Presentazione
Abbiamo iniziato a immaginare e poi a lavorare a questo Dizionario europeo più di dieci anni fa. Si era appena avviato il corso della moneta unica e le prospettive parevano favorevoli. Oggi il quadro è completamente cambiato e configura attori e problemi assai diversi. Non ci sono solo i sintomi incipienti di una crisi complessiva e della necessità di un rilancio dell’Unione europea. Le difficoltà che nascono dalla gestione della moneta unica dividono i paesi che vi hanno aderito e riaprono la discussione sui fondamenti che a essa presiedono col Trattato di Maastricht.
Gli ultimi anni hanno apertamente mostrato anche le opposizioni che nascono dal processo di globalizzazione, almeno nella forma a esso impressa dall’azione del WTO nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Non è il principio del libero scambio a essere stato respinto, ma il modo in cui è stato attuato, in un arco di tempo assai breve, con un’impostazione radicale che dava per scontati gli effetti della diversità dei mercati del lavoro, le disomogenee normative e le condizioni di fatto che a essi presiedono, vedendo nel processo tecnologico la strada sulla quale si sarebbero incamminati i paesi più avanzati, senza valutare i tempi e i modi, diseguali da paese a paese. E lo stesso sviluppo tecnologico ha avuto poi in questi ultimi anni uno sviluppo superiore a quelle che erano le necessità di concorrenza determinate dal generalizzarsi del libero scambio a livello internazionale, tale da modificare non solo i processi lavorativi, ma la stessa stabilità sociale, con effetti negativi sulle istituzioni politiche, specie quelle democratiche.
Ad avviare il lavoro del Dizionario sono stati degli storici, a cominciare da quelli che firmano questa prefazione, trovando nelle rispettive università, la Libera Università Internazionale di Studi Sociali di Roma e l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e in seguito il Centro Studi sul Federalismo di Torino, diretto all’epoca da Umberto Morelli, il sostegno e il contesto necessario per avviare e proseguire l’opera. I promotori si sono poi giovati della collaborazione di esperti delle istituzioni europee, giuristi, economisti e sociologi, ma l’impostazione storica ne rimane tuttavia il fondamento. Per quanto il Dizionario resti un’opera aperta che verrà continuamente aggiornata nelle sue voci e ne vedrà altre che necessariamente si aggiungeranno a quelle che attualmente lo costituiscono, come tutte le opere che hanno impostazione storica esso rimane inevitabilmente segnato dall’epoca in cui fu concepito, che era di piena adesione allo sviluppo delle istituzioni europee e dei processi di integrazione europea a cui dava luogo.
Il cospicuo materiale qui accumulato, in continua fase di aggiornamento, rappresenta un utile strumento di lavoro anche per aprire strade nuove. V’è dunque continuità in questi approcci, ma quello che vogliamo ulteriormente sottolineare è che solo da ultimo sono emerse con estrema evidenza crepe profonde dell’assetto dato all’integrazione europea nel volgere degli anni Novanta, come mostra anche il documento varato dal Consiglio europeo il 26 marzo 2017 a Roma in occasione del sessantesimo anno dall’avvio del Mercato comune e della Comunità europea.
Ciò che la riflessione storica non ha tenuto presente a sufficienza è che gli eventi succedutisi tra il 1989 e il 1992 non hanno soltanto interrotto alcuni processi in corso, ma ne hanno accelerato e mutato la loro continuità e tradizionale prospettiva. Per gli storici dell’età contemporanea il punto di partenza è sempre stato la fine della Seconda guerra mondiale e il conseguente inizio di quella “fredda”. Gli anni sopradetti rappresentano una cesura per il cumularsi degli eventi. Non solo, dal lato dell’integrazione europea, la caduta dell’URSS ha implicato l’unificazione tedesca e l’allargamento dell’Unione alle ex Repubbliche popolari dell’Est europeo, due fatti che di per sé hanno mutato i rapporti di forza interni al contesto comunitario e di riflesso a quello geopolitico, congiunti inoltre all’avvio del processo della moneta unica che investiva una parte dei paesi aderenti all’Unione europea. Ma la concomitanza di questi processi ha rilievo con il balzo in avanti, senza precedenti, del libero scambio sul mercato internazionale. Questo sovrapporsi di nuove prospettive caratterizza gli ultimi venticinque anni. Il processo di globalizzazione ha tra l’altro modificato il rapporto tra l’Unione e i paesi membri, giacché fino ad allora questa ha rappresentato un “limes” protettivo del mercato interno, che la globalizzazione attenuava, portando con sé nuovi problemi che ne accrescevano potenzialmente, d’altra parte, il ruolo in termini geopolitici, come mostrano i fenomeni cogenti dell’emigrazione, del terrorismo, del rapporto con la Russia, il connesso mutamento della funzione della NATO. Mentre il tema “politico” dell’Unione ha acquisito così oggettivamente un sempre maggiore spessore, molte riflessioni critiche, non solo d’ordine politico, ma storico, economico e politologico hanno ravvivato di recente il dibattito sull’Europa. Più lenta la presa di coscienza politica, soprattutto per quanto concerne le soluzioni da mettere in campo per proporre una modificazione profonda delle istituzioni e delle procedure europee. Continuano a essere ancora formulate ipotesi attraverso cui i singoli paesi dovrebbero adeguarsi a un mutamento delle istituzioni europee, senza che venga delineato nessun punto plausibile di arrivo. Una carenza di reali prospettive che dovrebbero essere colmate nei prossimi mesi in seguito alle elezioni presidenziali in Francia e a quelle legislative in Germania, che ci permetteranno di capire se il cuore dell’Unione continuerà a funzionare come nel passato.
Se si guarda indietro, il problema del passaggio a una vera e propria Unione politica è stato all’ordine del giorno altre volte. Così ad esempio è avvenuto nel 1990 con l’avvio di una Conferenza intergovernativa (CIG) che avrebbe dovuto correre parallela a quella che poi, nel dicembre 1992, portò al Trattato di Maastricht sulla moneta unica. Si sentì già allora la necessità di sostenere la nuova moneta unica europea con un sistema istituzionale in grado di governare i processi macroeconomici dell’Unione. Del resto problemi come quelli dell’unificazione fiscale e bancaria, ad esempio, sono negli ultimi venticinque anni continuamente tornati alla ribalta. La lettera che allora Helmut Kohl e François Mitterrand inviarono ai membri della Comunità europea per sollecitare ambedue le iniziative, quella monetaria e quella istituzionale, si ispirava a una concezione unica dell’Unione e all’assunzione delle necessarie resonsabilità politiche. Era, quella sollecitazione, anche il segno di un rinnovo del latente patto franco-tedesco, che sempre ha sorretto lo sviluppo dell’integrazione europea, ed era il passo necessario che avrebbe dovuto essere conseguente all’unificazione tedesca. Nessuno dei due volle poi tenervi fede, essendo comunque arduo avere sia sulla moneta, sia su nuove istituzioni europee il consenso dei rispettivi paesi. Il Trattato sulle istituzioni europee non emerse al fianco di quello per la moneta unica, ed ebbe una scia ingloriosa negli anni seguenti con le vicende intorno alla nuova Costituzione europea. Ma già allora ne fu frenato il corso. Mitterrand volle che la Francia si pronunciasse con un referendum popolare sulla moneta unica, che passò, nel 1993, con un esiguo margine di voti. Probabilmente aveva valutato che quello sulla Costituzione europea non sarebbe stato approvato.
Questo approdo negativo rinvia a una considerazione complessiva sull’intera storia della costruzione europea. A questo fine bisogna risalire a un momento decisivo del suo iniziale percorso, quello che con il piano di René Pleven vide l’avviamento delle trattative per una Comunità europea di difesa (CED) e portò al trattato che il 30 agosto 1954 venne respinto dall’Assemblea nazionale francese. In questa vicenda sono già presenti tutte le contraddizioni che hanno accompagnato i sessant’anni seguenti della storia europea. La Francia era uscita dalla Prima guerra mondiale vincitrice, ma intimamente spossata dal grande sforzo compiuto, dominata dalla preoccupazione di mettersi definitivamente al riparo da una ripresa bellica della potenza tedesca. Nella Seconda guerra mondiale non aveva potuto evitare la sconfitta, ma schierata con le altre potenze al tavolo dei vincitori, con la pace ritrovata, soffriva di un doppio complesso di inferiorità, fronteggiando non sopiti timori verso la Germania ed essendo travolta dal disgregarsi del suo impero coloniale. La prospettiva europea era stata una possibile via d’uscita. Una parte della sua classe di governo l’aveva cautamente perseguita. Robert Schuman era stato il maggiore protagonista di questa stagione, che aveva portato alla fondazione della CECA. Jean Monnet vi aveva contribuito, elaborando la formula di una Comunità che assumeva e amministrava poteri sovranazionali rispetto ai suoi Stati membri su di un tema nevralgico, in pace come in guerra, come quello del controllo della produzione carbosiderurgica. Tedeschi e italiani erano popoli che, usciti sconfitti dal conflitto mondiale, con quella istituzione riassumevano funzioni decisive per le rispettive economie interne. La CECA fu allora certamente la prima pietra miliare del percorso europeo. Non può dirsi che essa si fondasse su di una premessa, né che perseguisse un obiettivo di tipo federalistico. Il possibile approdo a un modello federale di unione europea emerse invece proprio nel dibattito sulla difesa europea, tra il 1950 e il 1953. Ciò avvenne sotto la spinta della guerra di Corea. I sovietici si apprestavano a formare un esercito formato da soldati reclutati nella Repubblica Democratica Tedesca, che era sotto il loro controllo. Erano già avanti con questo progetto, la cui realizzazione era stata momentaneamente interrotta per la difficoltà di costruire una linea di comando che fosse anch’essa di nazionalità tedesca, e queste modalità, per l’analogia con l’avvio della guerra di Corea, destavano profonde preoccupazioni. Gli americani spinsero per un aumento del contributo alla difesa comune da parte degli alleati europei nella NATO e posero il problema del riarmo tedesco. L’idea dell’esercito europeo nacque, non a caso in Francia, per cauterizzare questo necessario evento. Ma un unico esercito europeo era cosa diversa dall’unione di più eserciti nazionali, il cui perno sovranazionale si trovava del resto già nella NATO stessa. Si trattava di andare implicitamente oltre lo strumento della sovranazionalità che aveva presieduto alla costruzione della CECA. Fu questo lo snodo concettuale che portò Alcide De Gasperi a proporre l’avvio di una Europa politica nella riunione di Strasburgo del dicembre 1951, seguito poi da Robert Schuman e Konrad Adenauer, idea fissata poi nel trattato dell’art. 38 della CED, che demandava all’Assemblea della CECA la formulazione di un progetto costituzionale di Europa federale. La caduta della CED interruppe questo percorso e il problema del riarmo tedesco trovò soluzione nella NATO, avendo del resto gli americani reso palese che vi avrebbero comunque proceduto.
La vicenda della CED è comunque l’unica in cui, fino alle iniziative degli anni Novanta di cui si è detto, il tema federale fu fatto proprio da una parte delle classi dirigenti europee; tema del quale in particolare avevano preso coscienza De Gasperi, Schuman, Adenauer, Spaak e lo stesso Monnet. Dopo la caduta della CED, la costruzione europea fu ripresa, cavalcando due obiettivi, quello del Mercato comune e quello dell’energia atomica. Quest’ultimo aveva rilevanza soprattutto per i francesi che volevano intraprendere la strada di un loro armamento nucleare e per sostenerne i costi, soprattutto per i processi di arricchimento dell’uranio, contavano sulla cooperazione europea, in una partita in cui gli USA erano contrari alla realizzazione di un tale armamento autonomo della Francia. Il modello istituzionale preconizzato dal trattato della CED veniva abbandonato e tornava alla ribalta quello di un’istituzione sovranazionale. Monnet ne era uno dei maggiori promotori. Ma l’EURATOM, nel contrasto tra una sua funzione pacifica e militare, prese forma istituzionale, per poi incepparsi sul versante operativo. Anche la discussione sul Mercato comune si polarizzò su di un modello sovranazionale, che poi fu quello assunto nei Trattati di Roma del 1957. Fu allora proprio l’estensione di quel modello, che portò a parlare di “metodo funzionalista”, nella costruzione delle istituzioni europee. L’integrazione europea si sarebbe conseguita passo dopo passo perseguendo obiettivi circoscritti. La prospettiva di un’Europa federale sfumava in un futuro lontano in cui si sarebbero tirate le somme di questi processi.
Monnet, che attraverso il Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa da lui costituito e mediante la rete di rapporti, non solo europei, ma anche atlantici, aveva molto contribuito a consolidare il metodo funzionalista, certamente connetteva a esso anche la prospettiva di un’Europa federale. Col trattato del Mercato comune la definizione dei poteri di gestione della Commissione europea non fu improntata a rigidità, consentendo a quest’ultima di intervenire con una non del tutto definita latitudine, anche se le sue deliberazioni richiedevano di essere poi sottoscritte dal Consiglio dei ministri, composto dai rappresentanti dei governi dei paesi aderenti. Tale sistema, agli inizi, spinse la Commissione, specie sotto la presidenza del tedesco Walter Hallstein, a procedere in modo assai incisivo. Il metodo di governo proposto risultava così una commistione di impulsi federalistici in una cornice istituzionale confederale di cui rimanevano protagonisti gli Stati nazionali. E questa ambivalenza, così intrinseca a quel modello di autorità sovranazionale, improntata a finalità funzionali, fu nella sostanza la ragione della sua prima crisi istituzionale, di cui fu protagonista de Gaulle. Crisi profonda, che durò un biennio e che ebbe il suo acme nella seconda metà del 1965, andando sotto il nome di crisi “della sedia vuota”, per il ritiro della Francia dal Consiglio dei ministri della Comunità.
Non è un caso che quella vicenda passasse attraverso il rifiuto, da parte degli altri paesi membri, della proposta francese, contenuta nelle due successive versioni del piano, che fu elaborato da Christian Fouchet di cui porta il nome e la cui impronta, nella seconda versione, ancora più netta che nella prima, era dichiaratamente ispirata a un modello confederale che mutava integralmente l’impostazione sovranazionale dei Trattati di Roma. Il compromesso, in fine raggiunto, lasciò una traccia profonda di quell’intervento impresso da de Gaulle nelle procedure di decisione della Comunità. Non venne riproposta, in principio, la pregiudiziale dell’unanimità, ma questa divenne comunque il presupposto delle prassi in seguito adottate. Fu in realtà una vittoria di de Gaulle, quale ne sia stato allora il giudizio politico e in seguito quello della storiografia, giacché le istituzioni comunitarie, così interamente ricondotte al loro ruolo funzionale, non intralciarono più il disegno gollista. La Francia tornava anzi ad accudire i propri interessi comunitari, mentre de Gaulle tramutava il proprio disegno confederale nel tentativo di costruire, all’esterno della stessa esperienza comunitaria, un rapporto privilegiato tra Francia e Germania e di lanciare la sua ipotesi di un’Europa che potesse estendersi “dall’Atlantico agli Urali”. Era un disegno quest’ultimo che scavalcava anche la frattura della “guerra fredda” e che trovò il suo corrispettivo nell’uscita della Francia dall’organizzazione militare della NATO, sebbene non dal Patto atlantico. Disegno che non ebbe allora un avvenire possibile, perché le due alleanze che avevano costruito la Comunità europea e quella atlantica erano state concepite come tra loro intrinsecamente connesse. Ciò, tra l’altro, risaltò in modo particolare con la visita di John Kennedy a Berlino che rafforzò in Germania questa pregiudiziale, peraltro mai dismessa dal suo governo. Questo tema aveva un suo fondamento nella plurisecolare storia europea e non a caso si sarebbe oggettivamente riproposto come plausibile con la fine della guerra fredda, lasciando tuttavia irrisolto ancora oggi il problema del rapporto tra l’Unione europea e la Russia.
La crisi del 1962-1964 ha segnato in realtà un punto focale della vicenda comunitaria, consistente nel ripresentare nei termini nuovi della istituzionalizzazione dei rapporti comunitari il problema dell’equilibrio tra gli Stati nazionali europei, che rimaneva non interamente risolto. Questi ultimi non potevano più dirsi “potenze”, come tradizionalmente erano state fino alla Seconda guerra mondiale. Ma la consapevolezza di ciò, con motivazioni ed esperienze diverse, sia per l’Inghilterra, sia per la Francia, malgrado l’evidenza di quel declino che la fine della guerra aveva palesato, sarebbe maturata lentamente nei quindici anni seguenti, con il processo inesorabile di decolonizzazione, che gli Stati Uniti da parte loro patrocinavano. Il momento decisivo fu indubbiamente nel 1956, con la vicenda di Suez, che avrebbe avuto, indirettamente, anche l’effetto di dare una spinta alla conclusione dei Trattati di Roma e che, per un tratto, tramutò il tradizionale divario di interessi coloniali tra la Francia e l’Inghilterra, in una contrapposta concezione sul modo di concepire il Mercato unico europeo e le istituzioni che dovevano a esso presiedere. Diversità di prospettive che vide nel decennio seguente prevalere il disegno continentale della Comunità europea, divenendone un suo punto di forza, e portò al lungo e contrastato processo di adesione a quest’ultima da parte del Regno Unito e continuò, con valenze diverse, a rimanere poi un divario irrisolto, tra questo e gli altri paesi europei, sul modo di concepire l’evoluzione stessa delle istituzioni europee, fino all’ultimo recente atto (ma sarà davvero l’ultimo?) della Brexit.
Storicamente, nel secondo dopoguerra, è rimasto dunque pregiudiziale il problema istituzionale del primato dello Stato nazionale europeo, come nei secoli si era andato sedimentando, nel suo nocciolo essenziale di sovranità. Più analisi pertinenti, dall’angolo visuale di approcci diversi, ci mostrano come questo nocciolo si sia spogliato nel tempo di molti attributi e come l’integrazione europea abbia una parte non secondaria sia in questo processo sia in una densa serie di trattati internazionali, soprattutto quelli sul nuovo regime di libero scambio. Ma, sempre riguardo agli Stati nazionali europei, questo insieme di vincoli non declina affatto una definitiva eclisse della loro pregiudiziale sovranità e neppure una loro risoluzione nel contesto più ampio di comune Stato federale. La realtà storico-politica è piuttosto un’altra. Gli Stati nazionali, in assenza di una soluzione che trasferisca ulteriori elementi costitutivi della loro sovranità a un livello istituzionale superiore, restano il riferimento essenziale e primario dei popoli europei. Questa premessa si pone in contrasto con l’evidenza che nessuno Stato nazionale europeo, neppure la Germania, può da solo aspirare ad avere un ruolo geopolitico pregnante nella comunità internazionale. Tale posizione rimane propria degli Stati Uniti e per una parte non trascurabile della Russia, mentre nel contempo altri paesi, incominciando dalla Cina, competono nell’arena mondiale, e consolidano il ruolo di interlocutori preminenti. A questa constatazione, e in contraddizione con essa, se ne aggiunge un’altra, determinata dal fatto che gli Stati nazionali europei hanno costruito negli ultimi sessanta anni, attraverso le istituzioni dell’Unione europea, un contesto economico, sociale, politico che li porta a svolgere una funzione di grande rilevanza geopolitica, e che il grado parziale di unità istituzionale, costituito dalla integrazione europea, potenzia il ruolo di ciascuno di questi Stati, giacché senza di essi gli altri farebbero un balzo indietro. Il limite di questa sopraggiunta condizione consiste oggi nel non avere più una governance europea all’altezza dei compiti a cui attendere. Questa contraddizione è il nodo che gli Stati nazionali europei dovranno sciogliere riguardo all’Unione europea e a loro stessi.
La storiografia, dopo la Seconda guerra mondiale, ha già proposto il tema del “finis Europae”, principalmente come fine definitiva del ruolo degli Stati nazionali europei come potenze egemoni sulla scena mondiale. Gli ultimi sviluppi dell’integrazione europea ci ripropongono lo stesso tema, sebbene in termini diversi, perché a essere messo in discussione è quanto in Europa si è potuto ricostruire dopo la Seconda guerra mondiale con risultati di tutto rilievo, che non sono stati solo il prodotto dei singoli Stati nazionali ma del loro agire in comune nelle istituzioni europee.
Per stabilire un elemento di continuità storica potremmo dire che si è arrivati al punto decisivo di svolta di un processo che ha avuto inizio non dalla fine del secondo conflitto mondiale, ma dalla Grande guerra. Gli anni Venti furono per un lungo tratto segnati dalla faticosa rincorsa di nuove soluzioni che attutissero gli effetti del Trattato di Versailles. E quel trattato fu insieme l’apice di una concezione egemonica che passava attraverso l’equilibrio tra gli Stati europei e il punto di partenza di un loro definitivo declino. In seguito Hitler avrebbe travolto il corso della storia con il suo disegno di unità europea attraverso la conquista bellica tedesca. Ma dal Trattato di Locarno del 1925, fino a quando presero a manifestarsi gli effetti della crisi del 1929, doveva emergere un’altra ipotesi, che proprio quella imprevista crisi economica avrebbe troncato. Si trattava propriamente di un disegno orientato su due obiettivi: rendere stabile la pace a ovest, sul confine del Reno, lasciando ancora aperto il problema dell’Est europeo, in una non risolta, soprattutto non accettata, definizione di confini tra quelle nazioni. Si aggiungevano a quest’ultima preoccupazione le temute conseguenze dell’esperimento collettivista sovietico, che si andava attuando in Russia, con caratteri tipicamente nazionali, e che nell’immediato dopoguerra le potenze europee non avevano saputo affrontare. L’altro obiettivo era quello di una compenetrazione delle economie dell’Ovest europeo, come supporto tangibile di una effettiva pace europea. Costituiscono una manifestazione evidente di ciò, sia l’azione politica sia le riflessioni, che l’accompagnarono, di due eminenti statisti di allora, il tedesco Gustav Stresemann e il francese Aristide Briand. Questi tentativi ebbero allora per cornice la Società delle nazioni e riflessero in essa sia il loro pregnante significato, sia la loro fragilità, perché quella istituzione postbellica a carattere internazionale era stata segnata dal rifiuto americano di farne parte, segno di una non compiuta maturità degli Stati Uniti a svolgere il ruolo preminente, ormai, negli effettivi rapporti tra nazioni industriali, interamente acquisito e quindi divenuto necessario. Tale ruolo sarebbe poi maturato oltre un decennio più tardi, dopo il New deal di Roosevelt, con un travaglio interno profondo che vide l’altra sponda dell’Atlantico attraversata da un isolazionismo nutrito di tutti i virus che avrebbero, negli stessi anni, sconvolto l’Europa, dal razzismo e dall’acceso antisemitismo a un cieco nazionalismo, seppure contenuto nel quadro di solide istituzioni liberal-democratiche. Va inoltre aggiunto che in quel breve periodo degli anni Venti in Europa si imposero anche, nel dibattito dell’opinione pubblica europea, altre ipotesi, come quella proposta dalle iniziative federalistiche di Richard Coudenhove-Kalergi. Di questi obiettivi sarebbero stati realizzati nel secondo dopoguerra i primi due, l’integrazione economica e la pace tra la Francia e la Germania, la stabilizzazione dell’Est europeo sarebbe tornata alla ribalta come problema dopo il 1989, mentre l’ipotesi ultima di un’Europa federale sarebbe tramontata. E a ciò, per la comprensione storica di questi processi, va aggiunto un corollario. Negli anni Trenta fu una parte, ormai minoritaria, del pensiero politico europeo dominante, quella liberale, a riproporre un’idea federale dell’Europa, ad esempio in Italia con Benedetto Croce e Luigi Einaudi, in Inghilterra con Friedrich von Hayek e Lord Lionel Robbins. E fu dalle sollecitazioni intellettuali di questi ultimi che prese le mosse l’iniziativa del “Manifesto di Ventotene”. Un’idea di federalismo europeo che non riuscì a fare sostanziale breccia nel modo di concepire le istituzioni comunitarie.
La vicenda di Altiero Spinelli ci mostra quale ne fu la parabola incompiuta. Egli, ancora nel 1972, polemizzava con Monnet sulla necessità che la Commissione europea, facendo leva sul proprio ruolo propositivo, si ponesse l’obiettivo di far avanzare la Comunità verso l’approdo federalista. Una polemica tra i due che era iniziata dopo i Trattati di Roma. Monnet era più realista, si era proposto di agire sulle classi dirigenti e aveva costituito un Comitato europeo con lo scopo precipuo di formare uno schieramento europeista all’interno dei singoli paesi. Spinelli aveva costituito un movimento politico federalista, diffuso nei paesi aderenti alla Comunità. Le due iniziative non avevano mai avuto un reale punto di incontro. Anche Monnet aveva inizialmente perseguito un’ipotesi federalistica ma, dopo la caduta della CED, una tale conclusione non gli pareva più a portata di mano e vedeva la sua realizzazione allontanarsi nel tempo, specie dopo la rottura operata da de Gaulle. Gli sembrava così che per il momento, si potessero solo rafforzare gli esiti del modello funzionalista, di cui per altro era stato costante artefice. La figura di Spinelli si ergerà veramente nel panorama europeo soltanto molto più tardi, dopo che questi fu diventato membro della Commissione e poi del Parlamento europeo nella sua prima elezione diretta. Egli raggiungerà l’apice della sua notorietà negli anni Ottanta con il suo progetto di Trattato sull’Unione europea, su cui, proprio nel Parlamento europeo, riuscì a riunire consensi, portando quella assemblea a un voto favorevole al suo disegno. La parabola di Spinelli corre parallela, del resto, al rilancio dell’integrazione europea, che si manifestò nella seconda metà degli anni Ottanta. Nel decennio precedente i paesi europei avevano dovuto affrontare un profondo mutamento nei rapporti internazionali e le conseguenze economiche che ne derivavano, costringendoli a ripiegare su politiche deflazioniste a difesa delle proprie monete in un quadro in cui, chiusa la Golden Age, era venuto meno il sistema di Bretton Woods. Pur verificandosi allora il significativo allargamento della Comunità alla Gran Bretagna, fu solo alla fine del decennio che il presidente francese, Giscard d’Estaing, e il cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, ripresero l’iniziativa europea, patrocinando la costituzione di un nuovo serpente monetario europeo. Fu quello il periodo in cui anche, per l’ultima volta, si intensificò, a opera dell’URSS, la guerra fredda e la solidarietà atlantica e l’integrazione europea furono strade che tornarono a convergere. L’impulso ulteriore venne dal presidente francese François Mitterrand, che nel 1980 vinse le elezioni con un programma di governo tutto centrato sulla politica interna, mettendo la Francia in difficoltà nel contesto europeo, soprattutto dal punto di vista economico. Nel 1982 Mitterrand invertiva la rotta rispetto sia alla politica economica sia comunitaria, e prendeva a puntare a una fase più avanzata di integrazione, facendo, tra l’altro, passare la candidatura di Jacques Delors alla presidenza della Commissione europea. Si aprì allora un periodo di prepotente sviluppo delle istituzioni comunitarie, che comportava l’allargamento della Comunità, tra l’altro, con l’adesione dei paesi dell’Europa meridionale. Fu come se il filo, interrotto da de Gaulle nel 1962, venisse saldamente riallacciato. Il disegno europeo, con l’Atto unico che allargava la liberazione del Mercato europeo, dalle merci, ai capitali e alla forza lavoro e in seguito postulava la realizzazione di una moneta unica europea, faceva un decisivo balzo in avanti. Si realizzava così già allora un livello di integrazione, che necessariamente si proiettava oltre la sua dimensione sovranazionale e nella direzione di un’Europa politica, cioè nella sostanza ultima federale, e il problema, come si è già sottolineato, si pose concretamente accanto all’obiettivo di introdurre la moneta unica europea. Nel dicembre 1990 il Consiglio europeo di Roma avviò due CIG, per conseguire il Trattato sulla moneta unica e quello istituzionale sull’Europa politica, che nasceva dagli impellenti sviluppi assunti dall’integrazione europea che la presidenza Delors aveva posto in essere, ma era pure sollecitata dall’evento imminente dell’unificazione tedesca. Tutti gli altri paesi, segnatamente la Francia, l’Inghilterra e l’Italia, erano consapevoli che il ritorno a una Germania unificata avrebbe alterato i rapporti di forza interni alla Comunità europea. E ciò costituiva una preoccupazione ulteriore per la Francia, che da parte sua intravedeva come si sarebbe anche alterato il rapporto di collaborazione privilegiata con la Germania, attraverso cui, fin dagli inizi, si era assicurata un ruolo preminente nell’Europa comunitaria. Il problema di legare più solidamente possibile la nazione tedesca alla Comunità europea divenne un obiettivo assillante di Mitterrand. Soprattutto il passo ulteriore della moneta unica richiedeva, come corollario, un approdo politico delle istituzioni europee e un più marcato governo unitario dell’economia europea nel suo complesso. Già il serpente monetario, entrato in funzione nel 1979 sulla base di premesse monetariste, nelle analisi espresse dagli stessi responsabili della politica economica di alcuni paesi della Comunità, aveva palesato come quel raccordo tra monete europee avesse sensibilmente favorito il marco e l’economia tedesca. Il Trattato di Maastricht introduceva un sistema necessariamente ancora più rigido e allineava le economie dei paesi che avrebbero aderito alla moneta unica al principio della stabilità dei prezzi che era in sintonia con i presupposti tradizionali dell’economia tedesca. Il mancato approdo, di cui si è detto, della CIG sulla realizzazione di istituzioni politiche comunitarie ha naturalmente acuito questi problemi. È allora iniziato il percorso per approdare a una Costituzione europea, interrotto dall’esito negativo dei referendum del 2005 da parte della Francia e dell’Olanda. In fine si è approdati al Trattato di Lisbona del 2007, stabilizzando un quadro istituzionale dell’Unione europea, intrinsecamente contraddittorio. Nella prassi che ne conseguiva la stessa Commissione sembrava cessare definitivamente d’essere un organo propulsivo dell’integrazione, ma diveniva piuttosto un ente di controllo dei deliberati del Consiglio europeo, a garanzia di un accordo politico tra gli Stati membri, continuamente da rinnovare sulla base dei rapporti di forza esistenti. Invece di un modello federale, ne emergeva piuttosto uno accentuatamente confederale. Un modello che non risolveva il problema della sovranazionalità, congelandone il principio, senza risolvere nella sostanza quello della legittimità democratica dell’Unione, che è stato parzialmente affrontato con insufficienti procedure facenti perno sul Parlamento europeo, senza dissipare la crescente inclinazione burocratica delle istituzioni europee. La tendenza ad approdare a un confuso modello confederale, nell’ultimo venticinquennio è stata accentuata dall’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est europeo, liberati dal dominio sovietico. Come si è accennato i problemi dell’Est europeo sono rimasti irrisolti, o almeno non interamente risolti, a partire dalla fine della Prima guerra mondiale. Con la seconda trovarono il loro assetto negli accordi di Yalta, che determinò tuttavia anche nuove fratture. L’allargamento della Comunità agli inizi degli anni Novanta, ha solo apparentemente costituito un approdo definitivo, non affrontando molte cruciali pulsioni interne a quei paesi, rimuovendo il problema di un rapporto stabile con la Russia. Dove l’allargamento è avvenuto in ritardo, come nella penisola balcanica, le conseguenze sono state traumatiche. Si è così dovuto procedere a un allargamento della Comunità europea, perché se questo fosse stato perseguito solo con la NATO, avrebbe portato a un imprevedibile elemento di instabilità, di cui il caso limite è costituito oggi dall’Ucraina. Ma tale allargamento si è riflesso sull’Unione, accentuandone necessariamente il suo carattere confederale. L’introduzione della moneta unica nel nucleo originario dei paesi comunitari ha introdotto un’altra discrasia. Si parla oggi di Europa “a più velocità”. Ma questo principio è stato già di fatto storicamente incardinato, proprio con i concomitanti processi di allargamento della Comunità europea e con la moneta unica. Nella prospettiva di più velocità istituzionalizzate, si tratta di sapere se i paesi aderenti all’Euro intenderanno procedere verso quella più accentuata unificazione politica, iscritta nelle premesse stesse della moneta unica, riproponendo così, rispetto agli altri, nella futura Unione europea una congiunzione di modelli federali e confederali. Si apre un difficile processo di rifondazione, i cui passaggi successivi richiedono complesse mediazioni e che sarà caratterizzato dagli indirizzi di fondo che verranno assunti. Al momento è difficile prevedere quali saranno. Da essi tuttavia dipende la possibile ripresa o il definitivo declino dell’Unione europea. Da più di venticinque anni l’Unione europea si trova in una fase di transizione che deve volgere al termine. Questi sono stati gli anni che hanno visto la realizzazione della moneta unica e tuttavia sono passati attraverso una fase di sostanziale stallo del complesso delle istituzioni europee, rispetto agli stessi risultati raggiunti. I paesi che costituiscono l’Unione si sono ripiegati su se stessi, come già era avvenuto negli anni Settanta con l’incalzare di eventi che hanno modificato profondamente, dal punto di vista politico, economico e sociale il contesto mondiale che fa loro da cornice. Per ciascuno di essi l’adeguamento alle trasformazioni che si sono verificate non può dirsi compiuto, se i problemi dell’Unione europea non verranno risolti nella consapevolezza che fuori da essa gli Stati nazionali europei non possono che diventare più deboli di fronte alla travolgente competizione che caratterizzerà il prossimo futuro. Nel Dizionario sono raccolti molti materiali che possono essere utili a queste riflessioni. Nel licenziarlo ringraziamo chi ha dato fin dall’inizio un aiuto sostanziale alla sua impostazione: Pier Virgilio Dastoli, Gerardo Mombelli, Bona Pozzoli e Roberto Santaniello, nonché per il suggerimento di molti lemmi e la redazione di numerose voci, di Antonio Varsori e la sua scuola. Altrettanto importante è stato poi il contributo della condirezione di Umberto Morelli, con il supporto del Centro Studi sul Federalismo di Torino. La segreteria di redazione è stata prima costituita da Maria Elena Cavallaro, Pierpaolo Naccarella e Gessica Fedele e poi da Maria Elena Cavallaro e Filippo Maria Giordano, che hanno garantito il filo conduttore e curato la compilazione di quest’opera.
Piero Craveri
Gaetano Quagliariello