La storia dell’integrazione europea: narrative e interpretazioni
La nascita della storiografia dell’integrazione europea
Lo storico inglese John R. Seeley apriva la sua opera più famosa con queste parole: “la storia dovrebbe essere scientifica nel metodo, ma proporsi uno scopo pratico; cioè non dovrebbe semplicemente appagare la curiosità del lettore sul passato, ma modificare la sua visione del presente e le sue previsioni sull’avvenire. Ora, se questa massima è giusta, la storia dell’Inghilterra dovrebbe terminare con qualcosa che potrebbe chiamarsi una morale. Da essa dovrebbe scendere una qualche grande conclusione, essa dovrebbe mostrarci la tendenza generale delle vicende dell’Inghilterra, in tal maniera da indurci a riflettere sul futuro e da farci prevedere il destino che ci è riserbato. […] Poiché il futuro nasce dal passato, il passato dell’Inghilterra dovrebbe permetterci di fare qualche previsione sul suo avvenire” (Seeley 1928: 3-4).
Come sottolineato da Ariane Landuyt, la storiografia è un elemento fondamentale per l’elaborazione della memoria storica di un popolo e, quindi, per la costruzione della sua identità e della sua legittimazione come soggetto storico-politico. Pensiamo all’influenza avuta dalla storiografia nazionale nell’affermare l’idea di nazione e il nazionalismo o dalla storiografia marxista nel far emergere il ruolo del movimento operaio come protagonista della storia. Una storiografia di questo tipo svolge una funzione maieutica di stimolo, suscita un processo di maturazione della consapevolezza tramite lo scavo capillare che investe il problema delle radici, delle origini, in cui la figura dello storico coincide spesso con quella del militante che sollecita il processo di identificazione e contribuisce a far emergere il nuovo soggetto nella sua piena originalità (Landuyt 1989: 299-300; cfr. anche Arfé 1989: 245-262).
La storiografia dell’integrazione europea non fa eccezione, soprattutto quella pionieristica, di ispirazione federalista e volta ad alimentare l’europeismo, coltivata da storici, come Sergio Pistone, convinti, sulla scia di Seeley, della funzione eminentemente pratica della storiografia e che una coscienza politica illuminata abbia la sua base insostituibile in una valida conoscenza dello sviluppo storico, indispensabile per capire il presente e orientare le scelte di cittadini consapevoli (Pistone 1977: 156).
La storia dell’integrazione europea fu avviata a partire dagli anni Settanta non a caso da storici federalisti nella convinzione, appunto, di perseguire “uno scopo pratico, non semplicemente di appagare la curiosità del lettore, e di modificare la sua visione del presente”, di soddisfare, cioè, l’impegno civile di diffondere l’idea d’Europa e la consapevolezza della necessità dell’unificazione del continente per costruire un futuro migliore.
Tra i primi a occuparsi della storia dell’integrazione europea va ricordato Walter Lipgens, storico tedesco di ispirazione federalista che dedicò particolare attenzione al problema delle origini del processo di unificazione durante la Resistenza e nei primi anni del dopoguerra e pubblicò, in collaborazione con Wilfried Loth, una monumentale raccolta di documenti e progetti di unione usciti tra il 1939 e il 1950 (Lipgens, Loth 1985-1991; cfr anche Lipgens 1968; Lipgens 1977). Lipgens fu il primo ad affrontare l’argomento nella sua globalità indagando sia il sistema internazionale degli Stati all’interno del quale l’integrazione si sviluppava sia il ruolo giocato dai governi, dai partiti, dai movimenti europeistici e federalisti.
Pistone sottolinea come l’opera di Lipgens offra alcuni fondamentali contributi conoscitivi (Pistone 1977: 157-165; Pistone 1988: 87-103, n.2). Il primo riguarda l’idea dell’unificazione europea nella Resistenza. Attraverso un’accurata documentazione, Lipgens dimostrò che l’idea dell’unificazione europea era stata proposta da tutti i movimenti antifascisti durante la Resistenza, ad eccezione di quelli comunisti legati all’Unione Sovietica contraria all’unità del continente. Nei paesi europei si era sviluppata con motivazioni analoghe la convinzione della necessità di superare la divisione dell’Europa, nonostante le difficoltà di comunicazione e il sostanziale isolamento dei vari movimenti di resistenza. I due più importanti incontri di esponenti federalisti dei movimenti di resistenza di vari paesi si tennero solo verso la fine della guerra, nel 1944 a Ginevra e nel 1945 a Parigi; nel 1944 erano stati sottoscritti degli accordi tra i partigiani italiani e francesi. La convinzione della necessità di superare la divisione era determinata dalla crisi degli Stati nazionali europei che erano tutti crollati o all’inizio della guerra di fronte all’espansione nazista (ad eccezione del Regno Unito dove questa consapevolezza era meno diffusa in quanto lo Stato nazionale aveva resistito alla minaccia tedesca), o alla fine con la disfatta dell’Italia e della Germania. Come diffusa era la convinzione, dato il fallimento della Società delle Nazioni, che solo la federazione, con la limitazione della sovranità assoluta degli Stati, avrebbe impedito le guerre civili europee e risolto il problema tedesco. Per eliminare i nazionalismi e le guerre, la federazione doveva essere dotata di un governo con poteri limitati, ma reali per evitare il centralismo, poter agire efficacemente e non essere bloccato dal diritto di veto. Dai documenti dei resistenti europei emergeva anche la necessità di un mercato comune che evitasse la frammentazione dell’Europa in tante economie chiuse e protezionistiche che condannavano il continente alla povertà.
Il secondo contributo dell’opera di Lipgens riguarda l’organicità e la chiarezza dell’analisi del sistema internazionale dell’immediato dopoguerra che prima impedì e poi favorì l’unificazione. Nonostante l’orientamento favorevole dei movimenti e dei partiti antifascisti e le prese di posizione di Winston Churchill, nei primi due anni dopo la fine della guerra nessuna iniziativa fu presa per unificare l’Europa a causa della dinamica internazionale creatasi tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Non si dimentichi che il 16 giugno 1940 Churchill aveva proposto l’unione indissolubile tra Regno Unito e Francia per resistere all’aggressione nazista e nel discorso radiofonico del 21 marzo 1943 auspicato l’istituzione di un Consiglio d’Europa per dirimere le controversie ed evitare i conflitti. L’URSS, invece, rimase decisamente contraria all’unificazione europea motivando la sua scelta con la volontà di impedire la ricostituzione del cordone sanitario ai suoi confini. In realtà, la frammentazione dell’Europa in tanti Stati piccoli e quindi deboli era funzionale alla politica di potenza sovietica; emblematico al riguardo il veto posto da Stalin nel 1948 al progetto di federazione balcanica proposto da Tito e Dimitrov. Tra il 1945 e il 1947 gli USA non sostennero l’integrazione sia per non urtarsi con l’URSS in modo da organizzare, seguendo ancora l’obiettivo rooseveltiano, la stabilità internazionale in accordo con i sovietici, sia perché ritenevano le organizzazioni regionali in contraddizione con quella universale delle Nazioni Unite. La loro posizione mutò con lo scoppio della guerra fredda, quando con l’enunciazione della dottrina Truman e l’avvio del piano Marshall l’integrazione dell’Europa occidentale divenne un elemento della loro politica di contenimento dell’espansione comunista.
Il sistema internazionale creato subito dopo la fine della guerra prevedeva dunque la ricostituzione degli Stati nazionali sovrani, anche se la sovranità era ormai solo più formale essendo i paesi europei integrati in due alleanze egemonizzate dalle superpotenze, non il loro superamento in una organizzazione sovrannazionale. Il Regno Unito e la Francia, i due Stati europei che avevano conservato un minimo di autonomia, perseguirono nell’immediato dopoguerra obiettivi nazionali. Il primo inseguendo il sogno illusorio di impersonare il ruolo del terzo grande, la seconda abbandonando le tesi federaliste della Resistenza e riprendendo la tradizionale politica della Terza Repubblica fondata sulla rivalità franco-tedesca e sull’alleanza con la Russia per accerchiare il nemico tradizionale. L’integrazione europea poté decollare solo dopo la trasformazione del sistema internazionale a seguito della rottura tra le superpotenze, lo scoppio della guerra fredda e il lancio del piano Marshall i cui aiuti erano condizionati alla cooperazione fra i paesi dell’Europa occidentale.
Il terzo e più innovativo contributo di Lipgens riguarda la ricostruzione dell’elaborazione teorica e del ruolo politico svolto dalle organizzazioni europeistiche in quel periodo. Dalla sua analisi emerge l’importanza di questi movimenti, nonostante le diversità dell’impostazione teorica e dei progetti di unificazione, nell’avere rappresentato l’elemento integrativo europeo autonomo rispetto alla politica americana e nell’avere recuperato il patrimonio europeista e federalista della Resistenza. Le iniziative promosse da queste organizzazioni manifestarono la preesistenza sul continente, rispetto alla spinta proveniente dagli Stati Uniti, della volontà di unificazione e la capacità di suscitare le energie endogene a favore dell’integrazione che permisero alla pressione americana, dal 1947 in poi, di avere successo. Occorre ricordare che due fatti significativi avevano spinto nella direzione dell’unificazione, poco prima del lancio del piano Marshall: il discorso pronunciato da Churchill all’Università di Zurigo il 19 settembre 1946 e l’iniziativa a favore della federazione europea lanciata da Richard Coudenhove-Kalergi nel novembre dello stesso anno. Con il primo l’ex Primo ministro britannico auspicava la costruzione di una sorta di Stati Uniti d’Europa e la riconciliazione tra la Francia e la Germania e rilanciava l’idea dell’unità europea screditata dalla visione nazista del nuovo ordine europeo. Con la seconda l’autore di Paneuropa aveva organizzato l’invio di una lettera-questionario a 4000 parlamentari dei paesi dell’Europa occidentale, in cui chiedeva di esprimersi a favore o contro la federazione europea. Tra il novembre 1946 e il maggio 1947 arrivarono 1329 risposte, di cui solo 39 contrarie. L’iniziativa ebbe un peso politico non indifferente e dimostrò la predisposizione favorevole all’unità europea da parte dei parlamentari dell’Europa occidentale prima dell’avvio della politica americana a sostegno dell’unificazione.
I movimenti europeisti, quindi, svilupparono la tesi, elaborata già durante la Resistenza, dell’Europa come terza forza tra Stati Uniti e Unione Sovietica grazie all’istituzione di un sistema politico ed economico che conciliasse libertà individuali e giustizia sociale tramite l’intervento pubblico nel campo socio-economico. Tesi ripresa, come dimostrato dai documenti raccolti da Lipgens, dai federalisti, a seguito del piano Marshall, con la decisione di “cominciare a Occidente” a unificare l’Europa, decisione determinata dalla situazione concreta generatasi con la guerra fredda. L’unificazione era ormai possibile solo nell’area d’influenza americana, ma l’unione, rafforzando i paesi europei, avrebbe reso possibile la loro emancipazione dagli USA e quindi la creazione del terzo polo.
Infine, dal lavoro di Lipgens emerge come fossero presenti fin dall’epoca della seconda guerra mondiale i tre approcci fondamentali all’integrazione: quello intergovernativo rappresentato in particolare da Churchill; quello funzionalistico utilizzato da Monnet già nella cooperazione bellica tra le potenze alleate e poi con le Comunità; quello sovrannazionale propugnato dai movimenti federalisti, a partire da Federal Union prima ancora dello scoppio del conflitto.
In Italia la storiografia dell’integrazione europea è stata avviata fin dagli anni Settanta in particolare dallo storico federalista Sergio Pistone (numerosi sono i suoi studi e le pubblicazioni sul tema: Pistone 1969; 1973; 1975; 1977; 1978; 1982; 1992; 1996; 1999; 2008), titolare della prima cattedra universitaria italiana di Storia dell’integrazione europea, istituita nel 1984 presso l’Università di Torino. Gli storici federalisti sono stati, dunque, tra i primi a coltivare gli studi in materia; il fatto non deve stupire, stante l’ovvio interesse scientifico e ideale da questi nutrito verso l’argomento.
Oltre che a Torino, i primi centri che hanno coltivato gli studi sull’integrazione europea e il federalismo sono stati Pavia e Siena. All’Università di Pavia hanno lavorato il filosofo Mario Albertini, teorico del pensiero federalista e presidente del Movimento federalista europeo e dell’Unione dei federalisti europei, e gli storici Giulio Guderzo, Luigi Vittorio Majocchi, Daniela Preda, Cinzia Rognoni Vercelli. Nel 1988 fu istituito il dottorato in Storia del federalismo e dell’unità europea, diretto da Giulio Guderzo fino alla sua fusione con un altro dottorato nel 2004. All’Università di Siena ha lavorato Ariane Landuyt, fondatrice e direttrice del Centro di ricerca sull’integrazione europea creato nel 1988, e attualmente vi lavora Daniele Pasquinucci. A questi centri pionieristici si sono via via aggiunti negli anni altri nuclei in varie università (fra cui Genova con Daniela Preda, Forlì con Giuliana Laschi, Padova con Antonio Varsori, Pisa con Marinella Neri Gualdesi, Milano con Piero Graglia (Sulla storiografia dell’integrazione europea cfr. Varsori 2001: 69-93; Preda 2013: 35-65; 2014: 23-63).
Nel 1985, sotto gli auspici della Fondazione Europea Luciano Bolis, la casa editrice il Mulino avviava la pubblicazione della collana Biblioteca Federalista che riproponeva alcuni testi classici del pensiero federalista essenziali per capire la nascita e l’evoluzione dell’integrazione europea. Dal 1989 le ricerche sull’integrazione europea trovavano uno specifico sbocco editoriale nella collana Fonti e studi sul federalismo e sull’integrazione europea, diretta da Giulio Guderzo, e dal 2006 da Ariane Landuyt, pubblicata dalla casa editrice Jaca Book e dal 2000 da il Mulino.
I primi storici di professione erano stati preceduti, nella pubblicazione di opere sulla storia dell’unificazione, da giornalisti e da alcuni protagonisti dell’integrazione europea, per lo più membri dei movimenti europeistici, che avevano colmato il vuoto lasciato dai primi con la memorialistica e la ricostruzione diretta di avvenimenti di cui erano stati protagonisti allo scopo di non disperderne la memoria (Preda 2013: 43 e n.22, dove è possibile reperire una nutrita bibliografia delle pubblicazioni dei protagonisti dell’avvio del processo di integrazione di vari paesi europei risalenti ai primi decenni dell’unificazione).
La seconda metà degli anni Ottanta ha visto la diffusione degli studi europei in coincidenza sia con l’avvio dell’apertura degli archivi (trascorsi i 30 anni) sia con la ripresa dell’integrazione, dopo lo stallo del periodo precedente, grazie all’Atto unico europeo e al Trattato di Maastricht e alle iniziative della Commissione che lanciava l’Azione Jean Monnet. Sono di quel periodo anche le decisioni mirate a rafforzare il senso dell’identità europea e a mettere in evidenza gli elementi della comune civiltà: il programma Erasmus (1987), la risoluzione sulla dimensione europea dell’insegnamento (1988), la direttiva sul riconoscimento generalizzato dei titoli di studio (1989), il riconoscimento delle competenze comunitarie in materia di istruzione e cultura (1992).
Le teorie dell’integrazione europea
La storiografia dell’integrazione europea è stata influenzata dalle diverse teorie che hanno cercato di spiegare la natura del processo di unificazione e delle istituzioni comunitarie, di evidenziarne le criticità, di rispondere ad alcune domande relative al processo integrativo: quali sono stati gli elementi propulsivi dell’unificazione? i governi o anche altre forze politiche, economiche, sociali, la burocrazia sovrannazionale, gruppi d’interesse, attori non governativi come i movimenti europeisti ecc.? Quali sono i meccanismi decisionali? l’Unione è stata fondata attraverso trattati internazionali, che fungono però da diritto primario; l’Unione quindi non è uno Stato, ma possiede alcune caratteristiche della statualità (la moneta, il carattere vincolante delle norme, il primato del diritto comunitario su quello nazionale ecc.); qual è, allora, il carattere specifico dell’Unione rispetto alle altre organizzazioni internazionali? I paesi membri sono stati indeboliti, con la perdita di parte dei loro poteri sovrani, o rafforzati dall’integrazione? L’unificazione europea è un fenomeno unico o può essere replicato in altre parti del mondo?
Diverse, e discordanti, teorie sono state avanzate per spiegare la nascita e lo sviluppo delle Comunità/Unione, teorie riviste e aggiornate durante le successive fasi della sua evoluzione e che hanno variamento influenzato il suo corso (sulle teorie dell’integrazione europea cfr. Rosamond 2000; Schwok 2005; Castaldi 2007; cfr. anche in questo Dizionario le voci Teorie della integrazione e Metodo della integrazione). Tre sono gli approcci fondamentali: quello federalista, quello funzionalista e quello intergovernativo/confederale o realista (senza dimenticare il costruttivismo e l’istituzionalismo). La teoria che è alla base della nascita della storiografia dell’integrazione europea, come si è visto, è quella federalista, cui si contrappone l’approccio intergovernativo, che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta quando il metodo federale delle origini è ormai entrato in crisi, anche per effetto della salita al potere in Francia di de Gaulle. Secondo l’intergovernativismo, che trova le sue basi teoriche nella teoria realista delle relazioni internazionali, gli attori principali del processo di integrazione sono gli Stati e i governi, disposti anche a cedere alcuni poteri al fine di impegnarsi in forme permanenti di cooperazione, ma senza incidere in maniera sostanziale sulla loro sovranità e quindi mantenendo il diritto di veto, almeno sulle questioni essenziali. Le Comunità/Unione sono una forma classica di organizzazione internazionale e nei negoziati i governi difendono strenuamente l’interesse nazionale, è escluso ogni sbocco federale, gli organi comuni hanno caratteristiche tecniche di supporto agli Stati nel trovare un compromesso accettabile da tutti.
L’intergovernativismo, in polemica con il federalismo, è giunto anche alla conclusione che l’integrazione europea abbia rafforzato gli Stati; questa tesi è stata sviluppata in particolare da Alan Milward, in aperta polemica con la storiografia federalista (Milward 1992; 1993). Secondo Milward l’integrazione europea non è stata il risultato dell’azione di grandi uomini, i santi dell’Europa (Milward ironizza sull’appartenenza democristiana dei padri dell’Europa; d’altronde i britannici avevano liquidato con derisione l’avvio dell’integrazione come Europa vaticana), né dell’effetto spillover, né della volontà di creare istituzioni sovrannazionali, tanto meno per l’impulso di nobili ideali, ma è stata il prodotto di duri negoziati in cui i governi difendevano la sovranità e l’interesse nazionale. La cessione di poteri all’Europa avveniva sulla base di un denominatore comune il più basso possibile, in particolare nel settore economico in cui i paesi europei non erano più in grado di conseguire gli obiettivi necessari senza integrarsi. L’integrazione permetteva così agli Stati di rafforzarsi, non di erodere il loro potere, di continuare a offrire beni pubblici e di garantirsi il consenso dei cittadini.
Scrive Milward: “Tutti i tentativi volti a spiegare il processo di integrazione europea degli anni Cinquanta mediante analisi di lungo periodo dell’economia o dello sviluppo dello Stato, sono accomunati dalla mancata individuazione del particolare meccanismo che indusse gli Stati europei a rinunciare a elementi di sovranità nazionale in quel dato momento storico. In realtà si può spiegare adeguatamente il processo d’integrazione dell’Europa in formazione soltanto se vi si vede il prodotto della crescita delle ambizioni e del potere degli Stati nazionali. Per preservare il consenso politico su cui si fondò la sua restaurazione nel dopoguerra, lo Stato fu costretto a proiettarsi al di fuori delle proprie frontiere e a creare le istituzioni della Comunità europea per sostenere le sue ambizioni interne. La Comunità fu dunque il frutto non già dell’indebolimento dello Stato nazionale, ma del suo rafforzamento” (Milward 1992: 197). Per ottenere il consenso dell’opinione pubblica (lavoratori, agricoltori e in particolare il ceto medio in crescita), occorreva restaurare, dopo la guerra e la perdita degli imperi coloniali, lo Stato nazionale quale unità organizzativa fondamentale in grado di assicurare la sua funzione più antica, la protezione dei cittadini, intesa non solo come protezione contro i nemici esterni, ma anche e soprattutto come sicurezza economica e sociale. Salvare lo Stato assistenziale, a costo di una parziale cessione di sovranità, e assicurare il benessere equivaleva a ottenere il consenso e la legittimità per continuare a governare.
Il funzionalismo è la teoria che ha ispirato l’avvio dell’integrazione europea. È stata elaborata da David Mitrany negli anni Trenta e Quaranta del Novecento (cfr. Mitrany 1943) e parte dal presupposto che i politici non siano in grado di gestire efficacemente i problemi internazionali in quanto difendono gli interessi nazionali (e mirano a mantenersi al potere) e ignorano quello generale. La priorità è il bene pubblico, non lo Stato nazionale o un particolare credo politico, che è meglio perseguito da specialisti indipendenti e imparziali, con una formazione scientifica comune, abituati ad affrontare i problemi con una mentalità pratica condivisa e non inquinata da ideologie divisive. La cooperazione internazionale si realizza attraverso agenzie specializzate destinate ad assolvere funzioni specifiche e settoriali e dotate dei poteri sufficienti per realizzarle. Il funzionalismo si espone così alla critica di ignorare gli aspetti politici dei problemi e di ricorrere a soluzioni tecnocratiche. Norberto Bobbio definì infatti il funzionalismo una concezione tecnocratica del potere (Bobbio 1975: 233).
Jean Monnet ha applicato il funzionalismo all’integrazione europea. Convinto dell’inefficacia del metodo intergovernativo, che aveva sperimentato come segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni, e del carattere prematuro del federalismo nell’Europa della fine degli anni Quaranta, riteneva di arrivare alla federazione europea step by step, attraverso l’integrazione progressiva di settori economici specifici e il graduale trasferimento di sovranità agli organi comuni a partire dall’economia per giungere alla fine di un lento processo integrativo, quasi automaticamente, alla politica, cioè allo Stato federale.
Il funzionalismo è stato la premessa del neofunzionalismo, elaborato da Ernst Haas alla fine degli anni Cinquanta (cfr. Haas 1958; si veda anche Lindberg 1963) sulla base del successo dell’azione di Jean Monnet, dello sviluppo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e della firma dei trattati di Roma. L’elemento fondamentale del neofunzionalismo è l’effetto spillover, cioè la capacità che ha l’integrazione di uno specifico settore dell’attività economica di trascinare altri settori, così da espandere e intensificare il processo integrativo. Elementi propulsori sono la dinamica interna delle Comunità, che sfugge alla volontà stessa dei suoi fondatori e che spinge verso una progressiva evoluzione dell’integrazione, e il ruolo svolto da attori non statali, quali la Commissione, determinata a rafforzare la propria influenza, la burocrazia europea, i gruppi di interesse economici (le imprese) e sociali (le organizzazioni professionali), le lobby insediate a Bruxelles. Per il neofunzionalismo, le motivazioni degli Stati passano in secondo piano; questi sono costretti a trasferire maggiori poteri agli organismi sovrannazionali per effetto delle pressioni provenienti dagli attori non statali.
La storiografia federalista dell’integrazione europea
Il federalismo è stato una fonte d’ispirazione della costruzione europea; vi hanno fatto riferimento molti politici, tra i quali i padri delle Comunità. Una delle sue caratteristiche fondamentali è la preservazione delle autonomie e delle diversità degli enti federati.
La storiografia federalista è stata ed è oggetto di una serie di critiche, tra cui quella di essere una storiografia militante e teleologica, verosimilmente dovuta al fatto che la teoria federalista è stata impiegata sia come principio euristico per spiegare i fatti storici del Novecento sia come strumento di lotta politica da parte dei fautori dell’integrazione europea, con l’evidente rischio di sovrapposizione della figura del ricercatore e di quella del militante. A ciò si aggiunga il fatto che la storia dell’integrazione europea, occupandosi, come la storia contemporanea, di eventi vicini, corre un rischio più alto di essere di parte e di farsi coinvolgere nella polemica sui fatti contemporanei rispetto alla storiografia che si occupa di avvenimenti lontani nel tempo.
Tenere distinta la sfera della ricerca da quella delle convinzioni personali e dell’eventuale impegno politico non è facile data l’unitarietà dell’individuo, ma neppure impossibile. D’altronde, qualsiasi ricercatore di qualsiasi ambito del sapere è influenzato dal suo vissuto, dai suoi ideali, dai suoi punti di vista. Ciò che è scientifico è il metodo di indagine. Se certi elementi di soggettività sono ineliminabili, lo storico può e deve evitare che pregiudizi, passioni, simpatie o antipatie, convenienze individuali, religiose, etniche, nazionali condizionino la ricerca. Come sottolinea Edward Carr, “il dovere dello storico di rispettare i fatti non si limita all’obbligo di accertare l’esattezza dei fatti da lui registrati. Egli deve cercare di inserire nel proprio quadro tutti i fatti conosciuti o conoscibili che abbiano un certo rilievo, in un senso o nell’altro, per il tema della ricerca o per l’interpretazione proposta […] l’esame or ora compiuto del rapporto tra lo storico e i fatti storici ci lascia in una situazione apparentemente precaria, naviganti rischiosamente tra Scilla, cioè un’insostenibile concezione della storia come compilazione obiettiva di fatti e assoluto primato dei fatti sul momento interpretativo, e Cariddi, cioè una concezione altrettanto insostenibile della storia come prodotto soggettivo della mente dello storico, che crea i fatti storici e li domina mediante il processo interpretativo: tra una concezione della storia che ha il suo centro di gravità nel passato e un’altra concezione che ha il proprio centro di gravità nel presente. […] Il rapporto tra lo storico e i fatti si svolge su un piano di parità, di scambio reciproco […], lo storico è perpetuamente intento ad adeguare i fatti all’interpretazione e l’interpretazione ai fatti” (Carr 1966: 35-37). Qualche pagina prima Carr mette in guardia il lettore di libri di storia con un’osservazione di carattere generale: “i fatti storici non ci giungono mai in forma ‘pura’, dal momento che in questa forma non esistono e non possono esistere: essi ci giungono sempre riflessi nella mente di chi li registra. Ne consegue che, quando cominciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto e solo in un secondo tempo dei fatti che esso prende in esame” (ibid.: 29).
Storiografia militante è quella federalista che si occupa dell’integrazione europea, come quella marxista che si occupa del movimento operaio, quella cattolica che studia il partito popolare, quella liberale che si occupa di Cavour o di Giolitti. Quale narrazione storica è indipendente dal punto di vista dello storico? L’essere coinvolto in un movimento politico impedisce di raccontarlo e spiegarlo nel rispetto dei criteri storiografici? Si può essere storici marxisti, cattolici, liberali o federalisti ed essere impegnati in partiti o associazioni della società civile senza subordinare il lavoro storiografico a interessi di parte (non mancano illustri esempi di storici militanti ma non per questo faziosi). Può capitare che il militante prevarichi sul ricercatore in maniera più o meno rilevante (dal sopravvalutare o sottovalutare un evento o personaggio alla manipolazione dei documenti per confermare o meno le proprie convinzioni). In questo caso la critica storiografica s’incaricherà di smascherare puntualmente eventuali forzature e falsificazioni, senza contrapporre una diversa convinzione personale e scadere nella prospettiva opposta di una storiografia “militante” e preconcetta anti-federalista. Daniele Pasquinucci, per esempio, ha evidenziato i limiti della storiografia federalista; senza entrare nel merito delle sue critiche, va sottolineato comunque l’interesse delle sue osservazioni (Pasquinucci 2009: 395-415; cfr. anche Pasquinucci 2010: 66-84).
Ma se viene rispettato il metodo scientifico, l’essere militanti rappresenta un valore aggiunto per la ricerca in quanto lo storico in questione nutre una certa sensibilità verso l’oggetto della sua ricerca che lo porta a cogliere e sottolineare aspetti più difficilmente percepibili da storici estranei a quel dato tema. Può, inoltre, avere accesso a informazioni e notizie “dall’interno” dell’oggetto del suo studio, anche perché è stato magari in qualche misura partecipe, se non protagonista, dei fatti che racconta. Richiamandosi alla filosofia della storia di Robin G. Collingwood, Carr nota che lo storico deve possedere la capacità “di rappresentarsi e comprendere la mentalità degli uomini che studia e i pensieri che i loro atti sottintendono […]. Non si può scrivere storia se lo storico non raggiunge una qualche sorta di contatto con la mentalità di coloro di cui sta scrivendo” (Carr 1966: 31; cfr. Collingwood 1942, in particolare il capitolo History as re-enactment of past experience). Comprensione e contatto più agevolmente conseguibili se c’è una certa condivisione di punti di vista tra lo storico e ciò che narra. D’altronde, uno dei testi classici del pensiero politico, The federalist papers, fu scritto da tre militanti e l’importanza degli 85 saggi non è certo sminuita dal fatto che Alexander Hamilton, James Madison e John Jay fossero intensamente impegnati nella ratifica della nuova costituzione degli Stati Uniti, alla cui redazione i primi due avevano anche partecipato.
Scrive Marc Bloch: “Ogni ricerca storica presuppone, sin dai primi passi, una direzione di marcia. In principio, c’è una mente pensante. Mai, in nessuna scienza, l’osservazione passiva – sempre nell’ipotesi che essa sia possibile – ha prodotto alcunché di fecondo” (Bloch 1969: 70). La direzione di marcia di uno storico federalista sono i principi del federalismo: la crisi dello Stato nazionale, la distinzione fra federazione e confederazione, la linea di divisione tra progresso e reazione.
La crisi dello Stato nazionale sovrano è sia un fatto storico che ha caratterizzato la storia del Novecento sia un principio euristico utile per spiegare non solo l’integrazione europea, ma anche l’origine delle guerre mondiali e il fascismo. Luigi Einaudi fu uno dei primi a elaborare il concetto di crisi dello Stato nazionale fin dai primi anni del Novecento, concetto approfondito poi dai federalisti inglesi negli anni Trenta, in particolare da Lionel Robbins, lord Lothian e Barbara Wootton, e da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. In uno dei suoi scritti più importanti in materia scriveva: “Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta. La verità è il vincolo, non la sovranità degli Stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta. Per mille segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti e arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri […]. Lo Stato isolato e sovrano perché bastevole a se stesso è una finzione dell’immaginazione; non può essere una realtà. Come l’individuo isolato non visse mai, salvo che nei quadri idillici di una poetica età dell’oro, come l’uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in società con altri uomini; e soltanto l’uomo legato con vincoli strettissimi agli uomini può aspirare a una vita veramente umana, così non esistono Stati perfettamente sovrani, ma unicamente Stati servi gli uni degli altri; uguali e indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l’un l’altro servigio” (Junius 1918a: 2). La critica alla sovranità assoluta fu ribadita con forza da Einaudi ancora nel 1945 con l’articolo dal titolo significativo: Per una nuova Europa. La federazione dei popoli contro il mito dello stato sovrano (Einaudi 1945a: 1-2), e che fu ripubblicato per due volte nello stesso anno con il titolo Contro il mito dello stato sovrano (Einaudi 1945b: 1; Einaudi 1945c: 1).
La rivoluzione industriale aveva prodotto la contraddizione tra le relazioni economiche e sociali che si erano andate dilatando, coinvolgendo tutto il mondo, e la dimensione della politica che era rimasta costretta entro i confini nazionali e quindi incapace di governare eventi che superavano le frontiere dei singoli Stati. In termini attuali, diremmo che il mercato è diventato globale mentre la politica è rimasta nazionale, con la contraddizione tra il livello internazionale dei problemi da affrontare e quello nazionale delle soluzioni predisposte, incapaci quindi di risolverli. La necessità dell’integrazione europea deriva, dunque, dalla crisi degli Stati troppo piccoli per affrontare problemi che esorbitano dai loro confini. Come aveva intuito Einaudi nel 1954, l’integrazione europea permette agli Stati nazionali di sopravvivere, seppure ridimensionati nel loro ruolo a causa del trasferimento di poteri verso il basso (federalismo infranazionale) e verso l’alto (federalismo sovrannazionale), ma non certamente cancellati come organizzazione politica garante di determinati beni pubblici: “La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire (Einaudi 1956: 89). Per Einaudi solo l’unione permette agli Stati nazionali di durare. Il federalismo non postula la fine dello Stato nazionale, ma una struttura statuale multilivello in modo da garantire coerenza tra i livelli di governo e i beni pubblici che quelli devono fornire.
L’idea che l’integrazione europea abbia permesso agli Stati nazionali di rafforzarsi è stata sottolineata anche da Mario Albertini nel 1966: “Il nazionalismo che si è sviluppato di nuovo in questi ultimi anni […] dipende dalla ripresa degli Stati, ma la ripresa degli Stati dipende a sua volta dall’unità economica dell’Europa, ossia dal fatto che smentisce proprio il nazionalismo, gli impedisce di svilupparsi pienamente e finirà per distruggerlo” (Albertini 1966a: 3). E ancora: “mediante la formazione di un’economia di grandi dimensioni, l’integrazione europea restituisce ai poteri nazionali esclusivi, prima di abbatterli, una apparenza di vitalità” (Albertini 1966b: 3).
Una sorprendente, alla luce dei recenti avvenimenti relativi alla Brexit, presa d’atto della crisi dello Stato nazionale è contenuta nel libro bianco del 1971 preparato dal governo britannico per motivare la decisione di entrare nelle Comunità europee. In esso si constata l’incapacità del paese di continuare a garantire sicurezza e benessere ai cittadini e quindi la necessità di aderire all’unificazione: “Il governo di Sua Maestà è convinto che il nostro paese sarà più sicuro, che la nostra capacità di garantire la pace e di promuovere la sviluppo del mondo sarà maggiore, che la nostra economia sarà più forte e che le nostre industrie e che la nostra gente saranno più prospere se entreremo nel Mercato comune […]. L’Europa occidentale è uno dei grandi centri della storia mondiale, ma, presa singolarmente, nessuna delle nazioni che ne fanno parte è tanto potente da esercitare un’influenza decisiva […]. Ciascun paese membro può creare solo una parte molto limitata delle realizzazioni tecnologiche e industriali moderne da cui dipendono in gran parte la sicurezza e la prosperità futura” (Levi, Morelli 1994: 179 e 181).
L’integrazione europea, dunque, era necessaria per salvare gli Stati nazionali, data la loro incapacità di risolvere certi problemi, dal collasso e appariva la risposta adeguata alla loro crisi storica. E la risposta dell’unificazione europea alla crisi degli Stati nazionali è sempre attuale di fronte all’odierna ondata populista e sovranista che rischia di travolgere gli Stati e la democrazia.
I padri fondatori, consapevoli di tale crisi come emerge dai loro scritti, avevano l’obiettivo di risolverla. Prendendo i voti a livello nazionale e rispondendo a elettorati nazionali, dovevano perseguire l’interesse del proprio paese, che è lo scopo di qualsiasi governante. Nessuno di loro era probabilmente disposto a compromettere la propria carriera politica per perseguire un ideale né aveva l’intenzione di sacrificare l’interesse nazionale sull’altare dell’ideale europeistico; risolvendo la crisi, avrebbero peraltro anche rafforzato il potere personale e del loro partito. A loro giudizio l’interesse dei rispettivi paesi si identificava con la costruzione dell’Europa; scrive Albertini: “L’azione dei leader nazionali, non avendo come fine il superamento ma il potenziamento della vita nazionale, tende a restare nei limiti confederali (tutto il potere agli Stati); ma come azione europea riesce proprio, e solo, quando, consapevolmente o no, li supera. È un caso ricorrente che si verifica quando le soluzioni nazionali risultano impossibili. In questi casi i leader nazionali agiscono come leader europei, fino ad assumere una vera e propria figura europea” (Albertini 1999: 257-258). I federalisti, dunque, hanno sottolineato come la promozione della costruzione europea da parte della leadership nazionale perseguisse interessi nazionali e mirasse a salvare lo Stato nazionale. In effetti, la tesi di Milward secondo cui l’integrazione ha salvato gli Stati nazionali conferma la tesi federalista della loro crisi (se non ci fosse stata la crisi, che bisogno c’era di salvarli?). Il concetto della crisi degli Stati nazionali è alla base dell’integrazione europea ieri come oggi. Altre cause, invece, sono di natura contingente, spiegando l’origine e l’evoluzione del processo in un determinato arco di tempo; la guerra fredda, per esempio, fondamentale nell’avvio dell’unificazione, è cessata, mentre l’integrazione è proseguita, dimostrando che alla base del fenomeno c’è una causa di “lunga durata”, la crisi, appunto degli Stati nazionali sovrani.
Perseguendo l’interesse nazionale attraverso l’unificazione dell’Europa, i padri fondatori realizzavano una non comune coincidenza tra interessi e valori. Essi agivano in difesa degli interessi del loro paese (la cessione di sovranità all’Europa avveniva in primo luogo a seguito della costrizione determinata dalla crisi degli Stati nazionali, non per l’ideale, o non soltanto per l’ideale federalista), ma senza negligere quei valori che coincidevano con la costruzione europea, fra cui la pace. Daniela Preda nel volume su Alcide De Gasperi testimonia quanto l’ideale europeistico fosse presente nel leader democristiano fino negli ultimi giorni di vita che (cfr. Preda 2004), come ricorda la figlia Maria Romana, furono “i giorni ansiosi delle lettere a Canali, Rumor, Fanfani e della drammatica telefonata a Scelba. Vidi le lacrime che scendevano senza vergogna sul volto ormai vecchio di mio padre, mentre gridava per telefono al Presidente del Consiglio: ‘Meglio morire che non fare la CED!’” (Catti De Gasperi 1964: 770).
Nella dichiarazione Schuman il riferimento alla pace torna sei volte, a riprova del valore irenico attribuito all’integrazione europea, costantemente richiamato fino ad oggi dagli statisti più illuminati e suffragato con l’attribuzione del premio Nobel per la pace all’Unione europea nel 2012. I santi europei, sui quali ha ironizzato Milward, un miracolo l’hanno compiuto: sono riusciti a pacificare l’Europa e a superare il secolare antagonismo franco-tedesco o meglio, più laicamente, hanno creato le istituzioni che hanno permesso ai paesi europei di risolvere le controversie pacificamente anziché ricorrere alla guerra (senza dimenticare, ovviamente, gli altri fattori concomitanti che hanno favorito l’integrazione quali la minaccia sovietica e la garanzia difensiva americana realizzata con il Patto atlantico). L’integrazione europea, dunque, anziché la politica di potenza per perseguire l’interesse nazionale!
Il secondo principio fondamentale per la teoria federalista è la distinzione tra federazione e confederazione, che risale a Einaudi, il quale in un articolo del 1918 criticò aspramente la proposta della Società delle Nazioni: “I più, quando discorrono di ‘società delle nazioni’, pensano a una specie di perpetua alleanza o confederazione di Stati, la quale abbia per scopo di mantenere la concordia fra gli Stati associati, difenderli contro le aggressioni straniere e raggiungere alcuni scopi comuni di incivilimento materiale e morale. Tutti implicitamente ammettono che gli Stati alleati o confederati debbano rimanere pienamente sovrani e indipendenti; che non si debba costituire un vero superstato fornito di una sovranità diretta sui cittadini dei vari Stati, con diritto di stabilire imposte proprie, mantenere un esercito super-nazionale, distinto dagli eserciti nazionali, padrone di una amministrazione sua diversa dalle amministrazioni nazionali. I più non pensano a questa seconda specie di ‘società delle nazioni’, perché non a torto ritengono che questa non sarebbe una ‘società’ di nazioni ugualmente sovrane, ma un unico Stato sovrano di cui le nazioni attuali diventerebbero semplici province. Si vogliono, sì, gli Stati uniti d’Europa, ma ogni Stato deve essere indipendente […]. Ora, se l’esperienza storica deve essere davvero la maestra della vita, tutti i discorsi sulla ‘società delle nazioni’ fatti in questi ultimi mesi di guerra sarebbero senz’altro apparsi vani, quando si fosse ricordata la fine miseranda dei tentativi sinora compiuti e durati talvolta per pochi anni e tal altra per secoli di ‘società delle nazioni’ intesa nel senso, che oggi appare unicamente possibile e desiderabile, di confederazione di Stati sovrani, ed il successo magnifico di quell’altro tipo di società delle nazioni, il quale culmina nella trasformazione dei preesistenti Stati sovrani in province di un unico più ampio Stato sovrano […]. Vogliamo noi combattere per un nome o per una realtà? Ammettasi che la realtà di uno Stato europeo o anche solo di uno Stato composto di tutti o parecchi degli attuali alleati sia difficilissima a raggiungersi. Tuttavia gli sforzi fatti per costruire uno Stato vivo di vita propria, con indipendente diritto di ripartire imposte sui suoi cittadini senza dipendere dal beneplacito di altri Stati sovrani, fornito di un esercito proprio, atto a mantenere la pace interna e a difendere il territorio contro le oppressioni straniere, dotato di una amministrazione sua doganale, postale, ferroviaria, sarebbero almeno sforzi compiuti per raggiungere uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irraggiungibile. Mentre invece gli sforzi fatti per creare una società di nazioni, rimaste sovrane, servirebbe solo a creare il nulla, l’impensabile, ad aumentare e invelenire le ragioni di discordia e di guerra” (Junius 1918b: 1-2). Citando Hamilton, Einaudi ricorda che «il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche è un puro nome” (ibid.).
Per Einaudi la prova della verità delle sue affermazioni era data proprio dalla storia degli Stati Uniti che avevano avuto due costituzioni, la prima confederale, durata pochi anni e del tutto inefficace, la seconda federale, derivante da un atto di volontà del popolo (“Noi, popolo degli Stati Uniti […]”), non di Stati sovrani, che aveva permesso al paese di svilupparsi fino a divenire una potenza mondiale. La tradizionale cooperazione internazionale è dunque basata su strutture intergovernative e non prevede il trasferimento di effettivi poteri agli organi comuni; l’integrazione sovrannazionale, invece, implica almeno una minima cessione di sovranità e la creazione di istituzioni sovrannazionali dotate di poteri effettivi.
Infine, il terzo principio è la nuova linea di demarcazione, precisata da Spinelli nel Manifesto di Ventotene, tra le forze del progresso e quelle della conservazione che non corre più tra sinistra e destra, ma tra federalisti e nazionalisti: “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale” (Spinelli, Rossi 2001: 22-23). Nuova linea di divisione tra progresso e reazione la cui attualità è stata confermata dalle vicende degli ultimi anni, in particolare dalla ricollocazione dei vari partiti sul fronte europeista o nazionalista e sovranista.
Se questi sono i principi del federalismo, ne deriva che la storiografia federalista tenderà a leggere la storia dell’integrazione europea come il tentativo di creare la federazione, mettendo in evidenza i passi avanti e gli arretramenti verso tale obiettivo e interpretando conseguentemente l’evoluzione del processo integrativo e l’azione dei protagonisti. Se si ritiene che sia in atto una crescente interdipendenza delle relazioni politiche, economiche, sociali, culturali e che tale interdipendenza non vada lasciata al libero gioco delle forze del mercato, dove prevale l’interesse di pochi, i più forti, ma vada governata dalla politica a beneficio di tutti, l’Unione europea e la sua storia sono lette e interpretate come il tentativo, a oggi peraltro il più avanzato, di governare la globalizzazione (a livello regionale). Se la federazione si è dimostrata storicamente efficace nel risolvere i problemi comuni a più paesi e la confederazione inefficace, ne deriva che la storiografia federalista tenderà a sottolineare i limiti dell’approccio intergovernativo e a interpretare conseguentemente l’azione dei governi.
Come scrive Carr, “i fatti storici presuppongono un certo grado d’interpretazione e le interpretazioni storiche implicano sempre un giudizio morale – o, se preferite un termine dall’apparenza più neutra, dei giudizi di valore” (Carr 1966: 87). Anche Benedetto Croce critica la storia filologica, erudita, che si riduce a compilazioni che “non contengono alcun pensiero storico […] libri di consultazione all’occorrenza, ma non già parole che nutriscano e riscaldino le menti e gli animi” (Croce 1973: 20).
Lo storico non solo narra, ma spiega e, in base alle categorie che ispirano la sua ricerca, pone delle domande, interpreta e valuta gli avvenimenti, affronta problemi storiografici. Croce, ricordato con Johann G. Droysen che “la storiografia consiste nella ‘Frage’, nel porsi della domanda storiografica”, scrive: “La formula stessa della ‘Frage’ rimane alquanto generica e vaga se non si determina più strettamente il carattere della domanda storiografica, distinguendola dalla filologica, con la quale suole andare confusa. Gran differenza corre, ad esempio, tra il domandare quale sia la serie dei documenti autentici o la successione cronologica dei fatti della Riforma luterana e quale, invece, il carattere e l’ufficio adempiuto dalla Riforma luterana. La prima domanda è mossa da bisogno tecnico di erudito, che vuole approntare e tenere in ordine i materiali per la storia da comporre; la seconda, dal bisogno morale di un’orientazione conoscitiva. La prima mena, dunque, non a un diretto conoscere ma alla preparazione pratica di un eventuale futuro conoscere; la seconda è questo conoscere stesso” (Croce 1970: 122-123).
Se uno storico ritiene che il processo di integrazione sia un fatto positivo perché permette di governare l’interdipendenza, sottolineare, per esempio, i limiti dell’Atto unico europeo rispetto al progetto Spinelli approvato dal Parlamento europeo nel 1984 non è una deformazione ideologica federalista, ma una oggettiva, e doverosa, valutazione delle insufficienze dell’Atto unico che impediscono il conseguimento dell’obiettivo dell’integrazione; ciò, ovviamente, senza omettere i meriti del provvedimento. E così celebrare il ruolo dei “santi europei” nell’avvio dell’unificazione non significa ignorare che questa è iniziata in un particolare contesto storico (la guerra fredda, la minaccia sovietica, la spinta americana, la paura del comunismo, il problema della Germania) che l’ha agevolata, mentre, come già ricordato, nei primi due anni successivi alla fine della guerra era stata ostacolata. Senza il coraggio politico, la determinazione, l’audacia, la lungimiranza di Schuman, Monnet, Adenauer, De Gasperi, Spaak difficilmente il processo si sarebbe avviato; non a caso, con l’emergere di altri leader e la scomparsa dalla scena politica dei “santi”, l’integrazione ha rallentato la sua marcia.
La storia dell’integrazione europea non è un cammino ineluttabile e irreversibile verso la federazione; questa può essere ritenuta auspicabile, anche necessaria per rispondere alle sfide del tempo, non un esito inevitabile. L’impiego di termini quali avanzamento o progresso non significa ritenere scontato lo sbocco federale di tale cammino. Scrive Mario Albertini a proposito del fallimento della CED: “l’integrazione europea non è un processo lineare bensì a fisarmonica, ossia un processo che può raggiungere diverse volte, senza sfruttarlo, il punto nel quale è possibile prendere la decisione di fondare la federazione europea” (Albertini 1966b: 3). Sergio Pistone, il più importante storico federalista italiano, in innumerevoli scritti ha denunciato il rischio di arretramento e di collasso dell’Unione europea, dimostrando di non ritenere ineluttabile la creazione della federazione. Errata quindi è la generalizzazione di giudicare tutta la storiografia federalista come finalistica. Una cosa è ritenere auspicabile la creazione della federazione europea, ritenerla un obiettivo progressista e individuare i fatti e i protagonisti che la favoriscono o la ritardano; un’altra è interpretare la storia dell’integrazione come deterministicamente votata a un esito inevitabile, la federazione.
L’integrazione europea è un processo, iniziato ormai settanta anni fa, ancora in corso, aperto a esiti diversi, senza uno sbocco precostituito. Questo processo non è stato, e non sarà, un cammino lineare e ininterrotto verso la federazione europea; tale cammino ha incontrato numerosi ostacoli sulla sua strada e forti resistenze (non a caso la federazione non è stata finora realizzata, per quanto auspicata da molti governanti). Le difficoltà, gli ardui negoziati, spesso segreti, in cui è stata strenuamente difesa la sovranità nazionale sono stati descritti innanzitutto dai federalisti, consapevoli degli ostacoli che si frapponevano alla creazione della federazione. Fu Spinelli a spiegare il motivo per cui gli unici due progetti costituzionali di unificazione elaborati da assemblee parlamentari (il progetto di comunità politica del 1953 e quello del Parlamento europeo del 1984) risultarono più avanzati in senso federale rispetto a quelli predisposti dalle conferenze diplomatiche, evidenziando i limiti dei negoziati intergovernativi. Il metodo di lavoro parlamentare, fondato sulla libera discussione e sulle decisioni prese a maggioranza, è più efficace di quello diplomatico, fondato sui mandati imperativi e sulle decisioni unanimi. Il vantaggio di un’assemblea composta da parlamentari consiste nel fatto che ogni singolo paese è sì adeguatamente rappresentato, ma non si formano delegazioni nazionali votanti come tali e su un mandato imperativo dei governi. Ogni membro dell’assemblea discute e vota liberamente. I diplomatici che siedono nelle conferenze intergovernative, invece, sono selezionati e addestrati a studiare i metodi più atti a garantire in ogni trattativa gli interessi particolari, la potenza e la sovranità del loro Stato. Sono capaci di elaborare trattati, per lo più in riunioni coperte dal segreto, ma non una costituzione nella quale si deve limitare la sovranità e il potere del loro paese e non sono disponibili a esaminare le questioni guardando all’interesse generale della futura comunità e a elaborare comuni punti di vista europei che superino gli egoismi nazionali (cfr. Spinelli 1953: 191-193).
Fu sempre Spinelli a illustrare il ruolo contraddittorio degli Stati e dei governi nell’integrare l’Europa e quindi la difficoltà di far avanzare l’integrazione. Gli Stati sono allo stesso tempo un ostacolo e uno strumento dell’unificazione. Lo Stato sovrano, con le sue possenti cristallizzazioni di interessi nazionali, è il principale ostacolo alla nascita della federazione per le resistenze frapposte alla cessione di sovranità, ma è anche il solo strumento che può realizzarla in accordo con altri Stati in quanto depositario della sovranità che deve essere condivisa. Ciò che obbliga i paesi a prendere in considerazione l’alternativa federalista è la crescente difficoltà di governare l’economia, di difendere l’indipendenza, di salvaguardare la democrazia singolarmente (cfr. Spinelli 1950: 335-336).
Ancora una volta è ribadito il fatto che l’integrazione salva gli Stati nazionali. Ciò che spinge i governi a cedere poteri a organi sovrannazionali è una situazione di crisi, di fronte alla quale l’alternativa non è l’integrazione o la conservazione dello statu quo, ma l’integrazione o il rischio del declino dei poteri nazionali. Monnet nella sua autobiografia aveva già sottolineato il ruolo delle crisi nell’integrazione europea: “J’ai toujours pensé que l’Europe se ferait dans les crises, et qu’elle serait la somme des solutions qu’on apporterait à ces crises” (Monnet 1976: 488). Le crisi, per sfociare in un avanzamento dell’integrazione, devono essere accompagnate dal ruolo dei movimenti europeisti che premono sui governi affinché prendano le misure adeguate. Esemplare è il caso della dichiarazione di unione tra Regno Unito e Francia del 1940; in prossimità del collasso della Francia, Churchill e de Gaulle, due uomini politici non certo federalisti, su suggerimento di Monnet e di Federal Union proposero l’unione tra i due paesi: la soluzione della crisi era individuata nell’unione, premessa della futura unificazione dell’Europa. Il segretario di Churchill, John Colville, colse appieno la portata della dichiarazione e annotò nei suoi diari che si trattava di un documento storico, le cui conseguenze sarebbero state di “grande portata”, più di qualsiasi altra cosa che fosse accaduta nel secolo. “Ci saranno grandi difficoltà da superare – scriveva Colville –, ma dinnanzi a noi sta il ponte verso un mondo nuovo, i primi rudimenti di una federazione europea o magari mondiale” (Colville 1985).
Tale scenario divenne paradigmatico nel processo di integrazione europea: le crisi esercitarono un ruolo propulsivo nel far avanzare l’integrazione e all’interno di queste crisi personalità indipendenti o centri d’iniziativa autonomi esercitarono un ruolo propositivo suggerendo ai governi soluzioni integrative capaci di far superare la congiuntura critica (sul ruolo delle crisi nell’integrazione europea cfr. Morelli 2013: 317-328).
La storiografia federalista ha evidenziato certi aspetti del processo integrativo particolarmente significativi per la teoria cui s’ispira. Innanzitutto, quello della democrazia, su cui Spinelli ha sempre insistito durante tutto il suo impegno in favore della federazione. La costruzione europea doveva essere democratica, cioè fondarsi sul consenso dei cittadini, quindi sull’elezione di un’assemblea costituente per ottenere la quale occorreva l’appoggio popolare, mobilitato dai movimenti europeisti. Come l’unificazione italiana aveva visto l’iniziativa dall’alto del re e di Cavour e quella dal basso di Mazzini e Garibaldi, a differenza di quella tedesca dove aveva agito solo l’iniziativa dall’alto di Bismarck, così a livello europeo occorreva, accanto all’iniziativa dall’alto dei governi, quella dal basso dei cittadini europei. Ecco, dunque, l’attenzione portata dalla storiografia federalista alle iniziative dei movimenti e dei loro leader, soprattutto di Altiero Spinelli, il cui ruolo non è stato certo secondario. Spinelli ha costantemente sottolineato la necessità dell’elemento democratico nella costruzione europea, ha partecipato con un ruolo fondamentale alla redazione dei due progetti costituzionali elaborati da assemblee parlamentari che, sebbene rimasti sulla carta, hanno tuttavia influito sugli sviluppi successivi, ha svolto una funzione determinante nella conversione europeista, se non federalista, di De Gasperi, Nenni e Berlinguer (a titolo d’esempio, ricordo l’influenza di Spinelli su De Gasperi per l’inserimento dell’art. 38 nel trattato sulla Comunità europea di difesa). Lungi dal crearne un mito, la storiografia federalista ha sottolineato la sua azione per l’Europa.
Comunque prosegua e si concluda, o fallisca, il processo di integrazione europea, questa rimane un fatto storico di enorme importanza: ha garantito la pace fra i paesi membri per parecchi decenni dopo secoli di guerre civili europee, ha consolidato la democrazia, ha assicurato un considerevole sviluppo economico, ha attuato un trasferimento di sovranità democratico e pacifico senza precedenti dagli Stati agli organi comunitari, ha creato istituzioni con parziali caratteri statuali di natura federale. Ricordare questi risultati mi sembra un dovere degli storici.
Umberto Morelli
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