Unione europea

Introduzione

L’espressione “Unione europea” è, come si vedrà, di uso abbastanza recente. Compare infatti di rado nella storia dei movimenti per l’unità europea prima dell’ultima guerra mondiale, essendo a essa preferite espressioni contenenti una chiara allusione alla auspicata “Federazione europea”, oppure agli “Stati Uniti d’Europa” (v. anche Federalismo), come già da decenni era nei voti di una esigua minoranza di scrittori e politici. Tra i documenti diplomatici del primo dopoguerra, solo il memorandum presentato il 1° maggio 1930 dal ministro degli Esteri francese Briand parla esplicitamente di “Unione europea”. Ricordiamo che esso fu discusso dinnanzi alla Commissione europea della Società delle Nazioni, che lo accolse con molta freddezza e fu “seppellito poi” dall’Assemblea (v. Ducci, Olivi, 1970, pp. 40-56).

Fa eccezione un’iniziativa (una delle prime del dopoguerra) che, seppur limitata, vale la pena di ricordare, perché una delle primissime e perché seguiva di due giorni il famoso discorso di Winston Churchill a Zurigo il 19 settembre 1946. A pochi chilometri da quella città si riunì a Hertenstein, il 21 settembre appunto, un folto gruppo di Federalisti europei (v. Movimento federalista europeo): svizzeri, francesi tedeschi, olandesi. L’ispiratore era Hendrik Brugmans, un professore olandese destinato a diventare un personaggio notevole nelle vicende dei movimenti federalisti europei, che redasse e fece approvare un documento chiamato poi il “Programme d’Hertenstein”, che fu poi all’origine dell’Unione europea dei federalisti nel dicembre 1947. Il programma postulava la creazione, su basi federaliste, di una “Unione europea”, prefigurata come unione regionale nel quadro delle Nazioni Unite mediante cessione parziale di sovranità da parte degli Stati europei (R. Ducci, B. Olivi, 1970, pp. 77-78).

Dopo di allora non si ricordano casi analoghi, tanto meno nei documenti ufficiali nazionali e internazionali, sino al comunicato della Conferenza al vertice (v. Vertici) dei capi di Stato e di governo della Comunità europea (Comunità economica europea) tenutasi a Parigi il 19 e 20 settembre 1972. Esso era preceduto da una “dichiarazione politica” che terminava con la seguente proclamazione: «Gli Stati membri della Comunità, che è l’elemento motore della costruzione europea, affermano il proposito di trasformare, entro la fine del decennio in corso, l’insieme dei loro rapporti in una Unione europea» (v. Olivi, 1979, p. 183). Il Vertice di Parigi era stato voluto dal Presidente francese Georges Pompidou per segnare una svolta “politica” e programmatica alla Comunità alla vigilia dell’entrata effettiva del Regno Unito nella Comunità, esigendo l’approvazione di tutti i nove membri della Comunità allargata. Al tempo stesso, Georges Pompidou intendeva dare l’avvio concreto alla nuova politica europea della Francia, ben distinguendosi dalle idee e dalle azioni del suo predecessore Charles de Gaulle, al tempo stesso mettendo in qualche modo alla prova la discussa “fede comunitaria” dei britannici. Occorre peraltro ricordare che la “dichiarazione politica” e il “comunicato finale” del Vertice di Parigi del 19-20 ottobre 1972 avevano contenuti assolutamente insoliti. Si trattava davvero, nell’insieme, di un vero e proprio “manifesto” sull’avvenire dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), formulato quasi per celebrare, con la fine del gollismo, anche l’inizio di un periodo di progresso dell’integrazione europea, con l’indicazione di nuovi obbiettivi anche “politici”, essi pure totalmente nuovi. La Francia voleva riprendere (quasi una sfida alla nuova realtà gravida d’interrogativi, determinata dall’adesione del Regno Unito) la “guida” politica dell’unificazione europea. Il documento era importante, ma il suo contenuto fu presto travolto dalla crisi seguita allo choc petrolifero del 1973 allo scoppio della cosiddetta “guerra del Kippur” che provocò in Europa una lunga e penosa paralisi dell’integrazione.

In ogni caso, fu questo l’avvenimento che promosse ufficialmente l’“Unione europea” come traguardo di un’evoluzione e quindi di una trasformazione ultima delle Comunità europee sino ad allora costituite e funzionanti, segnando di fatto (ma anche formalmente in un comunicato di una riunione al Vertice dei capi di Stato e di governo) la fine semantica delle espressioni considerate inadatte, politicamente utopiche e persino fuorvianti quali la “Federazione europea”, gli “Stati Uniti d’Europa” e simili.

Del resto, nonostante le reticenze e anche le opposizioni, persino le personalità più fedeli alla tradizione dei movimenti federalisti finirono per accettare l’espressione di cui si tratta, considerandola peraltro come “onnicomprensiva” e comunque adatta allo scopo, e cioè all’indicazione generica di una forma definitiva dell’unificazione europea. Ne è dimostrazione illustre l’esempio del progetto di Trattato sull’Unione europea approvato il 14 febbraio 1984 dal Parlamento europeo detto altrimenti “progetto Spinelli” (v. Spinelli, Altiero) dal nome del suo promotore, di cui si dirà più oltre.

Il “Rapporto Tindemans”

Nello stesso Vertice dell’ottobre 1972, i capi di Stato e di governo della Comunità avevano chiesto alle Istituzioni comunitarie di elaborare un rapporto sugli obbiettivi formulati in quella occasione a proposito di una costituenda “Unione europea”, obbiettivo confermato nei successivi Vertici a Copenaghen nel dicembre 1973 e di nuovo a Parigi nel dicembre 1974 (che fu l’ultimo dei “Vertici” poiché in quell’occasione fu deciso che da allora in poi una riunione di quel genere si chiamasse “Consiglio europeo”). In quest’ultima occasione, i nove governi (non soddisfatti del contenuto dei vari “rapporti” elaborati dalle istituzioni, Commissione europea, Parlamento europeo in particolare) si erano accordati affinché un “piano globale” sul tema fosse redatto dal primo ministro belga Léo Tindemans entro la fine del 1975. Tindemans accettò l’incarico, presentando al Consiglio europeo il 29 dicembre 1975 un rapporto dal titolo “Unione europea” (“Bollettino delle Comunità europee”, supplemento 1/76, 1976).

Il breve rapporto (34 pagine in tutto) rispondeva in modo succinto ma esauriente ai quesiti posti dal Consiglio europeo. Tuttavia non si poneva come obbiettivo finale e concreto la trasformazione delle Comunità esistenti in un nuovo complesso istituzionale, eliminando per sempre le strutture comunitarie, unificandone le istituzioni e le norme dei Trattati, sostituite da un’unica e comprensiva nuova struttura, avente personalità giuridica propria (v. Personalità giuridica dell’Unione europea). Il complesso di proposte tendeva piuttosto a proporre un ampio e contemporaneo approfondimento dell’integrazione, un aumento ragionato delle Competenze comunitarie nell’ambito del complesso istituzionale allora vigente.

Una rilettura odierna ci consente di valutare i meriti e i limiti della visione d’insieme di Tindemans. Da un lato era chiaro all’autore che l’integrazione europea era giunta al momento delle decisioni “politiche”, intendendosi con ciò che il primo incremento di competenze alle istituzioni dovesse essere appunto “politico” e cioè riguardare innanzitutto l’inclusione della cosiddetta “cooperazione politica” (v. Cooperazione politica europea) tra le competenze comunitarie, quindi procedendo a una vera e propria trasformazione del “carattere” di quest’ultime. Peraltro, non del tutto chiaramente, ma implicitamente, si doveva concludere che l’obbiettivo, e cioè l’Unione europea, che era anche il titolo del rapporto, non poteva essere raggiunto che progressivamente, e come tale non era proposto solennemente come risultato finale dell’approfondimento dell’integrazione delineato nel rapporto.

Con il senno di poi, si può agevolmente affermare che i tempi non erano affatto maturi per una proposta “globale” com’era quella che era stata richiesta a Tindemans. Le idee di “Approfondimento” dell’integrazione venivano dall’epoca di Georges Pompidou, alla vigilia del primo Allargamento comunitario, ed erano politicamente motivate dalla necessità di giustificare in qualche modo il grande mutamento della politica francese e conferire nuovamente alla Francia il primato dell’iniziativa “positiva” nell’integrazione europea. Le vicende seguite in Europa e nel mondo, e soprattutto la crisi causata dal primo choc petrolifero in cui stentava a sopravvivere l’integrazione europea, non potevano peraltro incoraggiare a proposte di tipo “rivoluzionario”.

Alla morte di Gerorges Pompidou era stato eletto alla Presidenza della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing. A lui toccò in sorte di partecipare al Consiglio europeo dell’Aia, che il 30 novembre 1976 seppellì in pratica il Rapporto Tindemans tra i mille e più progetti disattesi e dimenticati negli archivi dell’integrazione europea.

Il progetto di Trattato sull’Unione europea

Il progetto di Trattato sull’Unione europea, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 elaborato e condotto a compimento su iniziativa di Altiero Spinelli, prevedeva, nell’ambito di un compiuto disegno di trasformazione delle Comunità europee esistenti e dei Trattati relativi, la costituzione di un’Unione europea avente personalità giuridica, un vero “salto di qualità” rispetto alla situazione esistente (v. Angelino, 2003, p. 284 e ss.). Per la prima volta, dunque, l’Unione europea veniva proposta come espressione indicativa di una nuova organizzazione dell’integrazione europea, della quale venivano indicate le competenze e gli obbiettivi – per la prima volta il termine “sussidiarietà” (v. Principio di sussidiarietà) veniva usato per precisare i limiti rispettivi di competenze dell’Unione e degli Stati membri. Il tutto appariva un’opera di insolito valore anche “costituzionale” che avrebbe dovuto, nelle speranze dei promotori, fornire agli Stati membri, cui spettava il diritto della sua adozione formale, un progetto completo e coerente, frutto non certo di entusiasmi utopici, ma di riflessioni competenti e storicamente puntuali.

Nonostante la validità oggettiva del progetto – e anche la migliorata congiuntura economica e politica che si constatava in Europa nella prima metà degli anni Ottanta –, il progetto Spinelli non ebbe successo. Eppure i suoi 87 articoli, con stringata chiarezza, erano il frutto di un lavoro condotto con estrema validità tecnica da un’équipe animata dal fervore intellettuale senza pari di un personaggio che aveva tenacemente perseguito l’obbiettivo dell’unità europea durante una vita consacrata interamente ad esso. L’azione dell’Unione prevista dal progetto doveva progressivamente realizzare compiutamente l’unità europea, avvalendosi del «diritto creato dalle Comunità europee» (art. 7/2). Il progetto precisava i limiti e i campi rispettivi dell’azione comune e della cooperazione, distinguendo i metodi con inusitata chiarezza. In breve, la realizzazione compiuta dell’unità europea era affidata all’Unione europea secondo ritmi e scadenze certamente non utopici.

Nonostante l’apparente sconfitta del Parlamento europeo (il testo del progetto giacque per anni sul tavolo del Consiglio, senza che mai fosse seriamente esaminato e discusso) grande può essere giudicata, seppur con il senno di poi, l’importanza politica della sua creazione e del suo contenuto. Si può innanzitutto affermare che esso dette il via al lungo periodo delle riforme, e cioè a quell’incessante dibattito sulle modifiche da apportare ai trattati fondatori dell’integrazione che seguì per decenni sino ai giorni nostri. Inoltre, esso ha sicuramente fornito materiale di discussione e di studio ai negoziatori degli anni seguenti, a cominciare da quelli che prepararono l’Atto unico europeo, prima importante riforma dei Trattati di Roma. Infine, con il progetto Spinelli, l’espressione “Unione europea” entrò definitivamente nel lessico dell’Europa comunitaria, sino alla sua recente consacrazione nel Trattato costituzionale dell’Unione europea (v. Costituzione europea) adottato a Bruxelles dai capi di Stato e di governo dei 25 Stati membri il 19 giugno 2004.

L’Unione europea nel Trattato di Maastricht

L’Unione europea nasce con il Trattato di Maastricht, firmato in quella città il 7 febbraio 1992, e detto anche “Trattato sull’Unione europea”. In verità (e a sostanziale differenza da quanto prevedeva il progetto di Trattato del Parlamento europeo) l’Unione europea non nasceva dotata di personalità giuridica, che continuava ad essere appannaggio delle Comunità preesistenti; solo la Comunità economica europea (CEE) diventava più semplicemente “Comunità europea”. La nuova creatura aveva quindi essenzialmente una finalità politica, quella di riunire “politicamente” l’insieme di strutture, legislazioni comunitarie, accordi interstatali e quant’altro fosse stato deciso nel contesto dell’integrazione europea.

Più precisamente, seguendo la bizzarra (ma ormai generalmente ammessa in pratica, in politica e in dottrina) teoria dei “tre pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea) costruiti dal Trattato di Maastricht, l’Unione europea doveva essere considerata come una specie di “mantello” avvolgente i tre pilastri, ciascuno dei quali conservava la propria “autonomia” giuridica. Per il primo pilastro, in quanto relativo alle riforme riguardanti le Comunità europee, la questione della personalità giuridica non si poneva, essendo le Comunità fornite di personalità e capacità giuridica. A sua volta, nel caso del secondo pilastro, concernente Politica estera e di sicurezza comune (PESC), la questione era fuori luogo, trattandosi di “cooperazione” tra gli Stati membri, che conservavano appunto piena “capacità” e quindi responsabilità giuridica della cooperazione stessa, così come nel caso del terzo pilastro, concernente la cooperazione in materia di Giustizia e affari interni (CGAI).

Peraltro, che il Trattato (e quindi l’Unione europea che esso crea) sia soltanto una tappa del processo dell’integrazione, è detto chiaramente nel titolo I. La formulazione proposta dalla maggioranza dei negoziatori – «processo graduale che conduca ad un’Unione a vocazione federale» – non era stata approvata a causa dell’insuperabile opposizione dei britannici, cui ripugnava qualsiasi accenno ad una Federazione (v. Gerbet, 1994, pp. 464). Questo può ben spiegare perché alla neonata Unione non fosse attribuita la personalità giuridica, e che quindi essa in quanto tale non avesse alcuna capacità di agire, il che ha provocato conseguenze e difficoltà notevoli (e talvolta bizzarre) nel corso dell’attuazione del Trattato.

L’art. A del titolo I (al 3° paragrafo) dice espressamente che «l’Unione è fondata sulle Comunità europee e sulle politiche e forme di cooperazione previste dal presente Trattato. La sua missione è di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli». Il linguaggio alquanto enfatico manca con evidenza di chiarezza giuridica, che non è la qualità prima anche degli articoli successivi, laddove si indicano gli obiettivi dell’Unione e il suo quadro istituzionale.

Peraltro, e per virtù di paradosso, con il passar del tempo, l’espressione “Unione europea” ha assunto un’importanza politica che ha relegato in secondo piano il soggiacente – e teoricamente preponderante – problema giuridico: il suo uso generalizzato, la sua funzione unificante, la facilità della locuzione, e, infine, la sua “neutralità” ideologica hanno finito per consacrarne la validità pratica. Da Maastricht in poi, qualsiasi dibattito sul presente e sull’avvenire dell’integrazione europea ha avuto per oggetto l’“Unione europea”, essendo questa espressione entrata senza contestazione nel linguaggio diplomatico e nell’uso generale.

La situazione giuridica formale non è stata significativamente modificata dai risultati delle Conferenze intergovernative (CIG) che hanno prodotto il Trattato di Amsterdam del 1998 e il Trattato di Nizza del 2000. È continuato in quelle occasioni il lungo paradosso concepito dal Trattato di Maastricht, e quindi viene confermato quell’“ibrido giuridico” della “non entità legale” dell’Unione europea, un ibrido creato appunto per indicare e collegare “politicamente” entità fornite di personalità e capacità giuridica come le Comunità europee e attività e obbiettivi distinti e differenti (ma giuridicamente imputabili soltanto agli Stati partecipanti) come la “politica estera e di sicurezza comune” (PESC) e la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Ciò era frutto della reticenza degli Stati membri a conferire all’Unione, in modo chiaro e quindi inequivocabile (soprattutto per i paesi terzi) quella funzione fondamentale che si attribuisce ad una entità legalmente e quindi politicamente rappresentativa di una struttura nuova ed unificante.

Com’è ovvio e risaputo, il grave paradosso e gli equivoci conseguenti erano perfettamente voluti da quasi tutti gli Stati membri, i quali non erano stati in grado di affrontare – e risolvere – il problema ormai ultradecennale della vera riforma dell’integrazione europea, e cioè la scelta definitiva di una nuova struttura unificante e unica. Tuttavia era impossibile rinviarla ancora a lungo, soprattutto dopo la conclusione ingloriosa dell’ultima CIG, quella del 2000 e del Trattato di Nizza.

A Laeken, nei dintorni di Bruxelles, su impulso della presidenza belga (v. Presidenza dell’Unione europea), il Consiglio europeo del dicembre 2001 affrontava finalmente la necessità della “grande riforma”. L’urgenza, già da tempo percepita, era diventata politicamente pressante, e nel breve periodo persino paralizzante, essendo ormai in corso – e ormai avviati a compimento – i negoziati con dieci paesi candidati, ed era convinzione indiscussa che la situazione creatasi dopo il Trattato di Nizza non sarebbe stata sopportabile da una Unione a 25 membri. L’iniziativa belga era “onnicomprensiva”, e cioè mirava a provocare la revisione di tutte le questioni in sospeso, e non soltanto quelle poste dall’imminente allargamento a 25 membri, proponendo che, al posto di una Conferenza intergovernativa del tipo tradizionale e ormai discreditato, fosse convocata una “Convenzione” (v. Convenzioni) e cioè un’Assemblea composta dai rappresentanti dei governi, delle istituzioni europee e dei parlamenti nazionali, al fine di esaminare e rispondere a 67 “quesiti” sulla riforma dei Trattati europei esistenti, posti dal Consiglio europeo. Il risultato dei lavori, ancorché sottaciuto, doveva portare a un progetto di “Costituzione europea” com’era ormai nei voti quasi unanimi.

L’approvazione della risoluzione di Laeken dette quindi vita alla Convenzione europea, riunita per la prima volta a Bruxelles il 28 febbraio 2002. Dopo quasi 18 mesi, il presidente della Convenzione, Valéry Giscard d’Estaing, annunciava al Consiglio europeo riunito a Salonicco il 19 e 20 giugno 2003 l’imminente fine dei lavori e il completamento di un progetto di “Costituzione europea”, che veniva quindi inviato alle istituzioni e ai governi alla fine dei lavori della Convenzione il 10 luglio 2003.

Vale la pena di ricordare che uno dei momenti più drammatici e decisivi dei lavori della Convenzione, fu quando Giuliano Amato, vice presidente della Convenzione e presidente del Gruppo di riflessione n. 3 sulle “conseguenze della personalità giuridica dell’Unione”, presentò alla sessione plenaria di settembre 2003 il suo primo rapporto, perorando senza esitazioni l’esplicita attribuzione della personalità giuridica all’Unione, nonostante le inattese perplessità di Giscard d’Estaing, ottenendo l’unanime approvazione dell’Assemblea.

Risolta subito e con grande successo tale questione preliminare, era chiaro che le conseguenze sarebbero state di grandissima importanza, se non altro perché tale riconoscimento rendeva ovvia la natura “costituzionale” della grande riforma (sulla presentazione del rapporto Amato v. Dauvergne, 2004, p. 81 e ss.).

L’approvazione del rapporto Amato, convinta e unanime, chiuse definitivamente qualsiasi dibattito sulla questione e aprì la via alle decisioni successive sulla fusione dei Trattati, le competenze delle istituzioni, ecc. Va inoltre ricordato che nel corso dei negoziati, talvolta drammatici, della CIG (apertasi a Roma il 1° ottobre 2003 e conclusasi a Bruxelles il 18 giugno 2004), da nessuna delegazione partecipante fu sollevata obiezione alcuna alle conclusioni della Convenzione concernenti la definizione e la struttura dell’Unione europea.

Il “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” venne firmato a Roma il 29 ottobre 2004. A partire da quella data, furono avviate nei venticinque membri comunitari le procedure di ratifica, che, dopo i voti contrari nel 2005 dei cittadini di due Stati fondatori (Francia e Paesi Bassi) subirono una drastica battuta d’arresto.

Dopo una “pausa di riflessione”, il tentativo di riforma fu rilanciato nel corso del 2007 e le linee guida di un nuovo Trattato europeo vennero gettate durante il Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e il 22 giugno 2007. La nuova Conferenza intergovernativa (CIG) iniziava il 23 luglio i lavori per definire le modifiche giuridiche necessarie per elaborare il nuovo Trattato, che sarebbe dovuto entrare in vigore nel 2009, modificando e riformando i Trattati esistenti. Il 3 ottobre, la CIG licenziava la bozza definitiva del nuovo Trattato europeo poi discussa a Lussemburgo il 15 ottobre dai ministri degli Esteri dei 27 paesi membri e il 18 ottobre dai capi di Stato e di governo. Il 19 ottobre 2007 il testo era approvato durante il vertice informale di Lisbona dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea e firmato, di nuovo a Lisbona, il 13 dicembre 2007 (v. Trattato di Lisbona). A norma dell’articolo 6, il Trattato avrebbe dovuto essere ratificato dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali, e sarebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 2009, se tutti gli strumenti di ratifica fossero stati depositati (altrimenti, il primo giorno del mese successivo all’avvenuto deposito dell’ultimo strumento di ratifica).

Accanto all’approfondimento, non si può dimenticare che nel corso degli ultimi anni l’Unione europea ha conosciuto il più grande ampliamento della sua storia: dal 1° maggio 2004, sono diventati membri comunitari Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Malta e Cipro e il 1° gennaio 2007 hanno fatto il loro ingresso anche Romania e Bulgaria.

Bino Olivi (2008)