni di aprile, giugno e ottobre a Lussemburgo) (v. Sedi istituzionali); se il Parlamento continuava a riunirsi a Strasburgo, Lussemburgo, che accoglieva ormai la Banca europea degli investimenti (BEI), conservava la Corte di giustizia e i servizi amministrativi del Parlamento, oltre a una piccola parte di quelli della Commissione.
I Trattati di Lussemburgo e di Bruxelles
Il Trattato relativo al rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo veniva firmato a Lussemburgo il 22 aprile 1970 ed entrava in vigore il 1° gennaio 1971. Le disposizioni di tale Trattato erano poi consolidate da un altro trattato, firmato a Bruxelles il 22 luglio 1975 ed entrato in vigore il 1° giugno 1977, con il quale veniva altresì creata una Corte dei conti.
Il Trattato del 1970 e quello del 1975 modificavano la procedura di bilancio (v. Bilancio dell’Unione europea) prevista dai Trattati di Roma. Grazie alle disposizioni dei due Trattati, il ruolo del Parlamento europeo (PE) risultava notevolmente rafforzato. In particolare, il PE aveva l’“ultima parola” su una parte delle spese, quelle c.d. “non obbligatorie”, cioè le spese per il funzionamento delle istituzioni e quelle a carattere operativo (crediti per i fondi strutturali, la ricerca, l’aiuto allo sviluppo, ecc.), mentre il Consiglio conservava il suo ruolo sulle spese “obbligatorie”, aveva il diritto di respingere globalmente il bilancio e aveva il compito di constatare l’adozione del bilancio. Per esaminare i conti della Comunità veniva istituita la Corte dei conti.
La riforma del 1970 era collegata con la Decisione del Consiglio del 21 aprile 1970 di finanziare la Comunità attraverso “Risorse proprie”. Risorse proprie e poteri di bilancio del Parlamento europeo, i due elementi del trittico proposto dalla Commissione nel 1965, erano stati congelati in seguito alla crisi istituzionale provocata dalla Francia. Ma, all’approssimarsi dell’Allargamento alla Gran Bretagna, alcuni Stati membri, e soprattutto la Francia, avevano ritenuto necessario fissare tra i Sei, prima dell’ampliamento, il regime finanziario definitivo.
Grazie ai due Trattati, l’autorità di bilancio comunitaria risultava ora composta da due rami, il Parlamento e il Consiglio. Il sistema creato dai due Trattati non sarà modificato dai trattati che seguiranno, ma, utilizzato sapientemente dal Parlamento, verrà sviluppato considerevolmente a suo favore. Ad esempio, il Parlamento riusciva ad accrescere l’ammontare delle spese “non obbligatorie”, che nel 1975 rappresentavano meno del 5% del totale del bilancio e che raggiungono attualmente circa il 50%.
La Corte dei conti ha affermato progressivamente il proprio ruolo e, da semplice organo, è divenuta formalmente una “istituzione” comunitaria con il Trattato di Maastricht.
L’Atto unico europeo
L’Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 (da 9 Stati membri) e all’Aia il 28 febbraio dello stesso anno (da Grecia, Italia e Danimarca), ed entrato in vigore il 1° luglio 1987, fu il risultato di un grande tentativo di riforma del Trattato di Roma, la cui necessità era andata delineandosi sempre più chiaramente nel corso degli anni. L’Europa degli anni Ottanta era molto cambiata rispetto a quella che aveva visto la nascita delle Comunità. La realizzazione completa del Mercato unico europeo – pure obiettivo principale del Trattato di Roma – aveva bisogno di nuovi strumenti non previsti da quest’ultimo; nuove politiche comuni erano ormai indispensabili se non si voleva tornare indietro; il proseguimento dell’avventura comune avrebbe perduto l’interesse iniziale senza un rafforzamento della solidarietà – economica, monetaria, sociale ma anche politica. E, per quanto riguarda gli aspetti decisionali, appariva chiaramente che era necessario un salto di qualità in termini di efficacia e di democrazia.
Il 14 febbraio 1984, il Parlamento europeo aveva adottato ad ampia maggioranza, su iniziativa di Altiero Spinelli e del gruppo del “Coccodrillo” (v. Club del Coccodrillo) da lui animato, un progetto di trattato relativo alla realizzazione dell’Unione europea, passo notevole verso una federazione europea. I governi l’ignorarono, né seguirono tutte le raccomandazioni del “Comitato Dooge” (v. Dooge, James), che essi stessi avevano creato e che, nella sua maggioranza, si ispirava ampiamente al progetto Spinelli. Se al Consiglio europeo di Milano del giugno 1985, presieduto da Bettino Craxi, fu deciso a maggioranza di convocare una Conferenza intergovernativa (CIG), due elementi resero possibile questo risultato. Il primo fu l’approccio “funzionalista” della Commissione, e in particolare del suo presidente Jacques Delors, che seppe convincere della necessità di riforme istituzionali per rendere possibile l’attuazione del Libro bianco sul mercato unico, sul quale c’era un accordo generale. Il secondo elemento fu la “scelta europea” del presidente francese François Mitterrand e il suo sostegno alle idee di rilancio sostenute dal cancelliere tedesco Helmut Josef Michael Kohl. Il trattato, che fu negoziato sotto presidenza lussemburghese dalla CIG, non menzionò, nel titolo dell’atto approvato, l’Unione europea, menzione rifiutata sia dagli Stati (Regno Unito, Danimarca, ecc.) che non volevano lasciarsi trascinare verso l’Unione europea, sia dal Benelux, che considerava il trattato ancora lontano dall’Unione. La denominazione di “Atto unico europeo” sottolineava invece la presenza, in un solo atto – per la prima volta nella storia comunitaria – di disposizioni relative alla Comunità e alla Cooperazione politica europea. La presidenza lussemburghese e la Commissione di Jacques Delors e del segretario generale Emile Noël contribuirono efficacemente a questo risultato.
L’Atto unico europeo comportava, in un solo strumento, una serie di modifiche – al contenuto delle politiche e alle istituzioni – del Trattato di Roma e delle disposizioni relative alla cooperazione politica. Una prima categoria di modifiche riguardava il contenuto delle politiche: realizzazione d’uno “spazio senza frontiere” entro il 1° gennaio 1993; adozione del principio di realizzazione progressiva d’una Unione economica e monetaria (UEM); estensione delle competenze della CEE a nuove politiche come la Politica ambientale, la Politica della ricerca scientifica e tecnologica; intervento della CEE per rafforzare la coesione (v. Politica di coesione), favorire il Dialogo sociale, armonizzare le convenzioni collettive o le condizioni di sicurezza e di salute dei lavoratori. Vi erano poi le modifiche istituzionali: estensione del voto a maggioranza sui temi legati alla realizzazione dello “spazio senza frontiere” (salvo per l’Armonizzazione fiscale, la Libera circolazione delle persone, i diritti e gli interessi dei salariati); più ampie competenze d’esecuzione della Commissione, secondo modalità che ne prevedevano il controllo da parte dei governi; attribuzione al Parlamento europeo della Procedura di cooperazione in campo legislativo e del potere di “parere conforme” in caso di adesione o associazione d’un paese terzo. Infine, vi erano le modifiche relative alla cooperazione politica, con la creazione d’un segretariato incaricato di assistere la presidenza, oltre a un certo numero di innovazioni minori.
L’Atto unico pose termine, nella storia delle istituzioni, al ventennio durante il quale le conclusioni del cosiddetto “Compromesso di Lussemburgo” del gennaio 1966 erano state interpretate dalle presidenze del Consiglio (v. Presidenza dell’Unione europea) in modo estensivo, applicando molto raramente la regola del voto a maggioranza. Non solo l’Atto unico prevedeva l’estensione de jure della regola della maggioranza qualificata, ma provocava, all’indomani della firma del Trattato, un vero rovesciamento della situazione de facto: il voto al Consiglio diventava ormai una realtà quotidiana.
Il Parlamento europeo approvò il Trattato obtorto collo (Spinelli aveva dichiarato che, come nel romanzo di Hemingway Il vecchio e il mare, il Parlamento aveva portato a terra solo la lisca del pesce catturato). Ma al di là dei suoi contenuti, pure da non sottovalutare anche se inferiori al progetto del Parlamento, l’Atto unico ebbe il grande merito di aprire una stagione di riforme, oltre ad aver concluso un periodo grigio della storia comunitaria. Francia e Germania dichiararono, a firma avvenuta, che sarebbero state pronte ad andare più lontano; il cancelliere Kohl, in particolare, affermò che il problema dei poteri del Parlamento era solo rinviato.
Il Trattato sull’Unione europea
A poco più di due anni dall’entrata in vigore dell’Atto unico si rimise in moto il meccanismo di revisione dei Trattati. Due conferenze intergovernative, rispettivamente sull’Unione economica e monetaria e sull’Unione politica, si aprirono a Roma il 15 dicembre 1990. Numerosi elementi erano all’origine di queste iniziative. Il completamento dello spazio senza frontiere rendeva ormai necessaria la costruzione di una UEM, da vent’anni auspicata e mai concretizzata. La mutazione avvenuta nei paesi d’Europa centrale e orientale costituiva, per l’Europa occidentale, un motivo supplementare di rafforzamento dell’edificio comunitario, indispensabile per rispondere alle attese di questi paesi. L’unificazione tedesca – che peraltro, per realizzarsi, doveva comportare importanti aiuti comunitari ai Länder dell’Est – spingeva la Germania a voler rassicurare i suoi 11 partner sulle sue intenzioni di continuare a giocare il gioco comunitario e non cedere alle tentazioni di una Ostpolitik che avrebbe diluito gli obiettivi della costruzione europea.
L’iniziativa del Trattato sull’Unione europea fu franco-tedesca (Mitterrand-Kohl), ma con un importante ruolo italiano (presidenza nel secondo semestre 1990) oltre che del Benelux. Delors, dando prova di una sensibile evoluzione del suo pensiero, aveva rilanciato l’obiettivo di una Unione europea come primo passo d’una federazione di Stati fondata sul Principio di sussidiarietà.
Il Trattato venne firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrò in vigore il 1° novembre 1993. L’Unione europea cui esso dava vita era composta di tre elementi – i cosiddetti tre pilastri (v. Pilastri dell’Unione europea) –: le Comunità esistenti, la cooperazione in tema di politica estera e quella in campo giudiziario e degli affari interni. Era previsto un sistema istituzionale comune (quello comunitario, ma con regole di funzionamento diverse nel secondo e terzo pilastro). Il Trattato introduceva diverse innovazioni. Nel campo comunitario, prevedeva l’estensione delle competenze in tema di ambiente, di ricerca, di industria (v. Politica industriale) e di Politica di coesione e l’attribuzione di possibilità d’intervento – nel rispetto del principio di sussidiarietà – al di là dell’economia in senso stretto, nei settori della pubblica istruzione (v. Politica dell’istruzione), della formazione professionale (v. Politica della formazione professionale), della sanità (v. Politica della salute pubblica), della cultura (v. Politica culturale europea) e della protezione dei consumatori (v. Politica dei consumatori); la Comunità economica europea (CEE) diventava quindi Comunità europea (CE). Veniva inoltre creata l’Unione economica e monetaria, da realizzarsi in tre tappe, con l’obiettivo della moneta unica, e si istituiva la Cittadinanza europea che si aggiungeva a quella nazionale. Si migliorava il sistema istituzionale soprattutto per quanto riguarda il Parlamento europeo, con l’estensione della procedura di cooperazione e della Procedura di parere conforme, l’introduzione della Codecisione in un certo numero di casi, l’attribuzione del potere di approvare la scelta del Presidente della Commissione europea, poi la composizione del collegio, la cui durata era portata a cinque anni, come quella del Parlamento. La Corte dei conti assumeva il ruolo di istituzione e veniva creato il Comitato delle regioni, con ruolo consultivo. Infine, veniva formalizzato il principio di sussidiarietà. Nel campo della politica estera trovava realizzazione una “Politica estera e di sicurezza comune” (PESC), attraverso azioni comuni decise all’unanimità (ma il Consiglio poteva decidere – all’unanimità – di prendere certe misure di applicazione a maggioranza qualificata). Nella prospettiva di una difesa comune, l’UEO diventava il braccio armato dell’Unione europea. Nel campo della Giustizia e affari interni (GAI), il Trattato prevedeva la cooperazione in tema di controlli alle frontiere esterne, politica di immigrazione, diritto d’asilo, visti (v. Politiche dell’immigrazione e dell’asilo), Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga, Lotta contro il terrorismo, attraverso decisioni prese all’unanimità, salvo per alcune misure d’applicazione, come nel caso della PESC.
Il Trattato di Maastricht, firmato a conclusione delle due Conferenze intergovernative, costituiva effettivamente una tappa importante del processo d’integrazione. Ma la struttura “a tre pilastri” dell’Unione – soluzione trovata dalla presidenza lussemburghese per superare le difficoltà del negoziato e che la successiva presidenza olandese non poté modificare – deluse le aspettative di coloro che auspicavano una estensione più netta del metodo comunitario ai nuovi campi d’azione dell’Unione. La vocazione “federale” non era menzionata nel Trattato a causa dell’ostilità della Gran Bretagna; quest’ultima ottenne una clausola di opting out che la dispensava dal partecipare alla terza tappa dell’UEM e restava fuori dalla Politica sociale, che sarà ripresa in un protocollo a 11. Gli autori del Trattato erano coscienti dei suoi punti deboli: per questo il suo articolo “N” prevedeva la convocazione, nel 1996, di una nuova conferenza intergovernativa per rivederlo. Intanto la ratifica del Trattato, più difficile e lenta del previsto (voto a sfavore nel referendum in Danimarca, risultato corretto poi da un secondo referendum; vittoria risicata del voto a favore nel referendum in Francia) provocò una crisi della costruzione europea. Tale crisi era alimentata da un certo vento di “Euroscetticismo”, ma era legata anche alla recessione economica, alla crescita della disoccupazione, all’impotenza dell’Europa occidentale di fronte ai conflitti dell’ex Iugoslavia e alle crisi monetarie del 1992-1993. Ciò, tuttavia, non impedì che si realizzasse un nuovo ampliamento – ad Austria, Finlandia, Svezia – dal 1° gennaio 1995 e che venissero compiuti progressi nell’attuazione dell’UEM e nella preparazione della nuova conferenza intergovernativa
Il Trattato di Amsterdam
Il negoziato che condusse al trattato di Amsterdam nasceva dall’insoddisfazione generale per l’insufficienza dei risultati ottenuti dal Trattato di Maastricht – a parte il suo capitolo monetario – e anche per l’eccessiva complessità delle sue disposizioni, che aveva offerto argomenti supplementari agli “euroscettici”. Il negoziato fu lanciato nel primo semestre 1996 dalla presidenza italiana che svolse, allora e nei mesi seguenti, un ruolo importante, e un anno dopo venne condotto in porto – ancora una volta – dalla presidenza olandese. Esso si svolse però in un clima difficile, segnato inoltre da cambiamenti politici in alcuni Stati membri, e dalla crisi detta della “mucca pazza”.
Il Trattato di Amsterdam fu firmato il 2 ottobre 1997, ed entrò in vigore il 1° maggio 1999. Esso modificava in diversi punti i trattati precedenti. In particolare, prevedeva una serie di disposizioni in caso di violazione (v. Infrazione al diritto comunitario), da parte d’uno Stato membro, dei principi su cui è fondata l’Unione, nonché disposizioni in tema di “cooperazioni rafforzate”, cioè di eventuali approfondimenti dell’integrazione limitati a una maggioranza disponibile ad accettarli. Venivano altresì inseriti un capitolo sociale e un titolo sull’occupazione, e si miglioravano le disposizioni comunitarie in tema di ambiente, sanità, protezione dei consumatori, ecc. Sulle questioni istituzionali si introducevano numerose innovazioni, in particolare nella Procedura di codecisione. Tra i miglioramenti apportati agli strumenti del secondo pilastro figurava l’istituzione di un “Alto rappresentante della PESC”. In materia di libertà, sicurezza e giustizia (v. anche Spazio di libertà, sicurezza e giustizia), il Trattato prevedeva, tra l’altro, la comunitarizzazione progressiva delle disposizioni in tema di visti, asilo, immigrazione e Cooperazione giudiziaria in materia civile, come pure dell’acquis di Schengen. Un atto di diritto primario – un protocollo al Trattato – fissava ormai le sedi delle istituzioni.
I risultati ottenuti ad Amsterdam furono significativi, ma non rispondevano interamente alle attese. Così, in tema di istituzioni, in cui il disaccordo era profondo, non fu possibile raggiungere, nella prospettiva di un ampliamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale ormai più che probabile, una posizione comune in tema di Ponderazione dei voti nel Consiglio e di composizione della Commissione ampliata. In politica estera non vi fu nessun reale progresso – al di là dell’istituzione dell’“Alto rappresentante”. In tema di difesa, la conferenza non riuscì a integrare il trattato UEO nell’Unione. In materia di politica commerciale, esso rinunciava a estendere le norme sulla politica commerciale (in particolare l’art. 133) ai settori dei servizi e della proprietà intellettuale, con conseguenze negative per il ruolo della Comunità nei negoziati commerciali.
Di fronte alle carenze di Amsterdam in tema istituzionale, il Belgio, sostenuto da Francia e Italia, richiedeva in una dichiarazione allegata al Trattato, la convocazione di una nuova conferenza prima dell’ampliamento in vista. La stessa preoccupazione fu espressa da numerosi parlamentari di tutti i gruppi politici (v. Gruppi politici al Parlamento europeo). Si parlava quindi di una nuova revisione, prima ancora della firma del Trattato.
Il Trattato di Nizza
La conferenza intergovernativa apertasi nel febbraio 2000 si concluse sotto presidenza francese, al Consiglio europeo di Nizza, dal 7 all’11 dicembre 2000. Un accordo sui “residui” di Amsterdam – la composizione e il funzionamento delle istituzioni dell’Unione ampliata, principale oggetto della CIG – fu raggiunto solo dopo un negoziato durissimo segnato dal confronto tra egoismi nazionali. Il Trattato di Nizza fissava essenzialmente le regole di funzionamento delle istituzioni dell’Unione ampliata (ai paesi dell’Europa centrale e orientale, Cipro e Malta), cosa che non era stata possibile ad Amsterdam. Le principali innovazioni del Trattato riguardavano: l’istituzione di una Commissione con un commissario per Stato membro (ma quando l’Unione sarebbe arrivata a contare 27 membri, il numero dei commissari avrebbe dovuto essere inferiore a 27, con un sistema di rotazione); l’introduzione di una nuova ponderazione dei voti al Consiglio; l’estensione delle materie con voto a maggioranza al Consiglio – ma l’unanimità restava la regola per fiscalità (v. Politica fiscale) e sicurezza sociale, e per il secondo e il terzo pilastro –; una nuova ripartizione dei seggi al Parlamento europeo; un ulteriore rafforzamento del ruolo del PE; il miglioramento del sistema delle “cooperazioni rafforzate”.
La ponderazione dei voti al Consiglio decisa a Nizza, che per la prima volta si allontanava dai criteri del Trattato di Roma, comportava un aumento del peso degli Stati più popolosi (Germania, Francia, Regno Unito, Italia), compensando così, per questi ultimi, la perdita di un secondo membro della Commissione. Per la Germania, di gran lunga lo Stato più popoloso dell’Unione, era previsto lo stesso numero di voti che per gli altri tre “grandi”, ma ciò era compensato da una clausola che permetteva, su richiesta, di fare intervenire l’elemento “popolazione”, e anche da un aumento sensibile del numero di membri tedeschi al Parlamento europeo. Inoltre, il sistema di Nizza attribuiva un peso eccessivo alla Spagna e alla Polonia: questa concessione era il prezzo pagato dalla presidenza francese del Consiglio perché questi due Stati accettassero che la Francia e gli altri due “grandi” conservassero la stessa ponderazione della Germania.
L’entrata in vigore del Trattato, ritardata dall’esito negativo del referendum irlandese (v. Irlanda), poi corretto da un secondo referendum, avvenne il 1° febbraio 2003. Il calendario fissato dal trattato di adesione – che venne firmato poco dopo, il 26 febbraio – prevedeva l’applicazione della ponderazione “di Nizza” dal 1° novembre 2004, data prevista per l’entrata in funzione della Commissione a 25 (rinviata poi al 22 novembre). Il Trattato di Nizza rendeva certamente possibile l’ampliamento. Ma la soluzione trovata per la ponderazione dei voti al Consiglio venne criticata per la sua complessità e la sua poca trasparenza. Secondo questa ponderazione, infatti, la maggioranza qualificata era più difficile da raggiungere e il bloccaggio più probabile che nel passato, mentre in una Unione allargata l’esigenza dell’efficacia imponeva tutto il contrario.
La Conferenza intergovernativa si era svolta parallelamente al dibattito sulle prospettive federali dell’integrazione aperto da Joschka Fischer, proseguito dopo la sua conclusione. Su richiesta della Germania, una “dichiarazione sul futuro dell’Unione”, allegata al Trattato, aveva precisato che la riflessione doveva continuare. Alla data dell’entrata in vigore del trattato di Nizza, i lavori sul Trattato costituzionale (v. Costituzione europea) erano già a uno stadio avanzato.
Il Trattato di Lisbona
Il Consiglio europeo del 21-22 giugno 2007, con presidenza tedesca, dopo un difficile negoziato, dava mandato alla conferenza intergovernativa di negoziare un nuovo trattato, chiamato Trattato “modificativo”. Si chiudeva così la cosiddetta “pausa di riflessione” che aveva fatto seguito al risultato negativo dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi (rispettivamente il 29 maggio e il 1° giugno 2005) sul Trattato costituzionale del 2004. Il Trattato era stato ratificato da 18 Stati membri, ma era impossibile trovare una soluzione alla crisi aperta dai due referendum mantenendo il testo originario.
La soluzione trovata dal Consiglio europeo fu quella di un nuovo trattato che riprendesse nella misura del possibile le innovazioni del Trattato costituzionale, ma rispettando una serie di condizioni. Innanzitutto, il nuovo trattato doveva presentarsi sotto forma di emendamenti ai trattati esistenti, senza abrogarli né sostituirli interamente, dimostrando così che non si trattava di un salto qualitativo con valore costituzionale, ma di una revisione di tipo tradizionale. Ciò avrebbe anche giustificato, a livello nazionale, il ricorso a una procedura di ratifica parlamentare piuttosto che al referendum (a meno che questo fosse giuridicamente obbligatorio, come in Irlanda). In secondo luogo, andavano escluse dal nuovo trattato le disposizioni considerate a carattere costituzionale, come l’inclusione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (a cui il trattato avrebbe fatto semplicemente riferimento) e la menzione dei Simboli dell’Unione europea: l’inno, la bandiera, la divisa, la denominazione di “ministro europeo degli Affari esteri” (sostituita da quella di “Alto rappresentante”) o quella di “leggi dell’Unione” ecc. Nell’insieme, tuttavia, si può dire che il 90% delle innovazioni previste dal trattato costituzionale era conservato, anche se, in qualche caso, si rese necessario concedere clausole di opting out o deroghe. Il trattato “modificativo” così concepito veniva firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007. L’entrata in vigore era prevista per il 1° gennaio 2009 se tutte le ratifiche fossero intervenute in tempo.
Il Trattato di Lisbona introduce numerosi cambiamenti nei trattati CE e UE, modificandone in parte la struttura. Il “Trattato sull’UE”, che conserva il suo nome, contiene soprattutto disposizioni generali e istituzionali, oltre a quelle sulla PESC. Il “Trattato istitutivo della CE” diviene “Trattato sul funzionamento dell’UE” e riprende soprattutto le politiche. Non c’è più distinzione tra Comunità e Unione, esiste un’unica Unione europea, dotata della personalità giuridica (v. Personalità giuridica dell’Unione europea). Almeno formalmente, i “pilastri” quindi spariscono.
Alcune modifiche riguardano le istituzioni. Il Consiglio europeo è ormai istituzione distinta dal Consiglio, con presidenza di due anni e mezzo, rinnovabile una volta; il Parlamento ha un numero di seggi limitato a 751 e poteri rafforzati; la Commissione sarà a composizione ridotta a partire dal 2014; l’“Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”, che presiede il Consiglio affari esteri, con un ruolo di iniziativa e di esecuzione, è al contempo vicepresidente della Commissione e si avvale di un “servizio europeo dell’azione esterna”; i parlamenti nazionali ottengono un certo ruolo in tema di controllo della sussidiarietà; infine, è prevista l’istituzione di forme di democrazia partecipativa e di iniziativa legislativa dei cittadini.
Altre modifiche riguardano il calcolo della maggioranza qualificata in seno al Consiglio (Duplice maggioranza), degli Stati e della popolazione, dal 2014; il numero dei casi in cui il Consiglio può votare a maggioranza, che viene esteso in modo significativo; la ripartizione di competenze tra Unione e Stati membri, che viene precisata; l’azione esterna dell’Unione, che comprende la PESC e le politiche esterne ex CE; la difesa (v. Politica europea di sicurezza e difesa); lo spazio comune di giustizia, libertà e sicurezza, che viene “comunitarizzato”; alcune altre politiche o azioni, come l’energia (v. Politica dell’energia), l’ambiente, gli affari sociali, la ricerca spaziale (v. Politica della ricerca spaziale), la protezione della salute, la salvaguardia dei servizi pubblici; la procedura di bilancio, che viene semplificata; le “cooperazioni rafforzate”, che sono ormai possibili in tutti i settori di competenza non esclusiva dell’Unione.
A differenza di altri trattati qui descritti, quello di Lisbona non è stato accompagnato da dichiarazioni che esprimessero l’auspicio di progressi ulteriori. L’obiettivo, infatti, era di uscire dall’impasse istituzionale e assicurare all’Unione le riforme essenziali, senza correre nuovi rischi in sede di ratifica. Si può tuttavia prevedere che, con l’esperienza del funzionamento del Trattato di Lisbona, e in funzione delle sfide future che dovrà affrontare l’Unione, nuove revisioni potranno apparire necessarie.
Giuseppe Ciavarini Azzi (2009)